Vi racconto una cosa. Siamo nella periferia londinese, a cavallo tra la fine di una guerra e la ricostruzione di una qualche stabilità civile. Ci sono un vecchio soprannominato Miseria dagli abitanti del quartiere e una banda di ragazzini, piccoli ma già permeati da un lucido nichilismo (come lo è la maggior parte dei bambini dai 9 ai 16 anni, dopo entrano in gioco altre dinamiche e semplicemente, smettono di essere bambini). Ovunque, proviamo a immaginarcelo, troviamo voragini prodotte da esplosioni e segni della recente devastazione, a creare continui cortocircuiti nel quadro urbano di una città che torna progressivamente alla vita.
Uno fra questi piccoli uomini, che fa Trevor di nome, ma preferisce di gran lunga essere chiamato con il diminutivo T., per farsi una posizione all’interno della banda del parcheggio, mette in atto un piano studiato nei minimi dettagli: distruggere completamente, all’interno e all’esterno, fino alle fondamenta, la casa del vecchio. E questo proposito diventa un’ossessione, qualcosa da portare a termine a ogni costo.
La domanda sospesa nell’aria per tutto il racconto, lo stesso dubbio che sembra esprimergli poco prima dell’atto finale anche il compagno Blackie, è perché?
Per odio?
Assolutamente no.
Il protagonista ci tiene a specificarlo.
Fosse stato per odio, non sarebbe stato così divertente.
Avrebbero avuto i titoli di tutti i giornali. Anche le bande di ragazzi grandi, che scommettevano sulle gare di pugilato, anche i venditori ambulanti avrebbero ascoltato con deferenza di come la casa del vecchio Miseria era stata distrutta. Guidato dal puro, semplice e altruistico pensiero di gloria per la gang, Blackie si diresse lì dove T. stava all’ombra del muro di Miseria. Intanto, T. stava dando i suoi ordini con decisione: era come se quel piano fosse stato dentro di lui per tutta la vita, soppesato attraverso le stagioni, e infine cristallizzato nei suoi quindici anni con il tormento dell’adolescenza.
Graham Greene, I distruttori
Il racconto in questione, è uno dei più controversi dello scrittore inglese Graham Greene, e il titolo (I distruttori) non lascia dubbi, l’atto di distruzione che viene descritto è totale e apparentemente fine a se stesso: qualcosa che ci lascia interdetti, affascinati e al contempo preda di piccoli strani sensi di colpa.
Nel 1961, Arman (al secolo Armand Pierre Fernandez), uno dei pionieri del Nouveau Réalisme, fa letteralmente a pezzi in modo certosino e meticoloso un intero pianoforte, per poi ricollocarne ogni singola componente su un grande pannello di legno da appendere alla parete come fosse un quadro.
Se da principio questa operazione ci restituisce un senso di violenza, dichiarato anche dal titolo dell’opera (Chopin’s Waterloo), e da quello dato dall’autore alle altre sue realizzazioni caratterizzate dallo stesso impeto barbaro (Collere e Colpi), presto ci rendiamo conto che il furore non è altro che un capitolo, all’interno di un percorso mentale più ampio e ragionato che, in linea con le ricerche degli esponenti del “nuovo realismo” (César, Klein, Spoerri, Tinguely, Christo), porta al centro della questione l’esperienza artistica nel senso fisico del termine, l’atto del fare arte, il gesto (pensieri che saranno determinanti per la nascita dell’arte performativa e dell’happening), come parte integrante di quella che chiameremo opera, e da lei indivisibile.
Alla composizione viene sostituita l’esperienza: l’opera si apparenta a una manifestazione, al risultato di un processo di metamorfosi del reale di cui l’opera è un effetto, una tappa. Intorno a ogni artista viene in questo modo a crearsi una forma di mitologia, basata su un gesto fondatore.
Catherine Grenier, Nuovi Realismi e Pop Art(s)
Arman con la centralità del gesto, la scomposizione come scelta di conoscenza e infine una riappropriazione dei principi cardine del ready-made, ricapitolati egregiamente nel suo pianoforte devastato, può darci un’importante lezione su quello che è il processo creativo e su quelle che sono state, nella storia degli ultimi sessant’anni, le sfide critiche, i rischi presi, le scelte eroiche volte ad aggiungere qualcosa e non a ricalcare passi altrui, su una strada comoda, lastricata di imitatori e incapaci.
Conscio che in altri ambiti musicali queste tematiche rappresentino la conditio sine qua non per portare avanti un discorso seriamente e onestamente artistico, vorrei applicare i tre gesti fondamentali che Chopin’s Waterloo porta nel suo DNA come atto costitutivo (distruzione, destrutturazione, ricontestualizzazione), al rock e più in generale a certa musica popolare.
Distruzione
18 giugno 1967, Monterey International Pop Festival. Dopo aver flirtato con la sua Stratocaster per tutta la durata della leggendaria performance, Jimi Hendrix, sulle battute finali del brano di chiusura Wild Thing, la adagia sulle assi del palco e la carezza lascivo, rapito. Scosso dalle convulsioni degli ultimi assalti di batteria, sembra stimolarla, masturbarla e poi, con le mani che diventano pugni e poi di nuovo mani, pare implorarla di continuare da sola, mentre si abbandona ai singhiozzi di un impeto sessuale che sta per esaurirsi. Ma non è ancora finita. Si alza, cerca qualcosa dietro, vicino alle “quinte”, e tornando dal suo inseparabile strumento allarga le braccia e mostra le mani come a chiederle scusa. Inizialmente non capiamo cosa stia esattamente facendo. I suoi gesti non abbandonano la musica neanche per un secondo. Poi si china, le da un bacio, fa brillare un cerino e in un attimo l’intero corpo della chitarra è coperto di fiamme.
Ciò che fino a quel momento sembrava un atto profano, si trasforma in un rito sacrificale, dal sapore sciamanico: il fuoco chiama altro fuoco e lui lo alimenta ulteriormente. Poi la prende, mentre brucia, e la schianta contro il palco e gli amplificatori fino a spezzarla, dinnanzi agli sguardi incerti di un pubblico impreparato. Poi esce di scena, mentre i resti ancora amplificati del suo strumento, gridano in feedback.
Annichilire e annichilirsi diventano presto contrassegno di credibilità e affidabilità nella musica rock. Gli esempi di ieri e di oggi si sprecano, dai tagli auto-inflitti di Iggy Pop durante un concerto a Boston nel 1968 per attirare l’attenzione di un pubblico tiepido, alla distruzione completa della strumentazione su Endless Nameless, che chiudeva gli show dei Nirvana, fino alle disgustose e violente performance di GG Allin, che sfociavano in baccanali di feci e sanguinose risse col pubblico.
Certo molti di questi atteggiamenti sono parte dello spettacolo, recitazione, farsa, o sono figli di strategie prettamente commerciali volte a creare il caso e a costruire il personaggio.
Ma quello che mi preme sottolineare, del gesto immortale di Hendrix, è la capacità di guardare oltre la mera (seppur splendida) esecuzione da musicista, di spingersi un gradino più in alto e arricchire il contenuto con un’espressione (ed espansione) fisica, visiva e fortemente simbolica, scegliendo la demolizione dell’icona (la Strato) come punto di svolta. Inebriato da quei riverberi straziati e dalle reazioni del pubblico, che il massacro ha inaspettatamente generato, pone la prima cruciale pietra per edificare il suo nuovo ambiente sonoro. Questa seconda vita dell’oggetto, parte proprio da un atto di profanazione, perché la sacralità va a braccetto con dogmi, teche e restrizioni.
Destrutturazione
Era quasi ora di pranzo quando Blackie terminava il suo lavoro e andava a cercare T. Il caos era avanzato. La cucina era ora un macello di vetri e porcellane infrante. Il parquet della sala da pranzo era stato completamente rimosso, tolte le rifiniture; la porta era stata scardinata e i distruttori si erano spostati al piano superiore. Filamenti di luce penetravano attraverso gli scuri serrati, lì dove il loro lavoro assumeva la serietà di una creazione e in fondo, la distruzione altro non è che una forma di creazione. Un certo grado di immaginazione era stato necessario per vedere la casa così come adesso era diventata.
Graham Greene, I distruttori
Per vedere la casa del vecchio Miseria così come la vedevano i ragazzi, per vedere le viscere del pianoforte come adesso, grazie ad Arman, possiamo vederle anche noi, c’è voluto un atto di smembramento cinico e definitivo di certi cardini, fisici ma anche mentali, che stavano alla base di quello che per noi era l’oggetto casa, l’oggetto pianoforte. Lo stesso vale per categorie più astratte come la musica, certa musica, con le sue regole e i suoi confini, per lunghi periodi ben definiti: come il rock, il blues, il pop e tutte le declinazioni possibili di questi generi.
Come faccio a capire come funziona un orologio?
Lo devo smontare.
Vale per tutte le cose.
La scomposizione è il primo strumento che utilizziamo davanti a qualcosa che vogliamo capire: una frase, un piatto, uno strumento meccanico.
Le singole parti, improvvisamente visibili, tangibili, liberate dal mistero che le teneva insieme, assumono un significato autonomo, acquistano un valore e mostrano possibilità non più circoscritte nel compito pedante che le legava all’oggetto. Guardiamo i singoli pezzi del puzzle che prima chiamavamo pianoforte: a favore dell’unità non avremmo mai preso in considerazione l’inquietante intermittenza di una fila di tasti interrotti dal baratro di uno mancante, o il groviglio sublime di corde metalliche che somigliano a capelli strappati con rabbia, o ancora la commovente attenzione a certe decorazioni di manici e reggi-candele.
Tutto questo mi fa pensare a un disco composto e suonato con le stesse logiche.
Trout Mask Replica (1969), figlio di un Captain Beefheart (& The Magic Band) ostinato, intransigente e restio a qualsiasi compromesso: da un lato può dirsi quasi un saggio ragionato sui principi delle avanguardie in forma di disco, dall’altro esperienza viscerale e trionfo del gesto intuitivo. Attraverso la decostruzione, veniamo introdotti in un ambiente nuovo, disturbante per certi versi, dove l’esperienza musicale è soggetta a leggi differenti da quelle che comunemente diamo per scontate approcciandoci a un lavoro discografico: tessendo trame e fraseggi spesso tronchi o lacerati da improvvisi ripensamenti, le due chitarre dialogano allo stesso tavolo ma con lingue diverse, l’una sconosciuta all’altra, come se ognuna naufragasse nel proprio monologo interiore; la batteria e il basso, costruiscono trame complementari (certo nel free jazz questo non è sorprendente, ma qui siamo in un ambito, nato per dare rassicuranti e solide certezze), invocano il loro diritto di scrivere dialoghi invece di servire da tappeto; la voce (e così i testi permeati da una vena dadaista) poi, registrata senza il timone di una cuffia, basandosi su entrate intuitive e approssimazioni, rende l’ambiente ancora più pericolante e malsicuro.
Ricontestualizzazione
Riconducendo gli strumenti musicali e quelli con cui si “produce arte”, alla loro categoria generale di oggetti, facciamo un’azione importantissima, li priviamo della loro aura e della loro specificità. Tornati a essere solo delle cose, possiamo finalmente investirli di nuovi significati, nuove forme di utilizzo capaci di tessere un discorso alternativo. Arman quei pezzi, quel caos di detriti, quei rimasugli feriti e sparsi un po’ ovunque, li ammucchia e poi ne fa una composizione, seguendo in parte un disegno limpido nella sua testa, in parte il principio della casualità, trasformandoli in qualcos’altro, digerendoli e rigettandoli con un nuovo aspetto che ce li fa sembrare tubetti di colore e pennellate, ma con una tridimensionalità invitante, una spazialità prepotente, che esce dai confini del riquadro su cui sono fissati.
Se Jimi Hendrix ha bruciato e frantumato la sua chitarra, cosa resta da suonare a un gruppo capitanato da Blixa Bargeld negli anni ’80? Seghe circolari, tubi idraulici, carrelli del supermercato, marchingegni homemade per creare suoni artificiali e interferenze. Niente di nuovo se si pensa alla poesia asettica e leggermente ectoplasmica del Theremin di Lev Sergeevič Termen; o all’intonarumori e al rumorharmonium di Luigi Russolo e alle celebrazioni del disturbo (macchine, folle, sottopassaggi, rumori atmosferici) di Francesco Pratella nelle sperimentazioni musicali del Futurismo, o ancora alle ricerche visionarie di Karlheinz Stockhausen.
Quello che conta nell’approccio degli Einstürzende Neubauten (“nuovi edifici che crollano”, fra l’altro) è la ricontestualizzazione di cose del quotidiano, che diventano strumenti e non di contorno, non elementi eccentrici di colore, diventano il tratto caratterizzante di singole canzoni, ne forgiano l’atmosfera e la personalità, costruendo significati che la strumentazione basica di un gruppo non avrebbe saputo tradurre.
La lezione bellissima che qualsiasi fondamentalista di ogni forma artistica dovrebbe imparare è che si uccide il feticismo verso lo strumento sia musicale che creativo in generale (lezione che dovrebbero imparare anche e soprattutto i fotografi), si ammazza ogni definizione di genere e classificazione, si trucida ogni rifiuto di contaminazione e sperimentazione, come atto d’amore infinito contro tutto ciò che è vissuto come “religioso” e, paradossalmente, impedisce di arrivare a cogliere l’anima delle cose. Il gesto di Arman è alla fine un atto di liberazione della parte più intima dei suoi oggetti, per lasciare che esprimano caratteristiche nascoste, spogliandosi della veste di limiti, per diventare possibilità.
“Trovato niente di speciale?” chiese Blackie.
Graham Greene, I distruttori
T. annuì. “Vieni qui,” disse “e guarda.” E tirò fuori dalle tasche intere mazzette di sterline. “I risparmi del vecchio Miseria,” disse. “Mike ha strappato il materasso, ma se li è persi.”
“E cosa vuoi farne? Li dividiamo?”
“Non siamo ladri,” rispose T. “nessuno ruberà alcunché da questa casa. Le ho tenute solo per me e te – una festicciola.” S’inginocchiò a terra e contò il bottino – erano settanta in tutto. “Li bruceremo,” disse, “una dopo l’altra.” E, prendendone a turno, tenendo la banconota verso l’alto ne accendevano l’angolo superiore, cosicché la fiamma bruciasse lentamente fino alle loro dita. La cenere pallida galleggiava su di loro per poi posarsi sulle loro teste, come il tempo. “Vorrei proprio vedere la faccia del vecchio Miseria quando avremo finito!” disse T.
“Lo odi davvero fino a questo punto?” gli domandò Blackie.
“Certo che no! Non lo odio affatto,” disse T. “non ci sarebbe alcun divertimento se lo odiassi.” L’ultima banconota in fiamme illuminò la sua faccia assorta.
“Tutto quest’odio, tutto questo amore” disse “è molle, è una scemenza. Ci sono solo
cose, Blackie.”