In una sera d’estate di circa trent’anni fa, nel borgo ci fu una piccola invasione di calabroni. Non innocui bombi, né grassocci calabroni neri, con la loro aria sempre un po’ stordita; erano calabroni gialli, quelli velenosi, più lunghi, slanciati e aggressivi. Il bar si svuotò, e tutti partirono a piedi, cercando di seguire i calabroni per capire dove fosse la tana. Poteva sembrare una marcia di sfollati, in cui le torce elettriche e i fiammiferi accesi si mischiavano alle luci intermittenti delle lucciole nei campi, e invece era un drappello alla ricerca di belve volanti. La trovarono su una strada di campo, nella fessura tra le pietre di un muro a secco. Riempirono il buco di stracci imbevuti d’alcol e gli dettero fuoco. A noi bambini parve una notte avventurosa. Nelle estati di trent’anni fa, la noia, al borgo, ti poteva ammazzare.
In Nostalgia, il film di Mario Martone in concorso al Festival di Cannes e appena uscito nelle sale, Felice Lasco (Pierfrancesco Favino) è un napoletano che ha abbandonato la città da adolescente. Ormai radicato in Egitto, dove si è realizzato professionalmente e sposato, torna a Napoli dopo quarant’anni, per assistere l’anziana madre. Dopo un tempo breve, ma sufficiente a insinuare in lui la tentazione di fermarsi e restare, la moglie al telefono gli chiede quanto lo abbia scosso vedere la città cambiata, dopo tutto quel tempo. Ma a lui non sembra cambiata in niente. “Qui tutto è rimasto uguale”.
Felice Lasco comincia allora a ritrovare la sua città, e il viaggio assume presto contorni onirici, tra le catacombe di San Gennaro e il cimitero delle Fontanelle, lungo la salita di Capodimonte e i costoni rocciosi su cui da ragazzino si arrampicava in moto, nelle scalinate e nei vichi del rione Sanità, una città ulteriore, segreta, che pullula di occhi nascosti a osservare, dove ci vorrà pochissimo perché venga riconosciuto da presenze amichevoli e da altre ostili, come se tutti, in effetti, fossero rimasti immobili ad aspettare il suo ritorno. Dovrà fare i conti, però, con l’evento misterioso che lo aveva portato a lasciare la città, e anche con le persone che nel corso dei decenni sono irrimediabilmente cambiate.
L’aspirazione di Felice, che prende corpo quasi dal nulla, un passo dopo l’altro, ben simboleggiata dal contrasto tra due lingue (l’arabo che lui parla ormai da decenni, e il dialetto napoletano appreso da bambino, al quale lentamente si riavvicina) riguarda il tentativo, forse impossibile, di realizzare un accordo tra i due emisferi della sua vita.
La partita si gioca su due fronti, non presenta schemi binari, scivola dal passato al presente, e l’insieme di sfumature si cala nel labirinto della Sanità, dove tra le scale e il sottosuolo possono aggirarsi il boss e il santo, i manovali di camorra e i ragazzi che si allenano al sacco nella palestra popolare, e dove un forte collante della comunità è rappresentato da un prete di strada (per il quale lo scrittore Ermanno Rea, nel romanzo da cui è liberamente tratto questo film, si era ispirato alla figura di don Antonio Loffredo.)
In un altro romanzo, L’invenzione della madre di Marco Peano, c’è questa frase: “Ha sempre faticato ad accettare l’idea che la vita sia movimento: piccoli smottamenti, cambi di gusti, di abitudini. Per lui la vita è sempre stata un fermo immagine”. Nell’epoca della massima transitorietà, dove immediatezza comunicativa e saturazione dello sguardo rendono sempre più faticosa la formazione di un immaginario, è comprensibile che le difese più spontanee possano portare a un’indefinita nostalgia – per un altro tempo, un tempo qualunque, purché con minore deperibilità – o al tentativo di rendersi invisibili, e immobili, come tanti insetti stecco. Felice Lasco, all’opposto, rovescia il tavolo, e tenta di restare in piedi durante il terremoto che lui stesso ha cercato e provocato.
A che genere di nostalgia, allora, si riferisce il film?
Non ai territori immensi, noiosi ed entusiasmanti delle estati infantili.
Non alla nostalgia per una città che c’era e non c’è più, né a quella per un’età dell’oro che non c’è mai stata.
Non alla frustrazione di non poter scegliere cosa conservare nel tempo.
Nemmeno al semplice rimpianto dell’ansiosa ed esaltante libertà adolescenziale, quella dei capelli lunghi, delle risse, delle fughe in moto e dei bagni in mare al tramonto; che è mostrata, piuttosto, in maniera funzionale a ricostruire l’evento lontano e decisivo, quello che Felice visse insieme all’amico inseparabile, diventato da adulto ‘o Malommo, il boss della Sanità (Tommaso Ragno).
Se, come aveva ipotizzato Kant, la nostalgia è legata non a un luogo lasciato, ma al tempo perduto, Felice Lasco cerca di cicatrizzare il passato attraverso una difficile pacificazione, e di riconciliarsi con la sua città generando un presente del tutto nuovo.
Eppure, vagando per i vicoli, riprendendo confidenza con i codici del rione, riabbracciando una parvenza di comunità, sembra che Felice sappia che il passato lavora dentro, modella in silenzio e lascia tracce. Nostalgia non come mancanza o rimpianto, ma come accumulo e stratificazione, secondo un processo emotivo comune tanto ai protagonisti fittizi quanto a chi, seduto dentro il cinema, riconoscerà nel volto invecchiato di Nello Mascia la furia del Molosso (L’uomo in più), nello sguardo intenso di Francesco di Leva un’ombra del giovane sicario di Una vita tranquilla o del Sindaco del rione Sanità, nell’incedere malinconico di Tommaso Ragno la stessa disperazione sbandata di Padre Marcello (Il miracolo).
Forse la nostalgia del titolo è allora un bagaglio immateriale, con dentro le stesse sedimentazioni di un fossile, le realizzazioni e le occasioni mancate, le strade imboccate o smarrite, tutte le cose sparite senza chiedere il permesso e quelle che invece, sempre senza bisogno di un consenso, sono rimaste uguali.
Da qualche giorno, nel borgo, con l’arrivo del caldo viene da tenere aperte a lungo le finestre, ma sarebbe meglio non farlo. Dopo un po’ capita di sentire un ronzio inconfondibile, molto più forte di quello delle mosche, e simile magari a quello delle vespe, ma più robusto, baritonale: sono tornati i calabroni gialli. Sono lunghi quasi cinque centimetri, e sono pronti a riappropriarsi dell’estate. Non è chiaro se siano qui alla ricerca di un passato, o dei loro antenati. Dicono che vengono dalla Cina.