Primo giorno: Sante Marie – Poggiovalle.
La sveglia era puntata sulle 6 e finalmente ho dormito bene. Di solito la preoccupazione di non sentire la sveglia mi tiene vigile tutta la notte, come per uno spirito di servizio del tutto masochistico.
Sono partito in macchina mentre si alzava umidità dalle colline e mi si appannavano gli occhiali da sole.
La tizia che lavorava al bar del benzinaio dove ho fatto il pieno era il mio grande amore delle scuole elementari. Me ne innamorai in seconda, lei faceva la quinta. Una mattina le portai un fiore, non lo volle, allora finsi di averlo portato per la maestra, la classe mi dette del ruffiano.
Ho fatto scorta d’acqua alla mia fonte preferita prima di imboccare la quattro corsie in direzione Perugia. Ancora una volta ho atteso con leggero fastidio di superare la pianura brulla della Valdichiana e arrivare prima possibile sul Trasimeno, niente di personale con la Valdichiana, tutt’altro, ma avere il lago sulla destra mi ha creato come sempre uno stato d’animo più disponibile.
L’anello di circa 100 chilometri del Cammino dei Briganti comincia e finisce al paese di Sante Marie, e ci sono arrivato poco prima delle 10.
Sante Marie è in provincia de L’Aquila ma il confine con il Lazio è molto vicino. Tutto il Cammino dei Briganti procede a cavallo tra le due regioni, esce da una, rientra nell’altra, senza soluzione di continuità, senza addentrarsi davvero in nessuna delle due.
Le prime persone che ho visto appena ho cominciato a camminare sono state un padre e sua figlia piccola. Il padre sembrava abbastanza acciaccato. Camminavano tenendosi per mano. Lui le stava dicendo: “perché vedi, ogni posto dove vai… com’era il proverbio? Ce sta n’usanza differente… è così…”
Nel castagneto fuori dal paese ho incontrato due romani sui cinquanta. Uno si chiamava Angelo, nome rimasto quasi solo a Roma, peccato. Avevano nella cesta un grosso porcino e molti funghi sottili che non conoscevo. Hanno detto che erano trombette de morto. Erano romani con la casa a Tagliacozzo. Ho chiesto se fosse buona stagione per i funghi.
“Ma nun c’entra la stagione, i funghi li puoi trovà sempre”, ha detto Angelo.
Il sentiero è proseguito per una lunga salita tra erbe di campo e fiori viola, fino al borgo di Santo Stefano. Mi sono fermato alla fonte per bagnarmi la testa e fare il pieno alle borracce. Le panchine intorno erano affollate di vecchietti romani venuti a sfangare il Ferragosto nelle seconde case in altura. Ho riconosciuto qualcosa di strettamente romano nella loro disponibilità a parlare con uno sconosciuto ma con un interesse pronto in ogni momento a scemare. Mi hanno parlato del loro rapporto con il vino, con il cibo, con Firenze, con Montalcino, con le sigarette, con l’agnello che si mangia a Pasqua, con le seconde case a Santo Stefano. Il più loquace era uno con la barba e gli occhiali. Capitava che gli altri lo sfottessero, che lo interrompessero, allora si accapigliavano un po’, finché non ricominciava a raccontare. Stavano ammazzando il tempo che li separava dal pranzo. Hanno detto che ieri sera c’era una grande festa in paese, qualcosa che aveva a che fare coi santi.
Una lunga discesa mi ha portato a fondovalle. Un altro fontanile, e un uomo coi baffi che lavava le ruote, le fiancate e i parafanghi del suo fuoristrada, anche se intorno c’erano solo strade sterrate e carrarecce polverose. Mi è sembrato uno di quei gesti di follia educata, come stirare un lenzuolo bianco subito prima di sporcarlo.
È riapparsa l’Autostrada. L’entrata dello stretto sottopasso che serviva ad oltrepassarla non si vedeva fino a qualche metro prima. In mezzo al sottopasso sostava immobile un vecchio cavallo grigio. Ho pensato che ci doveva essere un errore, anche se non avrei saputo dire di chi, o di che tipo. Poi ho contemplato la situazione, incerto se concentrarmi sulla parte bizzarra o su quella inquietante. Ho atteso con fiducia che il cavallo se ne andasse. Gli ho chiesto cortesemente se potesse andarsene. Per dargli tempo di andarsene mi sono allontanato dal sottopasso e ho cercato di fare alcune telefonate, come in una pausa dall’ufficio, ma non c’era segnale. Sono tornato al sottopasso. Il cavallo era ancora là, impietrito. Il fatto che il cavallo non fosse del tutto idiota (aveva scelto uno dei pochi luoghi all’ombra di tutta la valle, e sicuramente il più fresco) tingeva di grottesco una scena degna di alcuni incubi dipinti da Fussli, Goya o Francis Bacon.
Ho battuto le mani ma è sembrato un applauso. Ho battuto di nuovo le mani, questa volta cercando una sfumatura intimidatoria. Il cavallo non si è mosso. Gli ho urlato di andarsene. Tirargli anche solo un minuscolo sasso era fuori discussione: non solo sarei stato aggredito all’istante da un branco di animalisti inferociti, ma per le logiche sottostanti alla sottile intelligenza degli equini – imbattibili nel tradurre ogni richiesta con l’azione opposta – provare a scacciarlo minacciandolo lo avrebbe convinto a piantarsi lì per sempre. Alla fine, esausto, ho scelto l’opzione più rischiosa, quella che molti saggi spiriti del West mi stavano già da un po’ suggerendo (armati) dal cielo: mi sono schiacciato alla parete della galleria e sono passato lentamente accanto all’animale.
Oltre Valdevarri ho incontrato quattro ragazzi accampati in una radura. Si stavano preparando il caffè con il fornelletto da campo. Ho alzato il braccio per un saluto mentre stavo per superarli. Prima di rispondere al saluto, mi hanno chiesto se volessi del caffè anch’io. Credo che la sorpresa per un gesto così gradito e la preoccupazione di non risultare patetico mostrando troppo entusiasmo mi abbiano immobilizzato in mezzo di strada nella posa tipica dei cavalli grigi più sagaci. Poi mi sono rilassato e ho preso il caffè con loro. Erano due coppie di amici, una originaria di Salerno, una di Avellino. Si punzecchiavano a vicenda a partire dalle rivalità di campanile. Era la prima volta che viaggiavano a piedi e con la tenda.
C’è stata salita dura fino a un muretto a secco sul crinale e al piccolo valico che segnava il passo verso la valle del Salto. Ho scollinato verso Poggiovalle, il paese dove avrei dormito. La discesa era ripida e sassosa, ma nella parte finale ha confermato una delle regole d’oro del viandante: dopo una fatica o un disagio, quando i nervi saranno concentrati su altro – prevalentemente coniare neologismi blasfemi – arriverà una ricompensa. Non si tratta di teorie catto-calviniste sull’autoflagellazione e la sofferenza come mezzi obbligati per raggiungere un fine: succede così e basta.
La mulattiera è sbucata all’improvviso in uno spiazzo dominato da una quercia gigantesca, forse millenaria, circondata da un grande stagno che, a giudicare dalla quantità di impronte tutte intorno, doveva essere l’abbeveratoio di tutta la foresta, lupi compresi. Lo scenario richiamava il fanum etrusco, luogo sacro per eccellenza, scelto sempre in prossimità di acqua e ombra, preferibilmente un bosco di querce decidue igrofile: fanum come farnia, le querce come albero preferito degli etruschi e, un migliaio di anni dopo, dei Longobardi.
Subito dopo, ho avvistato dall’alto i primi tetti del paese. Poggiovalle sfidava i limiti della fisica. Un insieme di vecchie case aggrovigliate, quasi interamente disabitate, disposte con modalità improbabili su una rampa con punti del 30% di pendenza. Anziché attraversarlo, mi sono in pratica calato verso il basso.
La prima casa abitata apparteneva a un artista: la porta aperta dava su un cucinotto pieno di piccoli dipinti, di cui uno in fase di composizione. Il pittore dev’essere al cesso, ho pensato vedendo il cubicolo abusivo al piano di sopra.
Le altre case non avevano neppure scritto “vendesi”. Erano state semplicemente lasciate.
Ho trovato l’unica zona con tratti pianeggianti: appena lo spazio per una chiesa minuscola, una piazzetta, un pallinaio. La chiesa stava però ospitando una funzione. Dal vicolo dietro di me ho sentito fischiare, poi urlare “Namooooo”. L’uomo invisibile ha continuato a fischiare. Poi ha mollato una scoreggia tremenda. Poi ha fischiato di nuovo. Poi è spuntato dall’angolo in pantaloncini, torso nudo, pizzetto luciferino alla Pirandello. Ha detto “Aho, è sparito n’artra vorta, mortacci sua. Ciao”. Il ciao era rivolto a me.
L’uomo si è messo a parlare di ristoranti con l’unico tizio rimasto fuori dalla chiesa. Infine lo ha raggiunto il cane: un volpino degenere, forse incrociato con un labrador, tutto nero con gli occhi arancio, mostruoso eppure bellissimo. L’uomo non lo ha sgridato, e il volpino si è accucciato a sentirlo parlare col suo amico.
“O sai ‘n do devi annà a magnà? Aa Collina. Esci allo svincolo…”
“A Marino!”
“Fanno na grappa de genziana…”
“Bona?”.
“E nun te pensà che se spende tanto”.
Dalla porta aperta della chiesa si sentiva recitare il Credo. Erano alcuni decenni che non lo sentivo, lo stavano cantando proprio come ricordavo, lo stesso borbottio di fondo, lo stesso debole rumore bianco che non mi ha mai aiutato nella comprensione di parole già di per sé quanto meno enigmatiche (Creatore di tutte le cose invisibili… Nato dal padre prima di tutti i secoli… Incarnato nel seno… E procede dal padre e dal figlio… Aspetto la risurrezione dei morti…), come se la dizione stessa dei fedeli si ritraesse per paura di maneggiare qualcosa di incomprensibile e vagamente minaccioso. Poi l’amico ha chiesto al padrone del volpino:
“Ma secondo te sto Spirito Santo, de preciso, dove procede?”
“Nun lo so, me basta che nun va a Villerose, che quelli so pezzi demmerda”.
È arrivato zio Armando, 100 anni tondi, così almeno diceva lui, ma guai a metterlo in dubbio. Ho pensato che forse Zio Armando era l’unico abitante vero di Poggiovalle, l’unico che restava in paese anche d’inverno. Zio Armando era già adulto quando ha fatto la guerra. Dopo la guerra, ha costruito l’Autostrada.
“Terzo reggimento esplosivi batteria Gran Sasso!”
Ha scavato le gallerie.
“Me so arriccato!”
Non ho capito.
“Ho fatto ‘n sacco de sordi! C’ho tutto er paese! Cinque case!”
Ho raggiunto il mio alloggio. Il padrone di casa era un uomo rude e schietto, un cavallaro, un abruzzese di montagna. Ogni cosa che dicevo, fosse anche “avete davvero un bel giardino”, mi guardava a bocca aperta e con occhi inquisitori. Ogni volta che voleva negare qualcosa, al posto di un semplice “no”, scandiva una lunga sequenza di “no” scuotendo la testa rasata. La tavola era imbandita di ogni genere di cibo. Non avevo praticamente pranzato, avevo camminato parecchie ore, ero molto affamato, ho cominciato a mangiare. Il padrone di casa ha detto di essere amico di molti carabinieri e devoto a Padre Pio. Ha detto di odiare gli assembramenti di San Giovanni Rotondo e il lucro che ne deriva “perché quello è eccessivo”.
Quando ho detto di essere nato a Siena, è impazzito dall’entusiasmo. Ha detto di essere molto amico del mossiere Guglielmi di Vulci, il nobile la cui famiglia pare possieda tutto Montalto di Castro. Mi è venuta in mente una domanda che mi assilla da molti anni: perché per fare il mossiere al Palio è richiesto il sangue blu?
Se vuoi partecipare alla finale olimpica dei cento metri, devi essere in grado di correrli in circa dieci secondi; se sei un cane e speri di essere adottato da una famiglia, devi essere sverminato e fare l’antirabbica; se vuoi fare il mossiere al Palio di Siena, invece, devi essere un marchese.
Ho chiesto al padrone di casa se potesse finalmente chiarirmi questo dubbio, ma ha solo detto che con Guglielmi di Vulci si sentono spesso per via dei muli.
“Quante volte m’ha chiesto i muli, Giù!”
Poi però si è concentrato su un’altra cosa: sebbene ingerissi pietanze senza soluzione di continuità da circa quaranta minuti, secondo lui non stavo mangiando abbastanza.
“Magna, Giù, magna. Devi magnà!”
Ho continuato a mangiare.
“Er vino te lo riempi da solo”.
Mi sono riempito il bicchiere di vino bianco.
“Si però magna!”
Ho finito di bere il vino e ho ripreso a mangiare.
Ho continuato a mangiare finché non mi sono reso conto di avere esagerato. La crisi si è presentata con un calo di attenzione, poi con una nausea ancora tollerabile, infine con giramenti di testa mentre sentivo voci che vagheggiavano minacce contro chi “rubba le nocchie” (cos’erano le nocchie? Noci? Pesche? Susine? Non ho avuto la forza di chiederlo), poi voci che discutevano di un coccodrillo impagliato che qualcuno teneva in casa, e che i bambini volevano vedere spesso, essendone impauriti e attratti, (ho cercato di non accasciarmi sul tavolo), ora voci che parlavano di ciò che in generale incute timore ai bambini, ad esempio gli stessi Babbo Natale e Befana, o i lupi, o i cani lupo, (ho guardato in alto, le travi si confondevano), poi voci sul Birimbaue appeso sopra il camino del padrone di casa (“quante vorte ha rischiato er foco, Giù!”), poi voci che raccontavano del vecchio Guido che si alza alle 4, alle 6 fa partire la motosega, pranza alle 11 e alle 14 fa partire il decespugliatore, per fortuna a settembre se ne sarebbe andato. Arrivati alla genziana avevo gli occhi semichiusi, ormai invaso dalla nausea. Quando ho realizzato di essere riuscito a chiudermi alla spalle la porta di camera mi è sembrato di aver compiuto una grande impresa. Mentre supplicavo lo stomaco di aggredire il cibo e digerirlo, in modo da permettermi di sopravvivere, con lo sguardo sbarrato verso il soffitto sentivo risuonare in testa l’effetto doppler di una frase del padrone di casa: “Anno scorso ce staveno ‘e mosche; quest’anno ‘e zanzare”.
Secondo Giorno: Poggiovalle – Santa Maria in valle Porclaneta
Poggiovalle in inverno conta meno di dieci abitanti. Ho fatto amicizia con uno di loro che però resta qui anche adesso che è estate, e la mattina presto, prima di riprendere il mio giro, mi ha fatto da guida per i vicoli del paese. Ha detto che l’acqua corrente e l’elettricità sono arrivate nel 1967. Poi è bastato uno che scendesse a Roma, ha detto, e se ne sono andati tutti. Si sono tutti stabiliti tra Appio Alessandrino e Magliana. Poi d’estate si ritrovano qua. Ha detto che fino all’esodo la valle era tutta coltivata. Di qua c’era Poggiovalle, di là c’era Villerose. A Poggiovalle stavano le donne, a Villerose i maschi. I maschi di Villerose venivano a rubare le donne di Poggiovalle. Ancora oggi, se chiedi a uno di Poggiovalle di andare giù a Villerose, storce la bocca.
Abbiamo salutato una donna di 85 anni che ne dimostrava almeno quindici di meno. Ci ha raccontato di aver sposato un bolognese e di essersene andata con lui. Ora anche lei tornava a Poggiovalle in estate. Era la sorella di zio Armando, che stava già appostato sul balcone a guardarsi in giro e a tenere d’occhio la vallata, come se da un momento all’altro potesse sbucare qualcuno di Villerose.
Siamo passati per una stradina da cui saliva del fumo. Qualcuno aveva dato fuoco a un ammasso di sterpaglie in mezzo al vicolo, davanti alle case.
“Aho, Teresa, piglia ‘n secchio d’acqua”, ha urlato un energumeno, “mortacci sua, lo facessero davanti a casa loro”. La differenza tra dire “Questo non si può fare” e dire “Lo facessero a casa loro” aiuta a spiegare parte dei problemi generali, mi è venuto da pensare mentre il mio amico mi mostrava sulla parete di una casa un “lacerto cinquecentesco” dai richiami bizantini.
Me ne sono andato dal paese scendendo tornanti verso l’incavo della vallata.
Dopo un’ora di cammino sono arrivato a Villerose e senza accorgermene l’ho attraversato guardingo e forse ostile, come se avessi riconosciuto dal nulla il mio legame ancestrale con la stirpe scabra di Poggiovalle, un’appartenenza casualmente scoperta da un solo giorno ma latente da sempre. Era domenica mattina e a Villerose ne ho rinvenuto buona parte degli ingredienti provinciali di base: messa, carabinieri sereni (sereni come solo la domenica mattina prima della messa), partita di squadre giovanili al campo di calcio, sagra in preparazione con paese diviso in quattro rioni (Colle, Piazza, San Vincenzo, Vallonia).
Da sempre il mio ingrediente preferito è invece la rassegna stampa, ed essendo Villerose sprovvisto di edicola, mi sono messo in marcia alla volta di un paese più grande, allungando il percorso di sette chilometri solo per rinnovare la consapevolezza di essere un provinciale nel bel mezzo della sua domenica mattina. Il primo screzio per il parcheggio visto in strada mi ha suggerito che il paese più grande era già troppo grande, e volentieri ho ripreso la marcia alla volta delle montagne della Duchessa.
Ho bagnato la testa sotto ognuna delle mille fonti trovate per strada. A Spedino, alle 13,30, una giovane coppia prendeva il sole sulle sdraio in giardino. Portavano occhiali scuri e sembravano addormentati. Erano abbronzati e tatuati su tutto il corpo. Fuori dal cancelletto era parcheggiata una spider targata Roma.
Mi sono fermato sotto un pesco gigante, tra due campi da bocce abbandonati e una canonica chiusa col lucchetto, su una panchina di legno quasi marcio ma ancora utilizzabile.
L’Espresso celebrava con alcuni articoli i venticinque anni dall’uscita di Caro diario.
È passato un ragazzino con suo padre. Giocavano al figlio cieco. Il padre gli diceva dove andare, dove girare, su, giù, ora a destra, ora dritto, aspetta, fermati che sbatti contro un tiglio.
Un vecchio è sceso dalla macchina, ha preso le sue valigie e ha suonato il campanello di un portone. Da dentro qualcuno ha urlato “è arrivato zio Oreste!”. Zio Oreste ha portato dentro le sue valigie. Starà probabilmente fino a dopo Ferragosto. Per ultimi, prima del silenzio che è sceso sull’ora del pranzo, spezzato a quel punto solo dalle cicale e dai rumori di stoviglie, sono passati due ciclisti. Uno ha detto “mo co sta chiesa chiusa fanno invàde Spedino da li musurmani”.
Spedino era l’ultimo borgo. Poi il sentiero ha cominciato ad arrampicarsi per molti chilometri verso i vecchi casali di Cartore. Oltre Bocca di Teve è stata montagna vera. C’erano solo rocce bianche e prati verde brillante sovrastati dagli accumuli morenici del massiccio del Velino. Speravo di vedere volteggiare i grifoni, ma ho visto solo tre aerei bianchi radiocomandati. Speravo di non vedere la vipera dell’Orsini. Speravo di vedere orsi, camosci, ghiri, corvi imperiali, ma ho visto solo un branco di vitelli bianchi che vagava per i prati del valico. In lontananza un uomo si aggirava tra i cespugli alle pendici del monte, che ora sovrastava tutto. La presenza di una persona sembrava un’assurdità, ma in quel momento, a mezz’agosto, ce n’era certamente almeno un’altra, sul monte, quasi mille metri sopra. Ho guardato in alto, dove più o meno dovevano trovarsi il pianoro del lago della Duchessa e poco lontano anche Americo, uno degli ultimi pastori transumanti.
Nella micidiale sterrata in discesa ho pensato a dove avrei dormito. Il giorno prima avevo considerato di fermarmi al paese di Rosciolo, ma forse c’era modo di avere ospitalità anche nel rifugio accanto a una chiesetta romanica ancora in montagna, in mezzo al niente. Avevo chiamato il custode della chiesa. La voce che mi aveva risposto mi aveva riportato alla mente Pulp Fiction e alcune parole di Jules Winnfield a proposito di un certo Antoine, che Marsellus Wallace per una questione relativa a un massaggio ai piedi aveva gettato giù da un palazzo incasinandogli il modo di parlare. Non credo che il custode della chiesa avesse mai avuto a che fare con Marsellus, ma la sua sorte era stata la stessa.
Sono arrivato alla chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta al tramonto, scendendo dal Passo delle Forche, e da fuori ho trovato qualcosa di simile a un’abbazia della brughiera scozzese. Non c’era nessuno. Poco dopo è arrivato Antoine il custode. Mi ha fatto capire, con i suoi problemi di pronuncia, che potevo restare a dormire con una semplice offerta, e che avrei passato la notte da solo. Mi ha aperto la chiesa. L’interno si è rivelato uno scrigno eccezionale, come se la luce bianca di Castel del Monte o di certe chiese di Bari (la Vallisa; San Sabino), gli intarsi di Wiligelmo a Modena, alcuni mostri delle chiese alsaziane, il pulpito di Nicola Pisano, tutti insieme si fossero fusi in questo microscopico monastero costruito poco dopo l’anno Mille alle pendici del Velino.
Sono rimasto in silenzio a vagare per le piccole navate osservando la lotta di David con l’orso o Giona inghiottito dalla balena, finché non è entrato un gruppetto di anziani vestiti a festa. Si guardavano intorno perplessi.
“Noi volevamo vedé Santa Maria delle Grazie…”, mi hanno detto.
“Quella è a Rosciolo”, ho risposto, e per avvalorare ho mostrato la guida.
Se ne sono andati. Poco dopo se n’è andato anche il custode Antoine. Sono rimasto da solo.
La stanzetta era dotata di fornelli e di una piccola dispensa con pacchi di pasta, passata di pomodoro, legumi. Con me avevo ancora della frutta. Il luogo era del tutto isolato, ma intorno c’erano dei pastori, in particolare uno che mentre scendeva il crepuscolo, in mezzo al bosco davanti all’unica finestra, per circa mezz’ora ha urlato insulti contro il nulla, insulti che, secondo una traduzione simultanea a braccio, dovevano essere rivolti ai generici visitatori della chiesetta, colpevoli di intorbidare l’acqua del fontanile a cui si abbeveravano le sue pecore. È scesa la notte. Stavo per mettermi a cucinare quando sono arrivate altre persone. Erano tre donne accompagnate da un uomo. Si sono presentati. Avevano saputo che qualcuno avrebbe dormito qui, e volevano conoscerlo. Forse si aspettavano di trovare un cannibale.
“Ma qua ‘ncell’hai na televisione?”
“No”.
“Vabbe, na radio, qualcosa….”
“Ho i giornali di oggi”.
“Ah. Bravo, c’hai raggione…”.
Passare la notte è stato forse più complesso di altre volte, ma in fondo cosa c’era da aver paura? Ho cucinato, ho cenato, ho pulito la cucina, ho fumato una sigaretta, ho completato la lettura dei giornali finché è sembrata più un’autopsia che una rassegna stampa. Mi sono addormentato immaginando che all’alba, da solo, in quel posto assurdo, mi sarei preparato un caffè davvero degno di nota.