Da bambini il nostro immaginario, mentre si forma e si popola di presenze, appare come un universo intatto, e lo percepiamo come intangibile ed eterno. È un mondo multiforme, abitato da compagni di scuola, vicini di casa, eroi dei cartoni animati e dei fumetti, protagonisti dei libri di Rodari e dei programmi d’intrattenimento; ma è quasi scontato che, da quasi subito, i personaggi pubblici reali possano avere un ruolo di primo piano.
Magari si è già familiarizzato da tempo con l’esistenza della morte, ma si rifiuta a priori la semplice idea che il nostro immaginario possa perdere pezzi; che possa non restare per sempre così.
Non si tratta di convincersi con candore che esista qualcosa d’immortale, ma piuttosto di legarsi – in qualche caso aggrapparsi – in modo profondo a tutti gli elementi della propria realtà e della propria fantasia, pur con la prevedibile contropartita di una maggiore sofferenza quando la costellazione di santini inizierà naturalmente a dissolversi. Non si tratta neppure (o forse sì; chissà) di essere affezionati a Peter Buck, a Saddam, ad Andreotti, o, non so, a Heather Parisi, agli Snap e a Corrado Mantoni, e di esserlo per il semplice fatto che c’erano anche loro, nel 1991, quando avevi dieci anni e vivevi con la sensazione di saltare continuamente da un seggiolino all’altro di una giostra, accompagnato, sullo sfondo, da un’affollata scorta di presenze amiche; si tratta di riconoscere che di questa scorta magica, di cui sarebbe troppo lungo elencare tutti i componenti, facevano certamente parte anche Gianluca Vialli e la sua squadra, la Sampdoria; che la morte di Gianluca Vialli fa male, e che il bellissimo docufilm di Marco Ponti La bella stagione, con un tempismo un po’ crudele e una realizzazione impeccabile e struggente, ne dà pienamente conto.
1. La Samp
Con tutto il rispetto per il glorioso Grifone, come si faceva a non avere simpatia per la Sampdoria? Quel nome bizzarro, quel simbolo ancora più bizzarro (il Baciccia, cioè la sagoma di un portuale, con pipa in bocca, simile a Braccio di ferro), il fatto che sulla fascia destra corresse la personificazione stessa del suo simbolo, cioè Braccio di ferro-Attilio Lombardo, e poi la bellissima maglia blucerchiata, i tipi umani che formavano la squadra (Pagliuca col suo ciuffo, il secondo portiere a vita Nuciari, il folletto Salsano, il mastino Pari, l’ala tuttofare Dossena, il seduttore Bonetti), la classe (e il carattere) perfettamente complementare dei suoi due grandi attaccanti.
Lo stadio della Samp era (è) unico, l’unico stadio inglese in Italia; la tifoseria organizzava coreografie impensabili; la Samp riuscì a sfilare lo scudetto al Milan degli olandesi, al Napoli di Maradona, all’Inter dei tedeschi, alla Juve dei russi.
2 – Lo Zar
Pietro Vierchowod – un nome che ha allenato milioni di italiani alla pronuncia corretta di una lingua ostica come il russo – era figlio di un soldato dell’Armata Rossa originario di Kiev, che alla fine della guerra si era rifiutato di tornare in URSS e si era stabilito in provincia di Bergamo. Vierchowod aveva una faccia da rapace che sembrava scolpita da un’accetta, i suoi ricci erano falsamente angelici, la sua corsa ingobbita e velocissima suonava più o meno, per l’attaccante avversario, come l’arrivo di una falce. Gli è capitato di annullare Maradona e poi, a distanza di un decennio, anche Ronaldo. Succede di definire i difensori più arcigni con l’epiteto di macellaio, a volte seguito da un misericordioso “però era corretto”; nel caso di Vierchowod, il “però era corretto” non lo ha mai aggiunto nessuno. Vierchowod era solito prendersela con i compagni, si infuriava con loro al minimo errore. Vierchowod oggi ha l’aspetto di un nonno arzillo e sereno. “Eravamo proprio una famiglia”, dice. Il grande Toninho Cerezo, nel suo italiano bailado, dice, prima di scoppiare a ridere: “Vierchowod era un teista di minchia; un fijo di minhotta. Menava tutti. Stronsu, veramente”.
Appena prima dei titoli di coda, Pagliuca ricorda un episodio. Vierchowod che lo insulta dopo un errore, lui che, esasperato, lo prende per il collo e lo solleva di peso, proprio sotto la Gradinata Sud. Negli spogliatoi Boskov invita il presidente Paolo Mantovani a multare il portiere. “Pajuca non può fare questo a compagno più anziano”. Mantovani risponde: “Nessuna multa: è stato il primo che ha avuto il coraggio di menare Vierchowod”.
Da adulto, avrei pensato che lo slavo Boskov fosse indispensabile per lo zar Vierchowod come il maresciallo Tito, fino a dieci anni prima, lo era stato per l’Unione sovietica.
3 – Vujo
Una parte del giornalismo sportivo di massa, nelle più recenti evoluzioni, si è volentieri adagiata su narrazioni inclini a trasformare gli eventi in meme, le rivalità in semplici nicchie di mercato (dove l’unica regola è blandire i clienti, a prescindere dalla loro appartenenza), e le figure leggendarie in macchiette; ora, se nel caso di Vujadin Boskov è stato lo stesso allenatore a contrassegnarsi come un saggio balcanico in bilico tra l’illuminante e il ridicolo, grazie a storiche frasi come “Sampdoria è come una bella ragazza che tutti vogliono dare baci”, o “Gullit è come cervo che esce di foresta”, o “rigore è quando arbitro fischia”, è pur vero che Boskov ha allenato la Jugoslavia, il Real Madrid, ha portato la Samp a vincere l’unico scudetto della sua storia; e le sue massime intrise di ironia erano spesso un espediente volontario per allentare le tensioni e ridimensionare il peso del mondo calcistico.
“Boskov era uno che sapeva vivere”, dice Paolo Condò. “Che sapeva affrontare dal punto di vista umano nel modo giusto tutte le situazioni.”
Boskov era tranquillissimo, poi quando cominciava la partita era molto nervoso, e aveva una presa a tenaglia con cui stritolava le braccia del suo povero vice allenatore.
Boskov diceva che un allenatore dev’essere un poliziotto, un maestro e un amico.
4 – “Chiarimento”
Per la Samp, pare che la “svolta” della stagione d’oro, dunque uno degli eventi decisivi che hanno contribuito a farle vincere uno scudetto incredibile, sia stata una cena di squadra organizzata nel classico periodo nero, quello che arriva sempre in inverno, quello delle sconfitte in serie, dei compagni che si insultano in campo.
Sembra che a un certo punto, in ogni gruppo di lavoro umano, debba arrivare il momento di una cena chiarificatrice – una cena che risolve tutto. Anni di incomprensioni, rancori, insulti, e poi, magicamente, “abbiamo deciso di organizzare una cena”, e le cose, d’incanto, si appianano. Sono momenti – senz’altro buoni come cesura, o sterzata narrativa – che forse amiamo considerare decisivi solo col senno di poi, guardandoci indietro dopo trent’anni; eppure a me piace l’idea che sia davvero così: che per mesi, o anni, si accetti di farci la guerra a vicenda, anche sapendo che per farla cessare basterebbe “sedersi davanti a un bicchiere”, che basterebbe “una cena”, e poi, di punto in bianco, senza un motivo particolare, si decide che sì, ci siamo, è arrivato il momento di organizzare una cena: e si chiarisce tutto.
5 – Cerezo
“Cerezo ha centonove anni, ragazzi”, dice Paolo Villaggio, prima di esclamare “Io non credo in Dio, ma credo nella Sampdoria”.
Cerezo, in un’intervista del 1991, diceva “Quanti anni ho? Beh, i documenti in Brasile parlano chiaro, non è che si può fare i gatti” (credo intendesse: non si può barare, non si può falsificare)
In un’intervista del 2022, dice ridendo “Quanti anni avevo? Mah, forse trenta-MH, o forse magari trenta-MH”.
6 – Cuscini
Per non farsi scoprire da Boskov (versione poliziotto), quelli che amavano uscire di nascosto e far tardi la notte (cioè Vialli e Mancini), prima di lasciare la camera imbottivano l’interno delle coperte con dei cuscini, evidentemente debitori della lezione di Tim Robbins in Birdy-Le ali della libertà (1984), e di Clint Eastwood in Fuga da Alcatraz (1979)
7 – Fratello
Mancini era quello bello, Vialli quello simpatico.
Quando uscivano la sera, Mancini mandava avanti Vialli, gli “faceva fare il lavoro sporco. Come in campo”.
Mancini era elegante, Vialli era potente.
Mancini era superbo, Vialli generoso.
Mancini era estremamente irritabile, molto più che fumantino, Vialli (forse) non faceva mai sfuriate.
Le storie commoventi, meglio se a risoluzione circolare e con rivalsa simbolica, sono la zona prediletta per gli appostamenti della retorica; sia come sia, sul prato di Wembley Mancini e Vialli hanno subito la più cocente sconfitta sportiva, e poi, trent’anni dopo, la più grande vittoria (ancora insieme, e insieme a buona parte della Samp del 1991); e, davvero, non era facilmente immaginabile.
8 – Rambo
“Ogni volta che vedo Koeman in tv, mi si attorciglia lo stomaco”, dice Pagliuca. Per i tifosi del Barcellona Ronald Koeman, detto Rambo, è il difensore dalle gambe come tronchi che ha portato in Catalogna la prima Coppa dei Campioni; ognuno fa i conti con le proprie nemesi, ma si deve sempre sperare che non arrivi mai, nella nostra vita, quello che Rambo Koeman è per un sampdoriano, cioè l’incarnazione di un incubo: un demone con i capelli a scodella, di un colore indefinibile (rossi? Biondi? Arancio?) venuto per strapparti dalle mani il sogno della vita, quando ce l’hai a un passo.
9 – Genova
All’interno della stupenda Litania di Giorgio Caproni, otto versi più di altri mi fanno pensare alla Genova doriana del periodo magico, e sono questi:
Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.
Genova bianca e a vela. Speranza, tenda, tela.
10 – Passenger
Vialli aveva gli occhi allegri, dal taglio vagamente orientale. Parlava un italiano impeccabile, quasi forbito.
Nei primi anni alla Samp aveva la testa sferica per via dei ricci scuri, portava i calzettoni abbassati, era una scheggia impazzita.
Poi passò alla Juventus, perse i capelli (e fu uno dei primi a rasarsi la testa a zero), diventò una specie di toro, iper coordinato e capace di acrobazie incredibili.
Ha rinverdito, al Chelsea, il ruolo di una figura ormai estinta, quella di allenatore-giocatore.
Lo abbiamo ritrovato in veste di testimone della propria malattia, e di guru carismatico per la Nazionale, di nuovo insieme con l’amico degli anni belli; la barba bianca, il corpo smagrito, gli stessi occhi di sempre.
“Lotta come un leone”, “È un guerriero”, “Non molla mai”, si dice spesso per lodare chi è malato, come se avere a che fare col cancro fosse un allenamento di atletica, una pratica calvinista, una gara a chi è più ottimista.
C’è voluto Gianluca Vialli, per chiarire che le cose, forse, non stanno proprio così:
“Ho scelto di non considerarla una battaglia; l’ho interpretato più come un viaggio. Ho immaginato di essere sullo scompartimento di un treno, e all’improvviso entra questo passeggero, un passeggero che avresti volentieri evitato. Mi sono messo nella condizione di affrontare il viaggio nel migliore dei modi, con la speranza di poter stancare il passeggero, e a fargli dire, un giorno, ‘Ok Luca, io scendo, tu continua il viaggio. Da solo’ “.