Ruderi
Frammento indeciso del giardino planetario, il Terzo paesaggio è costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo.
Gilles Clément.
Unendo i punti tra i borghi fantasma del versante est della Val di Cecina, la linea che traccio sulla mappa somiglia a una virgola gigante, o a una sottile falce di luna. Una volta in marcia, nel silenzio profondo e a tratti sconcertante degli interminabili e mutevoli boschi, capaci di passare dalla cerreta alle macchie di ginestra, dai carpini neri ai castagni, dalle cupe leccete alle praterie in campo aperto, risulta netto il passaggio da una diffusa densità abitativa – quella dei centri urbani, ma anche delle cittadine in aperta campagna, poco distanti tra loro e collegate da costellazioni di altri insediamenti più piccoli – a un luogo ancora in buona parte incontaminato.
Se la rotta umana è da sempre anche un percorso di crolli e riprese, macerie e ristrutturazioni, qui è possibile che il cedimento si mostri insieme alla rifioritura, e i residui di epoche estinte riposino accanto ai segnali di propulsione. Non dovesse bastare la pura contemplazione di una florida vitalità naturalistica, la regione potrebbe offrire dettagli avvincenti anche per i suoi cicli storici e le sue visioni economiche e sociali, mi dico mentre finalmente il castello di Falsini, dalla sua posizione di dominio eppure ostinatamente nascosto alla strada carrozzabile, appare come un miraggio. Il viale rettilineo orlato di enormi cipressi che porta al castello scende a valle per poi risalire, e percorrendo la rampa improvvisamente ripida, sovrastati dalle vecchie mura ormai a un passo, si ha la chiara sensazione che la rocca, almeno nei suoi anni di splendore, fosse praticamente inaccessibile. Ciò che resta è un cortile aperto mangiato da rovi e rampicanti, una chiesetta squadrata, alcuni terrazzamenti punteggiati di alberi carichi di frutti, e la poderosa fortificazione di un palazzo corazzato che nelle sue pietre bianche, nelle merlature, nell’altissima palma che lo accompagna come uno scudiero, ricorda certe ville decadute di Spalato o di Smirne.
Seguendo questioni che l’epidemia ha imposto all’ordine del giorno – quanto è stata colpita la zona che attraverso? Come si è difesa? – il silenzio aiuta a supporre che in queste terre le scomodità dei periodi ordinari si siano trasformate in punti di forza. Le distanze e la bassa densità hanno abbattuto i rischi di contagio. Equilibrio ambientale, frazioni spopolate, foreste a perdita d’occhio: l’esigua incidenza dell’uomo ha paradossalmente ribaltato la situazione a suo vantaggio. Difficile che si siano snaturate le abitudini, dove il distanziamento era già una precondizione. Quasi tutto è rimasto intatto.
Scrive Gianni Celati: “Siccome il vento ha portato da terre lontane un pericolo che nessuno può constatare, e si può solo leggerlo dal giornale, ognuno colma il mutismo delle informazioni con le fantasie che gli vengono in mente. La calamità è altrove.”
Considerata la prossimità alla strada statale, al bel borgo di Belforte e alla sede comunale di Radicondoli, visitare Montingegnoli produce un senso di incredulità: si tratta di un vero e proprio centro storico, abbandonato ma quasi integro, strutturato in vicoli, innervato di arcate e gallerie, aperto in una grande piazza a mezzaluna. Il prato è stato tagliato da poco, i due pozzi sono pieni d’acqua, sbirciando dalle finestre aperte appaiono cucine con tavolo e sedie disposti in ordine, bagni con sanitari neanche troppo antiquati, ovunque vecchi oggetti, scarpe, macchine da cucire, piccole botti, passeggini, attrezzi da lavoro, tutto buttato alla rinfusa come se il borgo – che un secolo fa contava almeno duecento abitanti – fosse stato evacuato di notte, in tutta fretta, in seguito a un allarme nucleare o all’annuncio di un terremoto che non ci sarebbe mai stato. Le sembianze del paese e forse qualcosa del suo spirito, anche se estinti, resistono ancora, quasi invisibili.
Meno di due ore di marcia, e raggiungo la villa-fattoria di Solaio: anche qui sembra che siano tutti scappati da pochissimo. Un passaggio nascosto porta al giardino della villa. Siepi geometriche di bosso, fontane vuote, lanterne con draghi gotici sul basamento, statue di figure femminili. La villa manteneva un’attività ricettiva fino a tre anni fa. Un’inserzione non troppo remota recita che “nel cuore della Toscana, in uno splendido paesaggio incontaminato, si trova Solaio, un antico borgo appartenente da generazioni alla famiglia attuale proprietaria. Gli edifici, risalenti al XVI secolo, sono composti da una importante villa nella quale vivono i titolari. Nella foresteria dell’Agriturismo si viene ospitati in confortevoli camere che conservano la sobria eleganza tipica della casa padronale della campagna toscana. La Villa è circondata da un bellissimo giardino all’italiana arricchito da piante di limone dove potrete organizzare un sontuoso banchetto di nozze. Passeggiando per il giardino troverete un insolito teatrino verde dove, a suon di musica, potrà esserci il taglio della torta e la confettata. La piscina che si affaccia su un panorama mozzafiato è ideale per un aperitivo di benvenuto. Abbiamo inoltre una sala ricevimenti con possibilità di mise en place per ottanta-novanta persone. I Signori Visconti saranno lieti di fornirvi indicazioni per far sì che il Vostro giorno più bello riesca alla perfezione.”
Non è dato sapere da quanto tempo i proprietari non abitino più nella Villa (le numerose vetrate in frantumi suggerirebbero molto tempo; o, in alternativa, un’invidiabile adattamento dei Signori Visconti al rigore degli elementi); né se gli sposi che vi hanno trascorso il loro “giorno più bello” siano rimasti soddisfatti della “confettata nel teatrino verde”; e neppure se le “mise en place” ospitassero esattamente tra le ottanta e le novanta persone (perché non settanta? Perché non cento?); e i partecipanti agli aperitivi di benvenuto avranno trovato il panorama al di là della piscina davvero “mozzafiato”? L’ultima, impietosa recensione in ordine di tempo sembrerebbe mettere un punto alla questione: “Appena fuori casa si è assaliti da insetti simili a mosche, che si attaccano addosso e ronzano intorno continuamente. Una vera e propria guerra. Arrivati in piscina, la delusione è forte: anche in acqua si combatte con gli insetti. La sera poi è stata una battaglia. Tutti gli animali dall’esterno entravano in casa. Ragni neri, due scorpioni, grossi grilli. Abbiamo dovuto mettere giornali per tappare gli spazi.”
Continuo a camminare osservando queste valli di una bellezza sicura ma in qualche modo debole e nascosta come le statue femminili di quella villa: una bellezza trascurata, evidente forse a troppo pochi per essere considerata indiscutibile. I pini e la stazza del palazzo padronale annunciano la collina di Anqua. Sotto il grande stemma della casata – l’aquila bicipite coronata, accompagnata da una coppia di spighe/pannocchie – l’epigrafe ricorda che i Conti Pannocchieschi d’Elci fondarono la grande villa nel 1572. Almeno qui, vivono ancora sei persone: un secolo fa, poco più di trecento. L’equilibrio tra il palazzo padronale e la vicina chiesa di San Rufo, il pozzo monumentale nel cortile della villa, i sottili mattoncini in cotto misti a pietra, il dominante colore rosso ricordano le architetture di Bernardo Rossellino e Baldassarre Peruzzi; o anche, secondo lo scrittore anglofiorentino Harold Acton, “un palazzo romano trasportato in un umile borgo”. Oltre il cancello della villa, sopra i bassi labirinti di bosso si staglia un gigantesco leccio plurisecolare: fu piantato in onore della casata, forse addirittura coetaneo della villa. Resta intatto a guardia della valle, unico testimone dell’antica grandezza e della successiva, lunga decadenza.
Proseguo alla ricerca del castello d’Elci, il vecchio borgo fortificato dove aveva avuto origine e prosperità la gloriosa casata nobiliare che per secoli avrebbe fatto di queste colline, foreste e borghi – al tempo, stipati di persone – il suo regno. Dove avevo già letto questa parola? Cammino su una larga strada bianca circondata da cerri di trenta metri. Non mi viene in mente nulla. Poi alla fine sì: Calvino. Per buona parte del Barone Rampante, Italo Calvino definisce elci certi alberi. Calvino stesso, attraverso una delle tante note, spiega il significato della parola, e parla di un cambio di scenario a partire dal capitolo X: “Si passerà dal giardino, dove regnava il linguaggio ricercato del padre di Cosimo, ai boschi, dove regna il linguaggio dei boscaioli e dei cacciatori”: e gli elci, voce altisonante, antica, letteraria, torneranno a chiamarsi più comunemente lecci.
Scorrendo lo sguardo lungo il sentiero si può fantasticare senza sforzo che Cosimo Piovasco di Rondò, ovvero il Barone Rampante, non avrebbe avuto problemi a trasferirsi nella distesa di alberi che si spalanca per decine di chilometri in ogni direzione: avrebbe potuto saltare facilmente dalle quercete di Travale agli abeti rossi delle Cornate, dalle sughere solitarie attorcigliate sopra Monterotondo ai castagneti secolari che circondano Sasso Pisano, scendere per i corbezzoli e le macchie mediterranee sul fiume Cornia e risalire verso nord sui pini neri, sugli ornielli più vecchi del Berignone, quelli dal tronco rosato a chiazze scure, e ancora tornare verso Monteguidi seguendo il corso del Cecina e del Pavone, aggrappandosi agli ontani e ai salici delle rive, fino a rientrare sulla strada delle Galleraie – la linea che segna il confine est della Val di Cecina, e la separa dalla Montagnola senese – ritrovando la silenziosa penombra delle leccete.
Quercus ilex: il dittatore del bosco collinare su suolo vulcanico e drenato, dominante ma presente anche nella macchia mista, a suo agio nell’arido eppure custode di una luce crepuscolare che non sarebbe dispiaciuta ai pittori preraffaelliti. Il grande albero verde cupo, poco meno di un millennio fa, dette nome e simbolo grafico sia alla casata nobiliare che al borgo di cui adesso intravedo in lontananza le prime mura.
Le rovine del castello d’Elci sono annunciate da una chiesetta screpolata e un minuscolo cimitero annesso. Al centro campeggia la tomba più recente: risale a vent’anni fa. Chi già non provasse alcun disagio nel visitare camposanti di campagna, e anzi si nutrisse della loro pace per guadagnarne in leggerezza d’animo e pensiero, troverebbe qui un ottimo rifugio; a maggior ragione osservando questa tomba per nulla lugubre, e anzi in qualche modo solare, come se il titolare – ricordato in effigie come “il Cavaliere di Elci” – il sorriso aperto della sua foto, i fiori colorati che la adornano, le allegre statuette di pietra ai lati, trasmettessero qualcosa di scherzoso e vagamente goliardico, quanto di più distante da un’idea severa e inconsolabile del commiato, e se mai vicino alla serena celebrazione di una vita goduta.
Il borgo di Elci non è più nulla: quattro ruderi. Solo il palazzo centrale ha resistito fino a pochi anni fa: sul tavolo al pianterreno, fra le macerie dei solai crollati e i resti di una vecchia cucina economica, campeggia una copia della Voce di Indro Montanelli.
Mi incammino verso le Carline accompagnato da una frase di Pavese: “Che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso.”
Raggiungo il Capanno dei Partigiani disperso in mezzo al bosco di cerri. Il distaccamento Guido Boscaglia era sorto dopo il rastrellamento nazifascista del Frassine e si era concentrato qui, nel cuore della selva delle Carline. Ne facevano parte prigionieri di guerra russi e jugoslavi fuggiti dai campi di concentramento dopo l’8 settembre 1943, alcuni renitenti alla leva, e anche chi, da Montieri a Volterra, si era ribellato ai fascisti, agli agrari e ai preti del suo paese, e aveva scelto la via della foresta. In breve tempo il gruppo si era ingrossato, fino a contare almeno cinquecento combattenti. Carlo Cassola era uno dei capisquadra. A Montingegnoli, nella primavera del 1944, la Brigata aveva occupato il silos della fornace espropriando circa 3.500 quintali di grano; ad Anqua, grazie a un camion requisito, si era organizzata per nascondere una parte del raccolto nelle coloniche e distribuirne quasi metà ai contadini della zona; sulle Carline aveva realizzato un’infermeria e un campo di lancio. L’opera della Brigata, fatta di raccordi capillari tra la popolazione, distribuzione di cibo, sabotaggi delle vie di comunicazione degli occupanti, sarebbe risultata decisiva per le sorti di questa parte della Toscana.
Smaltita l’ebbrezza della Liberazione, contate le vittime e ripulite le macerie, la ricostruzione avrebbe a poco a poco reso questi luoghi scomodi, distanti e improduttivi. Non si poteva mancare l’appuntamento con la storia: il futuro era scendere in pianura, nei centri più popolosi e confortevoli, lavorare più comodamente, godere dei privilegi del benessere, farsi sedurre dal progresso tecnico e dalle sirene del commercio. Alcuni paesi sarebbero stati abbandonati per sempre; altri, spopolati ma ancora vitali, si sarebbero trovati di fronte il continuo accrescimento dell’età media e il crollo demografico, e avrebbero ritrovato un equilibrio solo grazie all’afflusso di sangue nuovo: nuovi boscaioli, nuovi muratori, nuovi artigiani, genti venute soprattutto dai Balcani e dall’Europa dell’est, pronti a radicarsi nella loro nuova terra – magari non esattamente corrispondente al paese dei balocchi vagheggiato nelle televisioni dei paesi di nascita, ma facilmente vittoriosa in qualunque raffronto con le loro recenti realtà – e a vivere il proprio personale boom economico.
Resto seduto ancora un po’ davanti all’avamposto partigiano. Alcuni combattenti hanno voluto disperdere qui le proprie ceneri. Oltre a testimoniare il momento cruciale nella parabola collettiva di questa società nello scorso secolo, forse resta anche qualcosa di privato, il vertice di una parabola personale. Ciò che sul momento, ancora circondati dalla paura e dalla povertà, poteva sembrare solo un misero punto di partenza, da dimenticare in fretta una volta indossati abiti nuovi e puliti, col tempo avrebbe potuto riemergere in modo prepotente come l’istante essenziale, quello puro, in cui la semplice, basilare riconquista del diritto a vivere liberi sarebbe apparsa come una stella ben più luminosa delle possibilità e delle ramificazioni che la libertà avrebbe poi offerto. Forse qualcuno, correndo per i boschi con in tasca messaggi per i compagni alla macchia, all’erta come un cervo in fuga dai lupi, stremato dalla fame e dalla febbre, aveva percepito che la sua vita aveva un senso, e lo avrebbe avuto anche la sua eventuale morte; se nei decenni di pace a venire si fosse voltato indietro, avrebbe pensato che adattarsi a una ristretta rosa di scelte sostanziali – sopporta le notti nel gelo; corri veloce per i tuoi sentieri; proteggi chi ami; non farti ammazzare – gli era venuto naturale: e che, di fronte alle infinite opzioni della nuova scintillante era, si era scoperto disorientato.
Gocce d’ambra, anidride solforosa, assimilazione
“Il passato è solo uno dei tanti possibili futuri”, fa dire Karl Ove Knausgård a un personaggio nel secondo volume della sua monumentale opera autobiografica. “Non era ciò che era passato che bisognava evitare e a cui si dovevano voltare le spalle, ma la parte di esso che si era fossilizzata. Lo stesso valeva per il presente.”
Resta da capire quale passato non resta, e quale invece sopravvive: Erbonne, alla frontiera tra la Valle Intelvi e la Svizzera, fino agli anni Settanta era l’epicentro della lotta senza quartiere tra contrabbandieri e finanzieri, quando non c’erano altre occupazioni, fatta eccezione per un briciolo di bestie da pascolare, che il contrabbando e il suo contrario.
I contrabbandieri scivolavano nei boschi con le scarpe rivestite di iuta per azzerare i rumori. I finanzieri li aspettavano nascosti in sacchi di lana con l’aiuto dei loro pastori tedeschi. Se l’inseguito veniva beccato, mollava lo zaino con il carico e l’inseguitore lo lasciava andare. E in territorio neutro, per esempio nei bar di paese, dove gli incontri erano obbligati, la partita era sospesa.
Il toponimo Ingurtosu – Sardegna sudoccidentale – deriva da su gurtugiu, il gipeto, detto anche avvoltoio degli agnelli. Il grande rapace fino agli anni Sessanta dominava quei cieli: se ne andò insieme alle ultime velleità minerarie. Ingurtosu è rimasto fisicamente adiacente al miraggio del terziario che lo ha travolto, come in una staffetta concordata: nel 1871 – proprietario della miniera era il nobile inglese Thomas Allnut Brassey – fu costruita una piccola ferrovia per trasportare il materiale estratto dai pozzi e imbarcarlo in mare, nello splendore della spiaggia di Piscinas.
L’unica vita di Ingurtosu è oggi nella vista: negli occhi delle masse di vacanzieri che vedono i suoi relitti dal finestrino, mentre guidano impazienti verso la spiaggia dei sogni.
Gli scheletri di ferro arrugginito e cemento sbeccato di Ingurtosu mostrano l’esito scontato della lotta tra la precarietà dei materiali industriali e la temporalità inossidabile del quarzo, dell’ematite, delle sabbie scure. La chimica, gli elementi e il tempo riporteranno a sé quelle costruzioni umane: verranno erose dal sole e dal vento; la pioggia le sbriciolerà e le accompagnerà verso il mare; torneranno parte della spiaggia, diventeranno esse stesse dune.
Alcuni paesi sono tornati veramente alle acque: è il caso della leggendaria città di Kitež, che si narra sorgesse sulle sponde del lago Svetlojar, nelle foreste di Nižnij Novgorod, a nord del Volga. Secondo i racconti, un traditore rivelò ai Tatari un sentiero segreto per raggiungerla, e quando gli invasori arrivarono per conquistarla, la città s’inabissò nel lago e scomparve lentamente di fronte ai loro occhi increduli. L’ultima cosa che brillò sull’acqua prima di affondare insieme a tutto il resto fu la cupola dorata della chiesa. Per dieci giorni e dieci notti i Tatari cercarono di ritrovarla, ma invano. Si narra che Kitež viva ancora, sott’acqua, con tutti i suoi abitanti. E sembra possa capitare ai viandanti fortunati di intravedere i suoi contorni bianchi e oro sotto la superficie del lago, e di sentire l’eco delle sue campane; o di Llandwyn in Galles, inabissato nel 1888 nelle acque del lago artificiale di Vyrnwy con la sua quarantina di case e cascine, i suoi cedri secolari, la chiesa di San Giovanni d’Acri, le tre birrerie. Prima della sua scomparsa, Llandwyn era conosciuto perché nelle notti d’estate, quando c’era la luna piena, nella piazza del paese venivano organizzate partite di calcio lunghe tutta la notte a cui partecipavano un centinaio di ragazzi e uomini di ogni età.
Parente più di Llandwyn che di Kitež è il nostro Fabbriche di Careggine, il borgo garfagnino fondato dai fabbri ferrai provenienti da Brescia e oggi sommerso dal Lago di Vagli, un invaso di raccolta acque per sfruttamento elettrico.
In Val di Cecina abbondano borghi fantasma e rovine di un altro tempo; ma non ci sono paesi sepolti nelle acque dei laghi, come la Kitež delle leggende eurasiatiche, né la più vicina, e reale, Fabbriche di Careggine; non ci sono località di frontiera mantenute in vita dalla loro stessa sostanza di passaggio obbligato, come Erbonne, né ex avamposti del petrolio, come Fornovo, sull’appennino parmense, o dell’argento, come Monte Narba, in Sardegna; e la vitalità del territorio non può contare stabilmente sul balsamo del turismo, a differenza di altri luoghi citati: il tracciato della via Francigena porta a Fornovo un flusso costante di viaggiatori; ogni frazione morta in Sardegna è stata riscattata dalla bellezza dell’isola e del suo mare; e Fabbriche di Careggine, sia pure a cadenza decennale, richiama folle affascinate dal mito di Atlantide.
Qui le possibilità del futuro si nascondevano sottoterra, sbuffando dal suolo in attesa di François de Larderel, il primo a capire che l’acido borico – considerato all’epoca un prezioso composto dalle proprietà antisettiche e sedative – si poteva ottenere sfruttando il vapore che usciva dal terreno, anziché bruciando ettari di legname, e Piero Ginori Conti, il primo a trasformare l’energia termica in energia elettrica. Se si pensa che la ricchezza segreta era lì da sempre, le scoperte di Larderel (1827 circa) e Ginori Conti (1904) sono avvenute praticamente ieri.
Negli anni Cinquanta e Sessanta erano impensabili una coscienza ambientalista o un’attenzione ai dettagli estetici che protestassero per le eventuali deturpazioni al paesaggio portate dai giganteschi soffioni boraciferi, dai reticolati delle tubazioni, dalle centrali e dagli impianti geotermici; l’industria non c’era mai stata. Con il declino della mezzadria, si indebolì anche l’agricoltura.
Lo sfruttamento dei vapori caldi del suolo fu la possibilità di riscatto e crescita per un territorio che, se mai aveva avuto un’età dell’oro, la custodiva a fatica in qualche cella della memoria.
Con gli anni, l’attenzione verso i dettagli e l’armonia dei paesaggi sarebbe cresciuta, e la stessa particolare sensibilità estetica delle colonie di turisti in estasi per l’ordine millimetrico dei vigneti del Chianti o per la grazia patinata dei cipressi della Val d’Orcia, li avrebbe tenuti lontani dalla più aspra Val di Cecina; in parte perché, come la natura ha nascosto sottoterra la sua ricchezza, così l’uomo ha munito la superficie di queste terre di un velo respingente, quasi volesse preservare i tesori del paesaggio con trovate autolesioniste. Le grigie clessidre giganti dei soffioni, i reticoli interminabili di tubi argentati, gli ex distretti industriali percorsi senza sosta dai furgoncini di Enel Green Power, sono una specie di sgraziato velo protettivo: è sufficiente scostarlo, e si trovano meraviglie naturali, panorami selvaggi, ricchezze appartate fuori rotta.
Contando Villa Viliani a Roma, il grattacielo di piazza Matteotti a Livorno, la Borsa merci a Pistoia, il Kursaal Aurum di Pescara, la Chiesa dell’Autostrada del Sole e la stazione di Santa Maria Novella a Firenze, risulta arduo porre la progettazione del distretto urbanistico di Larderello ai primi posti nell’opera di Giovanni Michelucci; l’architetto affrontò tuttavia il compito con grande coinvolgimento, al punto da rendere pubbliche le difficoltà personali di fronte al carico di responsabilità umane di cui si sentiva investito nel creare questo villaggio di pionieri industriali, e l’intensità di un lavoro che lo aveva portato a ridefinire le proprie idee fino a sentirsi “uno della comunità”.
Larderello, pur abitato tuttora da diverse centinaia di persone, sembra ancora un’entità irrisolta, senza centro, uno spazio di sottrazione: né un’industria, né un paese. La chiesa di Michelucci appare tra tornanti dove lo sguardo ruota cercando di trovare un legame tra le torri di refrigerazione, la scuola, le scale, gli alberi rimasti in piedi. Si va via incerti se una buona sintesi sia la scritta sul bandone di un albergo chiuso su una curva in ombra della provinciale (IO NON HO COLPE, recita la scritta: nessuno ha colpe se la fusione tra industria e vita è fallita), o se il villaggio operaio – protetto dal verde, intessuto di strade pedonali, quasi vicino a una dimensione di intimità – non sia invece testimone di un’utopia zoppicante ma concretizzata. E se pure a Larderello (o a Lago Boracifero, o nel villaggio abbandonato di Lagoni Rossi) è sbiadito il sogno di un unico luogo capace di riunire lavoro, tempo libero e vita sociale, la materia prima è rimasta quanto mai preziosa e utilizzata.
Già abituati agli odori delle esalazioni sulfuree, è sufficiente incamminarsi verso i Lagoni del Sasso per vedere le putizze e le fumarole che sgorgano dalla terra. Qui, tra Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, i fluidi surriscaldati non sono confinati da alcuna copertura impermeabile, possono raggiungere liberamente la superficie, dando vita a spettacoli naturali e profonde trasformazioni delle rocce. Le colline hanno come colori dominanti il rosso (diaspri che per il momento resistono ai gas e all’acidità) e il bianco (diaspri mutati in seguito all’azione dei gas; da qui, il termine biancane); a volte le zone brulle confinano con terreni a temperatura normalizzata ma comunque acidi – dove quindi possono finalmente crescere querci, felci e castagni – creando uno spettacolo cromatico unico.
I sentieri si inerpicano tra i ghiaioni bianchi e le brecce rosse, lungo la terra spoglia e gli sbuffi di fumo che ebbero buon gioco nel suggerire la definizione di Valle del Diavolo. Il percorso fa parte del tracciato etrusco Piombino-Volterra. I vialetti, gli scalini in terra battuta, i paletti cilindrici – nuovi come può esserlo solo il legno quando è nuovo –, le funi bianche come corrimano sui ponticelli, tutto è recente, eppure già rovinato dall’azione degli elementi e dall’incuria.
Anche se in parte utilizzata per la produzione di energia geotermica, quest’area conserva ampie zone di vegetazione pioniera dalle caratteristiche speciali. Se da un lato queste comunità vegetali sono floristicamente povere, dall’altro presentano risposte adattative e dinamiche evolutive particolari. Nei siti in cui la temperatura del suolo è di poco oltre la norma, e l’acidità non ancora proibitiva, si sviluppano alcune graminacee, la lanutella comune, alcuni muschi e licheni – le due specie, è noto, non possono non accompagnarsi –, a volte il cisto e l’elicriso.
Salendo, dove le emissioni sono deboli ma il suolo è molto acido, si sviluppano solo il brugo e i cappellini di Castiglia. Si arriva poi ai ghiaioni e alle brecce, che non consentono vita vegetale.
Scrive Giovanni Targioni Tozzetti, naturalista e medico, tra i primi membri dell’Accademia dei Georgofili: “Cominciano i Lagoni dal basso, quasi rasente al Possera, e si dilatano verso la cima, occupando gran spazio della pendice del Monte (…) i terreni dove sono i Lagoni e le Mofete sono interamente nudi, e non vi allignano piante a qualche distanza; e l’unica specie di pianta che osa accostarsi più a quei terreni caldi e sulfurei, è Erica vulgaris glabra”
Eccole, le eriche: alcune hanno raggiunto grandi dimensioni, forse per l’orgoglio di essere la sola pianta arbustiva capace di prosperare. Orgoglio che nella quercia da sughero – unico albero in grado di crescere su questo suolo incandescente – si accompagna a una sofferenza penitenziale: gli esemplari si stagliano in solitudine sulla sommità delle colline, sviluppati per decenni nella nebbia delle fumarole; il calore, il fumo, il tempo hanno contorto i loro tronchi in ogni modo, le cortecce rugose e leggere sono il solo elemento che sembra indifferente a ogni difficoltà ambientale.
La temperatura del suolo, in profondità, è molto alta e non permette lo sviluppo di radici. In più, l’acidità del substrato e la presenza di suoli molto poveri di sostanze nutritive precludono la crescita alla maggior parte delle specie. Le piante si sono adattate o riducendo l’apparato radicale fin poco sotto la superficie del terreno, o riducendo il ciclo biologico, che in alcune specie erbacee si completa durante i mesi più freddi dell’anno.
Non puoi sempre rifugiarti nella foresta
Né sulla spiaggia del mare
L’ombra si scioglie, ti fa disperare (…)
Gli elaboratori hanno per sorte
Di aiutare l’uomo a vincere la morte
Infatti se il vento dell’inquinamento
Tende a salire, l’aiutano a morire
E aiutano anche l’amministrazione
Patrimonio forestale in distruzione.
L’anidride solforosa qui è sempre stata sotto la terra. Parte delle foreste sono imbrigliate dagli intrecci argentati dei vapordotti. Quando uscì il disco Anidride Solforosa, nel 1975, l’utopia geotermica era come l’universo (e, per alcuni, il socialismo): in espansione. Mentre Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi raggiungevano forse l’apice del loro bizzarro e fortunato sodalizio, i nuovi villaggi industriali della Val di Cecina, attivi da vent’anni e unici nel loro genere, producevano già energia alternativa nell’Italia della prima, grande crisi petrolifera. Fosse per l’autonomia energetica, o per un’alternativa ai giacimenti fossili, o addirittura per un futuro postcatastrofe climatica – al tempo inconcepibile, ma non per questo implausibile –, qui si stava lavorando.
Siamo a tutti gli effetti in terra etrusca, e come sempre quando penso agli Etruschi, non riesco a fare a meno di immaginare un vascello carico di pietre preziose e metalli splendenti mentre si inabissa lentamente in un mare troppo profondo, inesplorabile. Ma c’è anche un’altra immagine, e riguarda una statua che si può trovare nella prima sala del Museo Archeologico di Firenze.
L’Arringatore, o Arringatore Metello, è una statua di bronzo a fusione cava di 179 cm. Era composta di sette parti distinte, poi saldate assieme. Fu trovata per caso da un contadino a Pila, non lontano da Perugia, in quello che allora era Stato Pontificio. Fu trasportata in gran segreto e avventurosamente a Firenze. Giunse al cospetto di Cosimo I nel 1566. Erano passati tredici anni dal rinvenimento della Chimera di Arezzo. Per quella fantastica scultura in bronzo, che rappresentava il mitologico mostro ibrido dal corpo di leone, capra e serpente, Cosimo nutriva una venerazione. Le tre fiere domate erano ai suoi occhi il simbolo più luminoso del dominio mediceo. Si diceva che avesse ripulito personalmente dal fango la statua appena arrivata a Palazzo Vecchio, e che di notte sostasse da solo nella sala Leone X ad ammirarla.
Il legame tra arte e potere aveva già a quel tempo una corposa storia, e l’Arringatore era destinato a scriverne un nuovo capitolo. Quando arrivò a Firenze, Cosimo e la famiglia Medici avevano trasferito la residenza a Palazzo Pitti, e la statua fu posta nella camera personale del Granduca fino al 1588, quando entrò nella Galleria delle Statue del primo nucleo degli Uffizi.
L’Arringatore raffigura un uomo di età matura dall’espressione severa e carismatica. Ha il braccio destro sollevato in alto: sta chiamando il silenzio prima di cominciare un’orazione. La fascia, l’anello e i calzari senatori ne attestano l’appartenenza alla magistratura romana. È un etrusco vestito alla romana. È l’emblema dell’assimilazione degli Etruschi, della loro “romanizzazione”.
Al culmine del loro splendore, gli Etruschi influenzavano i Romani in ogni campo: e ora i Romani dilagavano tra gli Etruschi, li assorbivano, li fagocitavano; e si sarebbero presi il futuro.
Ritrovo variegate immagini di assimilazione anche in questa terra: la società agricolopastorale governata dalle casate nobiliari lungo e oltre il Basso Medioevo, assimilata da quella mezzadrile; la società mezzadrile, assimilata dal richiamo della pianura, delle strade lisce, della serenità impiegatizia; la società agricola superstite, assimilata e isolata – anche se apparentemente inclusa – dalla rivoluzione digitale, come se lo sviluppo tecnologico delle comunicazioni avesse giocato con il territorio, ammodernandolo ma senza smettere di marginalizzarlo. Oppure, in una prospettiva più rosea: la sparizione di un mondo – quello agricolo – forse esautorato ma fatto anche risorgere dalla stessa visione geotermica; le migliaia di ettari di bellezza nascosta che coesistono con il teleriscaldamento; il carbone e il gasolio soppiantati dall’energia rinnovabile a scarse emissioni e basso costo; la serricoltura che produce ossigeno a nessun prezzo; il primo birrificio geotermico al mondo e il riuso creativo di oggetti e materiali da parte di un maestoso rigattiere (entrambi a Castelnuovo Val di Cecina), circondati da un castagneto di cui non si vede la fine.
Foresta
Quella che scelgo per esplorare la foresta di Berignone è una bellissima giornata di inizio maggio, la seconda di libera uscita da quando è finito il (primo) lockdown. Il prezzo della benzina è spaventosamente calato. Non so se devo aspettarmi orde di escursionisti affamati di spazi aperti e aria buona, lanciati in mezzo ai boschi come pantere scappate dal circo, ma le due macchine che incrocio nei quindici chilometri di curve tra Monteguidi e San Dalmazio mi rispondono da sole.
Cammino nel grande spazio verde della riserva naturale, deposito lacustre miocenico di conglomerati, marne e argille, rivestito di boschi a latifoglie decidue, sclerofille sempreverdi e forteto, cioè compresenza di cerri, lecci, corbezzoli, ornielli, eriche.
“Berignone è un massiccio boscoso che da Volterra ha l’aspetto di un fortilizio (…) Le due cime sono congiunte da una lunga linea di cresta; e da vicino i lecci più alti spiccano sugli altri (…) Noi che da partigiani abbiamo percorso in lungo e in largo Berignone, ci saremmo dovuti dire che il nostro primo dovere era conservare ogni ciottolo, ogni filo d’erba, ogni costone di bosco vicino, ogni paese lontano.
Invece avevamo tutti in mente qualche progetto di riforma della società… Quando avremmo dovuto dirci che prima della libertà o della giustizia viene la vita. Noi eravamo lì come amanti della vita, per contrastare il partito della morte.”
Queste parole di Carlo Cassola, tratte da Ferrovia Locale, riportano al cuore del contesto geografico e umano della sua opera. Le boscaglie sterminate e le macchie impenetrabili di Berignone sono il teatro del Taglio del bosco, il racconto lungo scritto nel 1949 e uscito un anno dopo, ma ambientato nel 1939, a “guerra di Spagna ormai vinta”.
Il boscaiolo e il carbonaio erano state per secoli le uniche occupazioni possibili in queste terre e Cassola, scrivendo nel breve tempo sospeso tra le macerie della guerra e l’alba del boom economico, ne lasciò una testimonianza simile a un epitaffio.
Erano mestieri durissimi. I piccoli gruppi di uomini lasciavano casa e famiglia, carichi dello stretto necessario. Costruivano nella foresta la capanna dove avrebbero vissuto per mesi a stretto contatto, senza elettricità né acqua corrente che non fosse quella dei torrenti, dormendo in letti di sterpi. I boscaioli avrebbero trascorso ogni singolo giorno d’inverno abbattendo alberi a mano. I carbonai, difficilmente autoctoni e spesso originari dell’appennino pistoiese o della Garfagnana, avrebbero cercato la “qualità forte”, cioè il legno che dava il carbone migliore, quello di leccio, cerro, corbezzolo, e lo avrebbero cotto a fuoco morto per tre giorni nel forno ricavato sotto la catasta, sempre controllando la brace, anche la notte, e respirando fumo e polveri.
Entrambi avrebbero estratto dal bosco l’energia necessaria alle case, alle ferriere, alle caldaie di evaporazione delle Saline volterrane, sempre circondati dal silenzio, con il massimo diversivo del tabacco, di un mazzo di carte o un racconto orale.
Alla fine del lavoro avrebbero trasportato a spalla legna e carbone, fino alla prima strada utile dove salirli su un carro trainato dai muli.
Non so quanto sia cambiata la foresta da allora; certamente meno di qualsiasi altro elemento della realtà; e allora non è difficile immaginare Guglielmo, il protagonista del Taglio del bosco, che si aggira tra i sentieri e le leccete, che osserva i valloni dal crinale, che pensa in silenzio alla moglie da poco morta e al figlio lontano, che siede davanti al debole fuoco della capanna, o su un ceppo tagliato, tra le storie di Francesco, il mutismo di Fiore, la distrazione dell’adolescente Germano.
Cammino in totale silenzio finché non tocco un sasso con lo scarpone e sento qualcosa muoversi nel folto della macchia. Esce sul sentiero un branco di cinghialetti minuscoli, tutti a strisce. La madre non si vede ma sta guardando sia loro che me. Se per caso mi trovassi in mezzo tra lei e i cuccioli, a dispetto della mia totale involontarietà si creerebbe una delle rarissime situazioni di pericolo possibili in una foresta toscana, forse l’unica. Anche il lupo, che nel Berignone ha una comunità stanziale, si tiene ben lontano dall’uomo, e il piccolo lusso di provare paura, in una selva che in Brasile, in Canada o anche in Slovenia, presenterebbe a parità di estensione ben altri rischi, può somigliare a una sprovincializzazione e un perfezionamento; bisogna però nascondersi da qualche parte. In questo punto la macchia non offre alberi su cui arrampicarsi: mi metto dietro a una rete di recinzione. La madre dei cinghialetti esce allo scoperto e parte alla carica con l’unica intenzione di fuggire il più lontano possibile. Dimostra di ignorare la gran parte delle elaborate tattiche di fuga di molte creature animali, se è vero che la sua scelta consiste nel trasformarsi in un meteorite e fracassare ogni cosa. E infatti corre all’impazzata – producendo un rumore che fa tremare i polsi – ma non si accorge che c’è la rete. Ci sbatte di muso. Quasi la sfonda e la porta via con tutti i paletti, ma non la sfonda. Si ferma per un momento, un lunghissimo momento in cui sembra riflettere. Quando riparte, trotterella lungo la rete, anziché cercare di distruggerla, e riesce finalmente ad allontanarsi, seguita dai cuccioli.
Raggiungo il Castello dei Vescovi, un rudere abbandonato da cinquecento anni. Nel Basso Medioevo il Castello batteva moneta per la città di Volterra, ed era conteso da vescovi e Comune in virtù della sua posizione di forza che domina la valle del Sellate: proprio il torrente vicino al quale si accampano e lavorano Guglielmo e gli altri personaggi del Taglio del bosco. È tempo allora di scendere, trovare la confluenza del Sellate nel Cecina – il Cecina arriva da est, è poco più di un ruscello, ma da quel momento raddoppia, diventa un fiume vero – e osservare una volta ancora il fenomeno magico ed elementare di due fiumi che diventano uno.
Riprendo la marcia. Dopo qualche chilometro trovo una fonte con due piccole vasche in ombra, piene di muschio: il posto ideale per i tritoni crestati, che infatti galleggiano a decine in quella posizione clamorosa che sembra il fermo immagine di un volo.
Esco dal bosco e penso a quando ne uscì anche Guglielmo, lui al termine di mesi di lavoro massacrante e atteso da un futuro ignoto, tornando al mondo mentre sulla testa dell’Europa si addensavano nubi scure. La foresta proteggeva allora dal macello della guerra, protegge oggi dal contagio. Si mantiene aliena dalle vicende e dai sommovimenti della realtà civilizzata che la circonda. Resta un luogo duro, inospitale: buono per disertare, forse anche per salvarsi.
“Il fattore parlava, parlava; questa volta di politica; diceva che la guerra in Spagna era ormai vinta, e che poi l’Italia avrebbe mandato un ultimatum a Londra e Parigi, e Londra e Parigi avrebbero piegato il capo. Così l’Italia sarebbe diventata signora del mondo. Guglielmo prestava appena orecchio alle sue parole. Sentiva nascere dentro di sé un sentimento strano, di apprensione, di inquietudine. Aveva paura di tornare a casa: era questo?”