L’atmosfera era pesante, in giro non c’era nessuno, le autorità avevano ordinato il secondo coprifuoco nel giro di pochi mesi, i telegiornali parlavano di seconda ondata. La gente era corsa ad affollare i supermercati in lunghe code, a fare nuovamente scorta di lievito per impastare e di bottiglie di alcolici. C’era da capirli, i locali erano chiusi e chissà quando avrebbero riaperto. Ripresero vigore i servizi per film e serie tv in streaming, arrembati in massa durante il primo coprifuoco e in massa abbandonati al rallentare temporaneo delle misure di contenimento della pandemia. Ripresero anche le videochiamate, specie quelle di gruppo, e quando si esaurivano gli argomenti con amici e conoscenti si cominciava a risalire all’indietro. Quasi tutti riscoprivano i vecchi compagni di studi dell’università, delle superiori, e via scavando, fino all’asilo. Marta, che tutti chiamavano Martina, aveva finito tutte le serie tv sui siti di streaming legali e anche su quelli illegali, non aveva più libri da leggere e neanche da rileggere, ed era convinta che se avesse aperto un’altra bottiglia di vino sarebbe morta all’istante di cirrosi. Per un attimo, ma solo per un attimo, le balenò in testa di riesumare dalla soffitta il vecchio videoregistratore e le cassette, ma il pensiero che potessero scatenare una maledizione tipo quella dei faraoni da tutto quel vecchiume la fermò. E poi i vecchi film che non aveva voglia di vedere erano comodi comodi in streaming. Sospirò, guardò fuori dalla finestra la città buia e deserta battuta da una triste pioggia leggera e si collegò ai social. Dette una rapida occhiata ai contatti, scartò d’istinto parenti e ex fidanzati, valutò brevemente alcuni amici maschi appetibili e scartò anche quelli, tanto non ci sarebbe stato modo di concludere, passò ai compagni di classe. Quelli delle superiori erano equamente divisi tra obesi sposati con figli e rocker drogati sdentati coi capelli lunghi, meglio tirare una riga, per l’appunto. Le scuole medie offrivano una fauna perfino peggiore, se le superiori erano uno zoo le medie erano un safari, sembravano tutti dei redneck del sud degli Stati Uniti. Meglio passare alle elementari, tutte ragazze, una scuola religiosa, suore agghindate come confetti che facevano cantare bambine col fiocco e il grembiule. Aggiudicato. Contattò la prima, che non poteva essere altro che Francesca, la sua migliore amica di allora. Erano sempre insieme, aveva un caschetto castano e gli occhi grandi, resi ancora più grandi dagli occhiali spessi, da miope. Andavano spesso l’una a casa dell’altra, più Francesca da lei, in verità, perché la famiglia della bambina era cupa e religiosa, un ambiente molto tradizionalista, e la piccola ogni volta che poteva veniva a casa di Martina, con sua madre che preparava torte e distribuiva sorrisi invece che novene e veglie di preghiera. Si erano perse di vista con gli anni, ovviamente, come con tutte le altre, ma di lei, e di lei solo, le era un poco dispiaciuto. Di Francesca le arrivavano notizie sempre più sporadiche e sempre più tragiche, laureata in lettere, maestra d’asilo, sposata in chiesa con vestito bianco, manco a dirlo, tanti bambini, e via così, alla maledizione di certi ambienti non si scappa, pensò Martina, forse Francesca organizza novene per i suoi figli. Scorse le foto della vecchia amica e non ce la fece a trattenere le risate, poi la contattò. Lei fu sinceramente entusiasta di sentirla, stupita e sorridente, come quando era bambina. Portava ancora i capelli a caschetto. La prima ora e mezza se ne andò in convenevoli e riassunti delle rispettive esistenze dalla licenza elementare fino all’oggi. Poi parlarono e sparlarono delle vecchie compagne di classe e delle suore, ormai in pensione o salite in cielo. Ma le suore andavano in pensione? Martina non lo sapeva. Smorzato l’entusiasmo e non potendo organizzare una cena di classe, grazie a Dio, presero a vagliare quali e quante compagne far partecipare alla rimpatriata virtuale. Mica potevano chiamarle tutte, in fin dei conti. Ne scelsero tre, che è il numero perfetto, in modo da arrivare a cinque, che è invece il numero perfetto di componenti di una squadra, buono per una tavolata o per riempire una macchina. Una volta contattate, lavoro che Martina lasciò fare a Francesca, e aggiunte alla chat, iniziò da capo per ogni ragazza lo strepitare di fuochi d’artificio e dei ma come sono felice di sentirti. Martina le lasciò sfogare e strepitare, le controllava come dall’alto di un trono, pronta a portare la conversazione verso le zone dove le acque erano torbide e i segreti inconfessabili, come piaceva a lei, e farsi quattro risate, e farle fare pure a Francesca, perché poi la parte più divertente forse era proprio far diventare stronza pure la santa, e ribadire ancora una volta che nessuno era buono. Che poi, sia chiaro, lo diceva Gesù nel Vangelo, Francesca doveva tenerlo a mente. Era Matteo 19-17, il suo passo preferito, lo ricordava fin dai tempi delle suore. Martina impose il silenzio e cominciò il suo gioco. Iniziò a fare domande a bruciapelo su situazioni imbarazzanti, in un ventaglio di argomenti che spaziava dalle umiliazioni sul lavoro ai tradimenti alle fantasie sessuali, poi allentava la corda e tornava a parlare di argomenti innocui, poi ricominciava. Le barriere difensive delle interlocutrici venivano così erose un passo alla volta, l’altalena permetteva di eludere l’imbarazzo domanda dopo domanda, pausa dopo pausa. Alla fine del moto ondulatorio, dell’alternarsi di pugnalate e sorrisi, le ragazze avrebbero detto a Martina tutto quello che non avrebbero detto mai, e soprattutto che non avrebbero dovuto dire. Non che lei avesse finalità di ricatti o altre piccolezze, figuriamoci. Martina era un’antropologa, voleva solo divertirsi un po’, farsi quattro risate amare ad osservare la natura umana, verso la quale non nutriva la minima stima. Quando si congedarono, a notte tarda, almeno per le altre, era più che sicura di aver trovato un buon passatempo per almeno tre o quattro giorni, forse di più.
Qualcosa andò storto invece. Come un giro in macchina sotto una pioggia lieve in una strada non conosciuta ma uguale a migliaia di altre, una strada tranquilla e poco trafficata, dove a un certo punto qualcuno sbuca da dietro una curva e invade la tua corsia, e tu freni, ma l’asfalto è bagnato e viscido e l’impatto imminente. Il discorso venne fuori per caso e fu subito insabbiato, ma ormai la proverbiale pulce era nell’orecchio, il ricordo era a mezz’aria tra l’etere e la stanza di Martina, aleggiava come uno spettro, presente e allo stesso tempo inafferrabile. Tirato per caso come un sasso in uno stagno, le bruciava la nuca come se le avessero piantato un chiodo. Davvero non lo ricordava. Cos’era quella storia? Era successo davvero? Non era una di quelle leggende urbane che le bambine si raccontano la notte ai pigiama party, a mezza voce, come nei film horror americani, per terrorizzarsi a vicenda? Eppure qualcosa, da una qualche zona remota della parte razionale del cervello dove doveva essere stata sepolta come la mummia di un faraone nel fondo di una piramide, qualcosa riaffiorava. Un volto, una bambina diversa da tutte le altre, una bambina con i tratti della sindrome di Down, una mattina convulsa, bambine e suore e genitori in lacrime, sirene e luci, ambulanze, vigili del fuoco, carabinieri. Ma allora, se il ricordo piano piano riaffiorava, come un fossile sotto il pennello dell’archeologo, allora, si ripeteva, era successo davvero? Tentò di mettere a fuoco la scena, ma questa rimase fumosa, come se fosse volutamente oscurata, ricoperta di pixel come le facce dei testimoni dei delitti nei video scabrosi. Dovette chiedere aiuto, e Dio sapeva quanto lo detestava. Le altre erano restie a parlare, ma avrebbero parlato. Eccome se lo avrebbero fatto. E allora le fece parlare, ma il parlare divenne un brusio, non solo e non tanto per il parlare in sé, ma perché qualcosa le spezzava la concentrazione, la sua leggendaria freddezza vacillava, sentiva perfino una punta di nausea. No, non parlavano, dicevano a mezza bocca, evitavano il discorso con giri di parole. Una dopo l’altra si congedarono, la chat rimase vuota, con Martina a fissare lo schermo.
Chiamò sua madre, ma sua madre stava facendo la pizza e le disse di chiamare più tardi. Allora quella cosa che forse ricordava si mise a cercarla su internet, ma per gli archivi telematici probabilmente era troppo vecchia, magari avrebbe dovuto spizzare tra i microfilm delle vecchie edizioni dei giornali nell’emeroteca, ma gli uffici comunali erano chiusi, come tutto il paese del resto, tranne supermercati e farmacie, quarantena del cazzo. Si alzò e si versò un calice di vino rosso, affanculo la cirrosi, si disse, quando ci vuole ci vuole e basta. Squillò il cellulare, era sua madre. Saltò i convenevoli e andò dritta al punto. Ma cos’è questa storia che quando ero alle elementari morì una bambina, le chiese a bruciapelo. Un silenzio imbarazzato si stese sopra la conversazione, tanto che Martina pensò che la chiamata fosse interrotta, mamma, ci sei, chiese, la madre c’era ma nicchiò, minimizzò, cambiò discorso con la finta noncuranza che sapeva usare come un fioretto ogni volta che non voleva affrontare una questione, Martina lasciò perdere, sapeva che non ne avrebbe cavato niente, sua madre quando ci si metteva era un muro di omertà degno dei servizi segreti o dei clan mafiosi, e allora chiese come stava, e come stava il babbo, e disse che sperava di riabbracciarli presto, che comunque era altro che la verità, e intanto pensava che alla questione in un modo o nell’altro sarebbe andata a fondo perché ormai le si era insediata in testa come un tarlo in un mobile vecchio, e come un tarlo la rodeva, e Martina non era tipa da tollerare tarli. Riattaccò, vuotò il calice e poi ne vuotò un altro, e poi si mise a letto a rimuginare fino a che lei e il tarlo si addormentarono in un sonno solo apparentemente privo di sogni.
Davvero non ti ricordi, mormorò Francesca, e distolse lo sguardo. L’aveva presa in chat da sola e messa alle corde. Si mangiava le parole, intimidita, non guardava neanche in camera. Martina non si smosse di un capello. Insistette, a muso duro. Forse lo hai rimosso, disse Francesca. I frammenti che riaffioravano alla mente di Martina erano assurdi, sembravano un brutto film dell’orrore. Ricordava una ragazza con la sindrome di Down in classe con loro, una specie di mostro, più grossa di tutte le altre, sbavava, imprecava, era soggetta a scatti d’ira improvvisi e violentissimi, le picchiava tutte, le suore non riuscivano a tenerla a freno. La sua vittima preferita era una bambina gracile e povera, che non parlava con nessuno, con lei si accaniva con più rabbia che con le altre, forse perché era meno in grado di difendersi. Erano entrambe arrivate al terzo anno, le pareva. Una mattina erano in soffitta, giocavano a nascondino, o forse il mostro aveva trascinato la piccola su per vessarla meglio, al riparo da occhi indiscreti, la finestra era aperta, la piccola cadde di sotto. In stanza c’erano solo loro due. Fu fatto passare per un incidente e la ragazza down fu rinchiusa. Fine della storia. Era andata così? C’era altro da ricordare? Martina si appoggiò sulla poltrona di pelle, si sentì stanca morta. Francesca sospirava sommessa, gli occhi lucidi, non spiccicava parola. Martina chiuse la chat. No, non ricordava tutto. Ancora qualcosa le sfuggiva. Per quanto si sforzasse non riusciva trovare i tasselli mancanti del rompicapo, come quando frughi nella scatola del puzzle senza trovare il pezzo che ti serve a completare il quadro. Le sfuggiva qualcosa che Francesca e le altre sapevano, e che non volevano che sapesse anche lei. Pensò che forse si erano messe d’accordo per prenderla in giro. Eppure l’argomento era venuto fuori, le pareva, quasi per caso, anche se questo non provava niente, anzi, poteva essere stato fatto apposta. No, non era possibile, le sopravvalutava. Quelle suorine mancate non avevano la tempra per manipolare una come lei, non stava né in cielo né in terra. Eppure tutte sembravano ricordare tranne lei. Francesca aveva confermato che era successo in terza elementare, e anche Martina ne era abbastanza sicura. Però non ne cavava niente da questa informazione; a quanto ricordava erano sempre state nella stessa aula, la stessa classe, con le stesse suore a fare da maestre, per tutti e cinque gli anni. Si alzò di scatto e andò alla libreria, cercò un vecchio album di foto e lo sfogliò veloce. Arrivò alle foto di classe delle elementari, e rimase di sasso quando si accorse che mancava proprio quella del terzo anno.
Provò a contattare Francesca. Non riusciva a crederci, quella stronza l’aveva bloccata. Provò a contattare le altre, l’avevano bloccata anche loro. La stronza aveva sparso la voce, si stava delineando una specie di cospirazione. Si vestì in tutta fretta, mise due gocce di profumo, infilò la mascherina e uscì nella città semideserta. Non aveva compilato l’autocertificazione, decise che a un eventuale posto di blocco avrebbe fatto affidamento sullo charme. Sbattere gli occhioni e sorridere funzionava sempre con le forze dell’ordine. Funzionava con tutti gli uomini. Le donne erano ossi molto più duri; smaliziate, invidiose, cariche di rancore. Ma lei era l’osso più duro di tutte. Le scuole elementari le risultavano essere aperte. Se ne accertò con un rapido giro di Google e partì a velocità sostenuta, ma senza esagerare, per non dare troppo nell’occhio. In macchina accese lo stereo e canticchiò, per dissimulare l’ansia. Arrivò davanti alla sua vecchia scuola poco dopo l’orario di apertura. Fece un giro dell’isolato, le bambine erano già entrate, i genitori già spariti. Meglio così. Parcheggiò e si avviò a piedi verso il portone. Aprì una suora giovane, sorridente, gli chiese come poteva aiutarla. Si trovò in difficoltà per un attimo, non ricordava il nome di nessuna delle suore che insegnavano ai suoi tempi. Pensò che comunque molte dovevano essere morte, o in pensione, perché era piuttosto anziane quando lei era bambina. Chiese di parlare con la direttrice, perché doveva iscrivere la figlia. La suorina la guardò dubbiosa, era un po’ tardi per iscrivere un’alunna, chiese se avesse un appuntamento. Improvvisò una storiella tragica con l’espressione contrita, shakerò le parole, emergenza, malattia, la suorina abboccò, lei si complimentò con sé stessa, mentire a una che si era consacrata a Dio, mica male. Aveva fatto una lunga pratica. La suorina disse di seguirla. Lei la seguì pur conoscendo la strada. Attraversò i vecchi corridoi con una specie di brivido, dai vetri delle finestre balenavano spezzoni di ricordi. Arrivarono all’ufficio della direttrice, la suorina bussò, si affacciò, le disse di sedersi e aspettare un momento, salutò e trotterellò via. Aspettava nervosa, seduta sulla panca d’ebano massiccia, come quando da bambina la mettevano in punizione, e capitava spesso. Picchiettava l’indice sullo schermo dello smartphone, canticchiando una vecchia canzone su Gesù che ti amava tanto e ti salvava, una di quelle che le facevano cantare proprio là, tanti anni prima. Una suora con una chitarra e loro in coro a battere le mani. Erano anni che non le veniva in mente quella canzone, da allora, forse, si disse. Potere della suggestione dei corridoi scuri, era sgusciata fuori da qualche luogo recondito dei suoi lobi temporali dove era seppellita. Forse insieme a quella storia, quel tarlo, che non riusciva a togliersi dalla testa. Eppure non era una che in generale si facesse troppi problemi, che tendesse a complicarsi la vita con scrupoli di sorta. Eppure questo se lo era proprio andato a cercare, gli era sbattuto addosso, maledetto il giorno che aveva aperto la chat, si disse. E mentre i pensieri vorticavano e i ritratti alle pareti vomitavano ectoplasmi arrivò una voce da dietro la porta socchiusa, avanti, disse, entri pure. La suora mise su la mascherina, Martina fece appena in tempo a veder balenare un sorriso bonario. La riconobbe; era invecchiata e appesantita, ma era senza dubbio una delle sue maestre. Ai tempi era giovane e anonima, ora era niente meno che la capo confetto. Così chiamavano le suore le bambine, così e con diversi altri nomignoli meno lusinghieri. Bene, le disse incrociando le mani sopra la scrivania, quindi lei vorrebbe iscrivere la sua bambina al nostro istituto, mi dica pure. Il confetto non aveva idea di chi fosse, pareva. Meglio così, si disse. Il vostro istituto mi è stato caldamente consigliato, iniziò, una mia cara amica è stata vostra alunna, anni fa. La suora annuì, gli occhi sorrisero. Vorrei informazioni sulla retta, sugli orari, e vorrei sapere se impartite un’educazione strettamente religiosa alle bambine, le chiese. La suora rispose precisa, e affermò con decisione che loro offrivano un’istruzione laica, che niente veniva imposto alle bambine, che l’istituto ospitava molte alunne di altre confessioni, testimoni di Geova, induiste, islamiche. Quante cazzate racconti, stronza di un confetto, pensò Martina. Ricordava bene la retorica e l’indottrinamento mimetizzate tra le canzoncine, ma forse ora la musica era cambiata. Comunque non gliene poteva fregare di meno, non era là per questo. Annuiva mentre la suora continuava a parlare, cercava il momento per fare la sua mossa, ma l’altra non sembrava intenzionata a zittirsi o a farle porre domande, dovette interromperla. Si sono mai verificati incidenti, chiese di punto in bianco. La suora impietrì, a Martina venne da sorridere sotto la mascherina di stoffa firmata. Il volto della direttrice si era fatto bianco quasi quanto il velo che le copriva i capelli. Ora sembrava davvero un confetto, un confetto crepato di rughe masticato e sputato. Si riprese, gli occhi si fecero duri e guardinghi, non capisco cosa intenda disse, e attese la risposta. Martina non si scompose. La mia amica mi ha parlato di un incidente, disse, un incidente piuttosto grave, che accadde quando lei era un’alunna, in terza, mi pare abbia detto. La suora scosse la testa. Certo, parliamo di più di vent’anni fa, continuò Martina, magari lei non aveva ancora preso i voti. Non c’è stato nessun incidente, la interruppe secca la suora, mai, non che io mi ricordi. Martina fu presa alla sprovvista, non si aspettava un simile contropiede. Lo smarrimento durò una frazione di secondo, ma la suora di nuovo le bruciò la replica sulle labbra. Come ha detto che si chiama, la sua amica, la incalzò. Gli occhi sopra la maschera si erano fatti piccoli, trasudavano sospetto. Aveva mangiato la foglia, doveva scoprire le carte, si tolse teatrale la mascherina, si chiamava Martina le disse, ed è più che sicura che un incidente c’è stato, un incidente mortale, in una terza, morì una bambina. La suora sgranò gli occhi, scattò in piedi come un’alunna, le mani grandi e bianche piantate sulla scrivania nera, a Martina parve di sentire il suo cuore in preda alla tachicardia e sorrise spontanea e malevola. Ti riconosco, disse la suora, sei tu Martina. Martina si alzò anche lei, deve dirmi che cosa è successo le fece, dura, a voce alta. La suora fece il giro del tavolo e la prese di petto, Martina pensò che stesse per aggredirla e fece un passo indietro e si mise in posizione di guardia, si sentì vagamente ridicola. Vattene, urlò la suora indicando la porta, vattene via o chiamo i carabinieri, vattene via e non tornare mai più. Le grida della direttrice avevano attirato l’attenzione della suorina, che giunse scalpicciando e spalancò la porta trafelata. Martina le passò davanti, che succede chiese la suorina, Martina neanche la guardò. Guardò la direttrice invece. Era rossa, furente. Magari passo io dai carabinieri, disse fredda, e attraversò il corridoio verso l’uscita, con la suorina che blaterando le trottava dietro. Tu sei il diavolo, sentì che gridava la direttrice. Vaffanculo confetto, disse tra i denti. Uscì in strada, respirò forte, salì in macchina e puntò decisa verso casa di Francesca.
Si era segnata l’indirizzo. Non che fosse necessario o ci volesse troppa fantasia, la povera stronza abitava nella palazzina accanto a quella di sua madre. Certa gente fa non un passo in tutta la vita, pensò Martina. Parcheggiò e spense la macchina. Doveva essere a casa senz’altro, era maestra d’asilo e le scuole erano chiuse. Il marito doveva essere al lavoro, ma a casa probabilmente c’erano i figli, e questo poteva essere un problema nel metterla alle strette, non voleva traumatizzare le creature, di già gli era toccato in sorte una mamma del genere, meglio non infierire. Si fece due conti su come stanarla. L’aveva bloccata sul cellulare, non poteva contattarla. Poco male, se non poteva accerchiarla avrebbe optato per un attacco diretto. Lo diceva Sun Tzu, non poteva essere sbagliato. Scese dall’auto e puntò diretta al portone, trovò il campanello e suonò. Chi è, chiese una vocetta timida. Sono io, disse Martina. La vocetta non rispose. Se non apri ti pianto un casino tale che ti toccherà chiamare i carabinieri, e ti giuro su Dio che né io né te faremo una figura affatto decorosa, le disse. Nessuna risposta. Vuoi rischiare uno scandalo pubblico, come ti pare, sai benissimo che non mi faccio problemi, disse ancora, con durezza. Il portone si aprì con uno scatto. Martina sorrise e prese le scale. Quando muovi, sii rapido come il vento, maestoso come la foresta, avido come il fuoco, incrollabile come la montagna, si ripeté mentre saliva. La porta dell’appartamento era socchiusa. La spinse. L’interno era molto simile a quello della madre, per quanto ricordasse. Classico, foto dei bambini e dei nonni, sembrava uscito da un film anni cinquanta. Non un passo avanti. Francesca era in piedi, con le mani intrecciate davanti, sembrava una Madonna di una di quelle imitazioni di icone russe. Strano che la casa non ne fosse costellata. Cosa vuoi, le chiese. Aveva già gli occhi lucidi. Ti pare il modo, le disse Martina, di accogliere un’ospite. Francesca non rispose, rimase lì, impalata. Martina puntò un divanetto, si sedette. Francesca strinse gli occhi, increspò la bocca, fai sempre come se fossi tu la padrona. Stronza, pensò Martina, accennò un sorriso, i bambini, le chiese. Dai nonni rispose Francesca. Be’, disse Martina, non si offre neanche un caffè a una vecchia amica. Francesca sospirò, si voltò e andò in cucina. Martina si rilassò, pensò che forse stava per venire a capo di quella storia e quasi le dispiacque. Francesca fece capolino dalla porta della cucina, vieni no, le disse, ti prendi il caffè e te ne vai. Martina si alzò, attraversò la stanza a passo lento e la raggiunse in cucina. La stanza era bianca, la caffettiera sul fuoco. Martina si sedette, Francesca era in piedi davanti al fornello, fai come se fossi a casa tua sibilò, Martina non rispose, il caffè venne su. Latte, zucchero, chiese Francesca, Martina fece no con la testa. Francesca prese due piattini e due tazzine decorate, versò due caffè, zuccherò il suo, sedette anche lei. Nessuna delle due parlava, ma i silenzi erano diversi, opposti. Francesca ci si nascondeva, Martina lo agitava come un ventaglio in una giornata afosa. Sorbirono i caffè. Buono, disse Martina, grazie, rispose Francesca. Di nuovo calò il silenzio, Francesca stava a testa bassa, sembrava cercasse di guardarsi le scarpe attraverso al tavolo. Non me ne vado finché non mi racconti tutto, disse Martina, e con tutto intendo tutto, per filo e per segno, basta puttanate. Francesca esitò, deglutì, le si bagnarono gli occhi, ma perché vuoi tirare fuori questa storia, disse, sono passati tanti anni, non interessa a nessuno. Interessa a me, rispose Martina. Francesca sospirò. Fumi, le chiese. Martina rimase stupita, tirò fuori il pacchetto, ne accese due, ne dette una a Francesca. Lei la prese, aspirò un tiro e soffiò fuori il fumo. Scosse la cenere nella tazzina vuota, va bene, va bene, le disse, tanto tu ottieni sempre quello che vuoi, sei sempre stata così. Si asciugò gli occhi e la guardò, la trovò molto bella. Che vuoi sapere, di preciso, le chiese. Martina aspirò la sigaretta anche lei, ci pensò su, cercò le parole, non le trovò, parlò e basta. Voglio sapere cosa è successo, di preciso, e nient’altro, voglio una conferma a dei ricordi molto vaghi che ho, disse. Guardò Francesca negli occhi. Voglio sapere quello che sembra che sappiate tutti e che sfugge solo a me, disse. Francesca spense la sigaretta. Non credevo fumassi, le disse Martina. Non fumo, rispose Francesca, tu che ti ricordi, le chiese. Mi ricordo che c’era una bambina fragile che veniva vessata da una specie di mostro, una ritardata enorme e violenta, rispose Martina, mi ricordo che questa bambina volò giù da una finestra, e che poi fu tutto insabbiato, e so che è andata così, ma è tutto immerso in una specie di nebbia, e non capisco perché, mia mamma ha fatto sparire le foto, il confetto ha dato di matto, quindi ora tu mi spieghi, e poi non mi vedrai mai più. Francesca rise, rise con la testa all’indietro, rise fino alle lacrime, poi si asciugò le lacrime, Martina non credeva ai suoi occhi, Francesca prese un’altra sigaretta e l’accese, sbuffò fuori il fumo e rise ancora. Martina la lasciò finire. Dunque è questo che ti ricordi, disse Francesca, com’è che dicevano i confetti, sei sempre stata una maga a girare le frittate. Martina non capiva. Francesca si alzò in piedi, vieni con me, le disse. La condusse attraverso il corridoio alla camera da letto matrimoniale, accese un abat-jour. Le balenò in mente una scena di sesso coniugale tra Francesca e suo marito, non riuscì a frenare un’espressione di disgusto. È uguale a quella di tua madre, le disse, Francesca la guardò con una punta d’odio, non sei mai riuscita a tenere a freno la lingua, rispose. Aprì il primo cassetto del mobile di legno, tirò fuori una busta ingiallita, la aprì. Dentro c’erano cinque foto in formato grande, piuttosto vecchie. Martina le riconobbe, erano le loro foto di classe. Francesca ne scelse una, gliela porse. Martina esitò, Francesca sospirò e gettò la foto sul letto, che fai, le disse, non la guardi. Aveva in faccia un accenno di sorriso maligno, Martina pensò che non fosse da lei. Prese la foto e la guardò. Era la foto della terza elementare. Francesca sentì come un capogiro, sentì le gambe cedere, si sedette sul letto. Ora ricordi, le chiese Francesca. Martina ricordava.
L’intervallo, radunare le fedelissime, correre per i corridoi. Le suore gli urlano dietro, qualcuna cerca di calciarla al volo, le tonache si alzano, le bambine pensano che i confetti con le gambe all’aria sembrano lenzuoli stesi al vento, anzi no, sembrano paracadute, le dribblano e ridono e scappano. Il quartetto fa quello che vuole, non teme gli scapaccioni e le ramanzine dei confetti, vessano le altre bambine, rubano le merende e le matite, tirano capelli fino a farle piangere. Se qualcuna si ribella la aspettano in bagno o fuori nel cortile e sono legnate. I confetti lasciano fare, sono cose tra bambine, l’importante è che non si turbi l’ordine interno, non si manchi di rispetto a Dio e alle sue sposine, i programmi anti bullismo sono roba remota, da scuola laica, ma davvero esistono già? Il capo della banda è più alta e grossa delle altre, è sboccata e manesca, le comanda a bacchetta, pure le fedelissime la temono, a volte le picchia, lei è per loro ciò che loro sono per il resto delle bambine. Ma stare nella sua corte assicura ampi poteri su tutte le altre e loro ci stanno e spadroneggiano al suo fianco. Martina le vede correre su per le scale, di spalle, come in un film. Hanno scoperto una soffitta, una stanza nascosta e piena di polvere e manichini e bauli, sono riuscite ad aprire la porta ed è diventata la loro base segreta. Alle altre bambine non è permesso l’ingresso, è il covo dell’élite guerriera e tirannica. Arrivano alla porta, la aprono, entrano, se la chiudono alle spalle. Socchiudono un finestrone, una lama stretta di luce fende lo stanzone, quel tanto che basta a sedersi per terra a gambe incrociate e spartire caramelle e merende rubate. Il gruppetto ride nella penombra, mangiucchia, qualcuna storpia una canzone delle suore infarcendola di imprecazioni da bassifondi, certo, è la più grossa, la regina nera, è sempre lei che dà il la. Martina è lì in soffitta, nascosta dietro una panca, le scorge nel buio, non le distingue. Un rumore la distrae, la porta cigola, si socchiude, si sono scordate di chiuderla, o forse l’hanno chiusa male, Gesù, che errore, non è da loro, qualcuno la pagherà cara, una volta sistemato l’intruso. Martina si gira verso la porta e la luce le investe lo sguardo. Dietro la luce intravede una figurina nera come un negativo, è piccola, più piccola delle gangster della soffitta, fa capolino, sembra curiosa, avanza a passettini. La banda si alza ringhiante e schiumante e le si fa incontro a passo militare. La figurina indietreggia, intimorita, ma ormai la banda le è addosso, otto mani l’agguantano, la tirano dentro, lei urla, le mani le tappano la bocca, una si stacca da moloch per chiudere la porta. La porta è pesante e per chiuderla va spinta all’indietro, per una frazione di secondo la scena è illuminata. Martina vede. Non vede quello che si aspetta, non vede quello che anche solo vagamente ricordava prima di tuffarsi nella foto ingiallita. La luce illumina e brucia, taglia la stanza e i volti come una lama, dissipa le nebbie e rivela la verità. Anche la verità è una lama, è più pugnale che coltello, Martina nell’angolo il pugnale se lo sente nel petto, sbianca e urla, ma nessuna nella stanza sembra sentirla. La piccola intrusa è a terra e la tengono ferma, geme di dolore e paura, il capo della banda è ritta davanti a lei, giudice e boia. La vittima ha i tratti tipici della sindrome di Down. Il giudice, il boia, in piedi sopra di lei, ha la faccia cattiva di Martina bambina. Martina bambina solleva la vittima per il bavero, le assesta uno schiaffo violento, la spinge. Lei incredibilmente rimane in piedi, ma il branco le si fa sotto. La porta ha la serratura rotta ed è aperta di nuovo, passa una corrente di vento che spalanca la finestra, il branco ringhia, Martina bambina in testa, e spintona la vittima verso la luce. Martina adulta urla, urla, urla smettetela, lasciatela stare, ma è tardi, è tardi in ogni senso possibile. Martina si sente cadere nel vuoto e apre gli occhi sul letto di Francesca, con le lacrime agli occhi.
Martina, la chiamò Francesca, Martina. Era davanti a lei, ma la voce le arrivò da lontano, ovattata. Martina si strofinò via le lacrime dagli occhi, singhiozzò, non riuscì a reprimere un conato di pianto che saliva dallo stomaco e le scuoteva lo sterno. Si vergognò d’istinto, aveva momentaneamente perso il suo stile proverbiale, e proprio davanti a quella, si alzò di scatto e per poco non cadde, Francesca la riprese al volo, Martina pensò che dello stile proverbiale se ne fregava, chiese un fazzoletto e pianse. Quando si fu tranquillizzata si alzò, chiese di usare il bagno, si sciacquò la faccia. Si guardò allo specchio, il trucco le era svanito nel pianto e nell’acqua fredda del lavandino, era illividita, pallida come una morta. Uscì, Francesca le chiese se voleva un bicchiere d’acqua, o magari un bicchierino di liquore, Martina rispose che voleva solo andare a casa. Si congedò, le parve di vedere un accenno di sorriso maligno sulla faccia di Francesca, ma non le disse nulla, si avviò alla macchina e prese la via di casa.
Viaggiò senza accendere la musica, le lacrime tornavano a ondate, le puliva con fazzoletti di carta. Sotto casa il pacchetto era vuoto. L’ascensore era occupato, salì le scale trascinando i piedi, arrivò al quinto piano e si sentì sfinita. Entrò, si spogliò e si infilò in doccia. Ci rimase più di mezz’ora. Uscì, si asciugò, si infilò una tuta nera. Si sentiva vuota. Spalancò la finestra, tirava vento, odorò l’aria. Veniva giù una pioggia leggera. Guardò l’asfalto, ci vide la bambina, si vide terrorizzata nella soffitta, vide le suore parlare coi carabinieri, la superiora scuoteva la testa, il velo ondeggiava. Scacciò i pensieri, cercò di tornare al vuoto. Non ci riuscì, allora guardò il vuoto che invece aveva davanti, strinse forte il cornicione, tese i muscoli delle gambe. Sulla scrivania accanto a lei squillò il cellulare. Con la coda dell’occhio vide sul display che era sua madre, e si chiese se rispondere.