Alice quel giorno era arrivata di corsa, sudata, in ritardo, ma erano stati tutti gentili con lei. Nessuno l’aveva guardata con il giudizio che di solito vedeva affiorare rispetto all’adeguatezza delle madri. L’avevano semplicemente accolta, e il senso di pericolo che le stringeva lo stomaco dall’inizio della giornata si era disinnescato. Alice puntava ad essere una madre sufficientemente buona, come suggerivano i manuali, ma per la maggior parte del tempo non si sentiva abbastanza. Da quando era nata Ada, cinque mesi prima, ad Alice sembrava di essere inseguita da qualcosa che non riusciva a identificare. Proprio quel giorno era tornata in ufficio dopo il congedo di maternità e le sembrava di essere in ritardo su tutto. Anzi, lo era. La hall della piscina, infatti, era deserta, i bambini e i genitori erano già tutti dentro. L’uomo e la donna alla reception le avevano sorriso e detto soltanto: “Maestro Fabio”. Poi l’avevano affidata a Sofia, una donna ossuta, col naso a triangolo e un caschetto crespo. Dopo qualche passo Sofia si era fermata davanti alle vetrate a tutta altezza che davano sulla vasca dei bambini e le aveva indicato il maestro che stava in acqua, al di là, un mezzo busto circondato da mamme e neonati. Alice era stata contenta perché il maestro Fabio le ricordava qualcuno, anche se non avrebbe saputo dire chi. Le sembrava di conoscerlo da sempre. Aveva la barba nera e una cuffia di stoffa azzurra gonfia di capelli che sfuggivano da tutte le parti, un torace largo e le spalle morbide. Aveva circa dieci anni più di lei, che per essere madre era giovane, come tutti le facevano notare. Eppure da quando aveva partorito si sentiva vecchia, senza speranze. Sofia le aveva indicato la scarpiera e poi la porta dello spogliatoio. Una volta dentro Alice si era subito sfilata il vestito, scelto per fare prima a cambiarsi. Sotto indossava già il costume, un due pezzi ricercato, che non aveva niente a che vedere con lo sport e l’atmosfera asettica e senza fronzoli della piscina. Poi aveva cambiato il pannolino ad Ada, sperando che non si accorgesse di quanto fosse tirato il suo sorriso. “Adesso andiamo a divertirci,” le aveva detto guardandola negli occhi, ma parlava soprattutto a se stessa. Da quando era diventata mamma ogni cosa si era fatta impossibile. Vestirsi, mangiare, uscire di casa, farsi la doccia, tutto era un’impresa e ad Alice sembrava di avere sempre meno energie. Era come se il cervello non le funzionasse più. Prendeva decisioni a casaccio. Così si era iscritta in piscina, anche se la piscina l’aveva sempre odiata. Quando era piccola, infatti, Alice aveva sempre freddo. Se pensava a quando andava a nuotare con la scuola elementare sentiva ancora i brividi che la scuotevano fino a farle battere i denti durante il riscaldamento. Era un privilegio poter frequentare il corso di nuoto come attività curriculare, i suoi genitori non se lo sarebbero potuti permettere. Rivedeva il costume fucsia col pagliaccetto che le aveva regalato la mamma. Le sorrideva dall’alto, da dietro le vetrate, mentre a lei veniva solo da piangere, guardandola dal basso. La mamma era piccola e distante e anche se Alice avesse provato a chiamarla con tutta la voce che aveva in petto non avrebbe potuto sentirla. Prima ancora di entrare nell’acqua fredda e azzurra le iniziavano a scendere delle grosse lacrime calde lungo le guance, e giù per il collo, finché non si raccoglievano nella conchetta formata dalle due clavicole, nel centro del petto. Percepiva con precisione il perimetro del suo viso tracciato dall’elastico della cuffia fucsia, i sentieri delle lacrime sulla pelle. Non riusciva a trattenerle e non sapeva perché. Si sentiva soffocare e basta. Non era solo il freddo, c’era qualcos’altro. I maestri, spazientiti, la lasciavano impalata a bordo vasca a gelare ancora di più, o la obbligavano a entrare lo stesso in acqua per poi farla restare da sola nell’angolo più basso dove si toccava. A ogni giro di vasca Alice lasciava sempre passare gli altri e dopo un po’ nessuno le chiedeva più se volesse provarci e in fretta scompariva dall’attenzione di tutti. Così, anche se erano passati vent’anni, entrata nell’acqua e aggredita dall’odore del cloro e dal vapore, Alice aveva sfoderato un atteggiamento distante e pacatamente sovversivo. Non solo verso Fabio, che in quel perimetro rappresentava l’unica autorità possibile, ma verso il mondo intero. Quella sfida totale era la difesa di una bambina che aveva ancora freddo e avrebbe voluto qualcuno che le avesse spiegato con calma come restare a galla. Eppure stavolta l’acqua era calda e il maestro le sorrideva: “Come si chiama?”. Fabio le parlava da dietro dei tubi arancioni e verdi, conficcati nei fori simmetrici di un materassino azzurro. “Ada, si chiama Ada,” aveva detto Alice scandendo bene le parole, per paura che il maestro non riuscisse a sentirla. La sua voce faceva fatica a farsi strada. Alice voleva controllare la situazione, si teneva la bambina stretta al petto e nel frattempo le dava dei rapidi baci sulle guance, ma Fabio voleva dirle qualcos’altro: “Lascia che prenda confidenza”. Si capiva che Fabio era cresciuto nell’acqua dal modo in cui portava la cuffia, mentre quella di Alice continuava a spostarsi cercandole di scappare via dalla testa, tirandole la pelle della fronte. Non riusciva a capire cosa fare per evitarlo, se non tirarsela giù ogni volta che poteva. Alice non voleva apparire stressata. Le mamme ansiose trasmettono la loro insicurezza ai bambini, lo sapeva, oppure li spronano troppo in fretta oltre i loro limiti. Alice non voleva essere una madre sufficientemente buona, Alice voleva essere una brava mamma. Così cercava di decifrare il pensiero del maestro e insieme a quello se stessa. Da quando aveva saputo di essere incinta non si riconosceva più. Non sapeva più chi era. Il suo corpo era cambiato, e insieme a lui anche i suoi desideri, le sue prospettive e il suo raggio d’azione. Alice si sentiva in prestito nella sua stessa pelle, la mente era spaesata, non si identificava più nella sua forma. Non voleva essere chiamata genericamente mamma, come dai medici dell’ospedale, ma al tempo stesso non era più se stessa, Alice.
“E tu?”, le aveva detto Fabio guardandola negli occhi.
Alice non aveva capito subito. “Tu chi sei?”, le aveva ripetuto.
L’acqua calda le aveva svuotato il petto e le sembrava che, per poter uscire, ogni parola dovesse percorrere una distanza più lunga del solito, dalla pancia fino alla bocca.
“Alice”.
Mentre cantavano giro giro tondo, prima di uscire dall’acqua, una bambina si era lanciata dal materassino galleggiante ed era sparita sott’acqua. Il maestro era troppo distante da lei e la madre non aveva fatto nulla. Alice aveva affondato il braccio libero nell’acqua e l’aveva afferrata e tirata su. Quanto può resistere un bambino sott’acqua? E se beve? La bambina era tornata in superficie. Il maestro aveva ringraziato Alice. L’altra mamma sorrideva tranquilla e indifferente. Ad Alice batteva forte il cuore. Il tempo della lezione era terminato.
“Com’è andata?”
La donna alla reception aveva fatto un gran sorriso ad Alice.
“Tutto benissimo”.
Alice era ancora scossa, Ada dormiva serena nel passeggino. L’altra mamma se ne era andata mentre Alice era ancora in mutande. Quando l’aveva salutata si era chiesta come avesse fatto ad essere così rapida.
“Tutto benissimo, solo che una bambina è andata sott’acqua”.
In quel momento aveva sentito una mano sulla spalla. Era il maestro Fabio. Senza cuffia non lo aveva quasi riconosciuto, fuori dall’acqua sembrava diverso.
“Posso parlarle un momento?”, sorrideva anche lui.
L’aveva portata in disparte, lasciando Ada alla receptionist. Aveva gli occhi scuri, occhi che invece di assorbire la luce la diffondevano. Alice non capiva cosa fosse, ma in quello sguardo c’era qualcosa che la conteneva.
“I bambini nei primi mesi di vita possono immergersi sott’acqua senza problemi”.
Alice continuava a guardarlo senza capire dove volesse arrivare. Ecco, era lo sguardo di qualcuno che si era salvato.
“Si chiama riflesso d’immersione. Sono stati nel liquido amniotico per nove mesi, per loro è normale”.
Il maestro le sorrise ancora e Alice si sentì sciocca, avrebbe voluto sprofondare.
“Non c’era nessun pericolo quindi”, aveva detto guardando oltre la sua spalla.
“È normale essere preoccupati, è un istinto, ma abbiamo molta più paura noi di loro”, e mentre lo diceva, Fabio aveva indicato Ada che dormiva serena nella carrozzina.
Ad Alice era sfuggito un sospiro, aveva preso aria come se tornasse velocemente in superficie. Lei correva, e mentre correva il suo corpo si era sempre portato con sé tutto ciò da cui fuggiva. Non si dava tregua. “Si corre per salvarsi la vita”, le sfuggì, anche se non c’entrava niente. Fabio era rimasto un istante in silenzio. “Devo prepararmi per la prossima lezione adesso”, aveva detto soltanto. “A presto”.
Alice era consapevole di aver detto qualcosa di troppo, di averlo detto troppo in fretta. Da tempo aveva imparato a cambiare codici e registri, a rispettare i filtri e le gerarchie dell’intimità, eppure era riaffiorato quel sentire senza contorni, che attraversava i confini dell’identità, della pelle, finendo con violenza al di là, nel petto, nel cuore, nei nervi. Aveva recuperato il passeggino ed era uscita. Fuori, l’ultimo cielo di settembre si allargava sulla città di pietra, al centro della zona più produttiva e inquinata del Paese, dove mancava l’ossigeno e gli alberi sembravano un miracolo, le poche nuvole bianche restavano impigliate alle antenne dei palazzi e il cloro, anche se bruciava gli occhi, ora aveva il sapore di una speranza. Fabio era tornato dentro e si era messo a sistemare gli attrezzi, i tubi colorati di polistirene espanso, i pesciolini di gommapiuma. Non aveva nessuna lezione. Iniziò a lanciare le palline nell’acqua con sempre più forza. Le palline erano vuote, non potevano andare a fondo, non importava quanto forte le riuscisse a scagliare. Galleggiavano in superficie: blu, verdi, gialle e rosse.
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