Mia madre ci ha sempre detto che a casa nostra ci sono i fantasmi.
La casa veniva illuminata poco, c’erano delle abat-jour, tre o quattro, accese in giro per le stanze, a creare pozze di chiarore da attraversare. Attorno, l’ombra.
Per la mia stanza avevano invece comprato un lampadario, fatto di carta increspata, come quella di certi ventagli, aveva delle mongolfiere disegnate sopra. Mi ricordo di mio padre che mi solleva, e io sfioro il lampadario con un dito. Avevo due, forse tre anni. Illuminava tutta la stanza, disegnandone gli angoli e gettando la luce anche sotto al letto. Quando bisognava spegnerlo, perché era ora di andare a dormire, io pretendevo che la luce in corridoio rimanesse accesa, e strizzavo gli occhi nel tentativo di vedere se mio padre restava in piedi fuori dalla porta a vegliarmi. Per il resto, di solito la casa era rischiarata solo dalle lampade appoggiate sui tavoli, boe sul pelo di un mare profondo. Dalle finestre, quando calava il sole, veniva su un buio pieno, invaso dalle sagome ancora più scure degli alberi del giardino.
Mia madre diceva che c’erano i fantasmi.
Per anni in quella casa ci abbiamo abitato solo noi quattro, mia madre, mio padre, io e mia sorella, nata due anni dopo di me. Stavamo nell’appartamento al primo piano, dalle finestre vedevamo la palma, alta e sfrontata, che con le sue radici aveva sfondato le mattonelle rosa chiaro del cortile. Le mattonelle, quando ci passavi l’acqua, spruzzandola dalla pompa, verde e liscia come un serpente, diventavano rosso scuro. Una volta, su quello spiazzo che a me sembrava grande come un palcoscenico, ho rotto la scapola a mia sorella. Nel cortile, in quegli anni, giocavamo solo io e lei, senza sorveglianza. La casa e il giardino intorno a noi, muti. A volte passava un porcospino, o una tartaruga, arrivati lì chissà come. Oltre le mura del giardino c’era il paese, non la campagna. Per il resto il silenzio, al massimo il vento tra le fronde. Ci sembrava, a volte, di essere sole al mondo. Il portone d’ingresso era sempre chiuso, la strada davanti casa era solo un passaggio, la vedevamo quando andavamo a scuola o da qualche altra parte, in macchina o a piedi, le porzioni di paese che potevamo conoscere erano selezionate accuratamente. Le case vicino a noi e le persone che vi abitavano erano uno sfondo, un mistero intravisto dalle finestre, solo voci che arrivavano sommesse, sbuffi di fumo dai camini.
“La vedi quella signora nella foto?” diceva mia madre, indicando le cornici appese dietro al divano. “Tua trisnonna. Una sera l’ho vista che saliva le scale del ripostiglio.” “In che senso l’hai vista, mamma?”
“L’ho vista passare. Ci sono i fantasmi.”
Il ripostiglio era il posto più spaventoso di tutti. Nella casa dell’unica amica che frequentavo, una bambina più grande di me, che spesso mi faceva piangere, c’erano diversi ripostigli, che però non facevano paura, anzi. Avevano tutti la porta a soffietto, marroncino chiaro. La mia amica pigiava un tasto bianco, e la luce inondava quegli stanzini. Dentro c’erano scope e palette e prodotti per pulire, messi in un ordine preciso, a riposo come soldatini. In altri ripostigli, che la mia amica chiamava “dispense”, c’erano quantità incredibili di cibo, soprattutto biscotti e merendine, casse di Coca Cola, pasta, pelati. Io pensavo sempre che tutti insieme quei cibi erano bellissimi. Mi facevano sentire insonnolita, come riappacificata, anche se tutto quel ben di Dio non mi apparteneva. Nella mia cucina, invece, c’era un unico mobile a due ante, dove tenevamo la pasta, il tè e il Nesquik. Il cibo era disseminato quasi distrattamente, come se si trovasse lì per caso, per un’esigenza rapida e non come una rassicurazione contro la solitudine o il pericolo di sembrare poveri. Adiacente alla cucina, c’era il salotto, dominato da una credenza piena di tazze bordate d’oro con dei disegnini di rose stilizzate, vassoi grandi ma disseminati di macchie, altre tazze rosa, posate d’argento opache, bicchieri lunghi e sottili che mi facevano pensare a delle ballerine. E ancora, coppe piatte che potevano sembrare per il gelato, che invece erano per lo champagne. Sostavano lì, in un apparente inutilizzo, ma parevano in attesa. Io sapevo che quelle cose appartenevano a tutte le signore morte che avevano abitato la casa, come la mia trisnonna, o la mia bisnonna, invece ancora viva, che aveva gli occhi azzurri, i capelli bianchissimi e stava per compiere cento anni. Mia zia, la sorella di mio padre, diceva sempre che alla bisnonna le era sparito l’ombelico, perché era troppo grassa. Ogni tanto la si sentiva cantare, quando era sola in salotto, ma cantare come una radio che cambia stazione, con voci diverse e strofe lasciate a metà. Se qualcuno entrava nella stanza ammutoliva subito, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Per il resto parlava poco. “Be’,” diceva mio padre, “ha cent’anni, che deve dire?”
Mia zia non abitava nella casa e così mia nonna; venivano ogni tanto d’estate e a Natale, portando con sé la bisnonna quasi muta. Si stabilivano nella parte rimasta a mia nonna. Per il resto dell’anno eravamo soli, a dominare il giardino. Mia zia da ragazza aveva viaggiato a lungo, poi aveva smesso. Londra, Parigi, qualche volta l’India. A Londra e Parigi erano stati a lungo anche i miei genitori, prima che nascessimo noi. A volte guardavo le foto di quei viaggi ed ero gelosa degli amici che sorridevano con loro in quelle immagini. Chiedevo, chi è lei, chi è lui? Mia madre rispondeva brevemente, io immaginavo le loro avventure perché lei non me le raccontava. Ogni tanto mi faceva vedere i vestiti che usava in quel periodo e che riconoscevo anche in certe foto. Gonne con le balze. Foulards a fiorellini blu e viola. Orecchini con pendenti tintinnanti. Non potevo prendere quelle cose senza il suo permesso. Li toccavo come si tocca un abito da sposa, mentre lei sorvegliava che non li rovinassi. Tutta la gente amica ritratta nelle foto, a casa nostra non appariva mai.
Il ripostiglio, quello da dove mia madre aveva visto uscire la trisnonna, non aveva la porta, ma una tenda di bambù dalla quale per dispetto, se a volte ero arrabbiata, staccavo dei pezzi. In realtà non era un vero ripostiglio, erano piuttosto delle scale. La lampadina appesa in cima proiettava una luce piccola, che non arrivava fino al fondo. Rimaneva sempre una fetta d’ombra dalla quale ogni tanto baluginava il riflesso di una ghirlanda di Natale, che pendeva dalla scatola. In fondo alle scale, c’era una porta, chiusa con una serratura, che portava al piano di sotto. Il piano di sotto era ancora più spaventoso del ripostiglio. Noi lo guardavamo dal cortile, di giorno, e non ci entravamo mai. Ci era stato tassativamente proibito. Da fuori si vedevano le finestre senza vetri o con solo qualche pezzo attaccato, vetro azzurrino striato di polvere. Dentro, calcinacci e un pianoforte, chiuso. Era stata la parte della casa dove abitava la mia bisnonna, quella con gli occhi azzurri, alla quale era sparito l’ombelico. Quando stava lì era ancora bionda, e sapeva parlare. Lei era la mamma di mio nonno, morto un anno prima che io nascessi. Tutti erano sempre molto tristi quando parlavano di lui, mia nonna soprattutto, e io anche, benché non l’avessi conosciuto. Di lui si raccontavano cose bellissime. Appena lo si nominava, una nebbia di tristezza calava nella stanza. Mio nonno era morto giovane.
Il piano di sotto faceva paura, ancora di più del ripostiglio; stava acquattato sotto casa nostra e io cercavo di non guardarlo, quando giocavamo in cortile. Non c’era mai nessuno, ma quando quel nonno pazzesco era vivo, era sempre pieno di gente. Mio padre e mia nonna mi raccontavano delle rimpatriate di famiglia, della cantina piena di vino e di grano, dei gatti nascosti tra i cespugli di bouganville, dei cani bassotti che azzannavano i polpacci degli estranei, incuranti della loro stazza, e della servitù che viveva con loro. Noi quattro, io, mia sorella e i miei genitori, siamo stati i primi a tornare a vivere nella casa, dopo i viaggi e la morte di mio nonno, dopo che era diventata un’altra casa, con calcinacci accumulati qua e là e le immense sale vuote, piene di polvere.
Un giorno, durante l’estate, mia nonna disse che era sparita una cassa di acqua da sotto il suo letto. Casa sua d’inverno era sempre chiusa e vuota. A metà giugno lei arrivava e l’apriva. Quella era l’unica parte della villa a essere rimasta uguale a prima che tutti se ne andassero. Nel suo salotto, sul camino, c’era un ragno di ottone gigante, immobile e con le zampe lunghe; non ho mai pensato potesse prendere vita, era troppo lucido e perfetto.
“La cassa d’acqua è scomparsa.” diceva mia nonna a mia zia. Mia zia scuoteva la testa. “Ma l’ho messa io lì, com’è possibile non ci sia più? L’hai spostata?”
“No, cosa la spostavo a fare.”
Io stavo in cortile e le ascoltavo parlare della cassa d’acqua. Era estate, la pompa era stata aperta per innaffiare. L’acqua inondava lo spiazzo attorno alla palma e tutte quelle mattonelle da rosa diventavano rosse.
Il giorno del compleanno di mia nonna, a fine estate, si faceva sempre una cena. Lei cucinava le uova ripiene, i voulevant, le lasagne. Ci riunivamo tutti sotto la tettoia in cortile, si finiva a parlare di mio nonno, di terreni da vendere, mio padre diventava nervoso, mia madre fumava una sigaretta e ci abbracciava molto, mia zia sparecchiava. Quella volta mia nonna e mia zia hanno cominciato a raccontare della cassa d’acqua. “Quanto l’abbiamo cercata!” diceva mia zia. “Io sono andata un paio di volte a guardare sotto al letto, non c’era, niente, scomparsa.”
“E invece, l’altro giorno,” rispondeva mia nonna, “mi sono inchinata, ed era lì.”
Il cortile era invaso da una luce abbagliante, la casa attorno a noi vuota, e io improvvisamente non volevo più salire le scale per andare in bagno e nemmeno volevo chiedere a mia nonna di usare il suo. In quel momento casa sua era silenziosa come la nostra, quelle stanze perfette e bellissime, tutte in penombra. Avrei dovuto attraversare quel silenzio, entrare nel bagno e sentire le loro voci lontane. A un certo punto, pensavo, quelle voci potrebbero sparire, non le sentirei più, uscirei di corsa dal bagno e in casa non ci sarebbe più nessuno.
Mia zia ha detto: “I fantasmi, come al solito.” Tutti hanno riso. “Eh sì, qualche spiritello.” Anche mio padre ha riso. Mia madre no.
Qualche anno dopo sono in casa da sola. È inverno, fa freddo, c’è solo il camino per riscaldare e se ora attraversassi la porta che separa il salotto dal corridoio e dalle camere da letto, il gelo mi si attaccherebbe addosso. Mia madre non c’è, nemmeno mia sorella. Mio padre non abita più con noi. La casa si è popolata, il piano di sotto ora è illuminato, niente più calcinacci o punte di vetro sulle finestre, mia zia l’ha trasformato in un bell’appartamento. A volte, appena si era trasferita, sgattaiolavo nella sua cucina e rubavo le merendine, messe lì negli scaffali in cucina, nemmeno in una dispensa. La casa di mia nonna è ancora chiusa, ma lei verrà d’estate. Il ripostiglio è sempre buio ma dalla porta chiusa viene il suono attutito dello stereo che mia zia tiene sempre acceso. Ciononostante, il silenzio di questa casa, a volte, è spesso, sta dietro ai rumori con i quali tentiamo di riempirlo, ma lui ostinato assorbe le nostre vite e le restituisce sommesse, lontane.
Mia sorella e io abbiamo preso un cane. Mia nonna, quando viene d’estate, scuote la testa e dice che è un cane sporco, che non lo curiamo abbastanza e non dovremmo tenerlo in casa: “I bassotti miei e di tuo nonno mica li tenevamo in casa.”
Il cane sta accucciato in un angolo, vicino al tavolo dove mangiamo. Io sono seduta sul divano e tengo sulle ginocchia una versione di greco che non so fare. Il freddo e qualcos’altro mi deprimono. Sogno la città, sogno di scendere in strada e fare un giro per le vetrine illuminate, di scaldarmi con lo sciamare della gente. Invece attorno ho una casa vuota e un paese deserto, i lampioni spenti, il fumo dei camini. Domani mattina mi aspetta la sveglia alle sei e un bagno freddo.
Dal corridoio sento un suono, il cane alza la testa e fissa la porta del corridoio. Io quasi mi sento calma, anche se il cuore batte fortissimo. Penso non è possibile, sarà stato qualcos’altro, quel suono di mattonella. Le mattonelle del corridoio sono sbeccate, è stato come se qualcuno ci avesse messo il piede sopra. Il cane, l’ha sentito anche lui.
Ripenso alla cassa d’acqua, non mi volto a guardare i ritratti dei miei bisnonni e trisnonni appesi dietro le mie spalle. Isterica, dico alla stanza: “Chi c’è?”
Nessuno risponde.