Muri neri come nere sono le acque
Mark Z. Danielewski, Casa di foglie
quando pesano come macigni
e sembrano appartenere
ad altri mari.
L’essenziale è invisibile agli occhi.
È il risultato di atti: togliere, alleggerire, ridurre.
È spingersi per sottrazione, fino a quando una sensazione di armonia e bilanciamento, di colpo ci pervade.
Essenziale è il respiro, la pausa, il silenzio fra un suono e ciò che lo precede o immediatamente lo segue.
L’essenziale galleggia nel vuoto.
Dalle mie letture di ragazzino esce fuori a volte Saint-Exupéry. Pensate all’illustrazione che chiude il suo testo più celebre, Il piccolo principe: due linee curve a sottolineare l’avvicendarsi delle dune di sabbia del Sahara, una stella gialla alta in cielo (“il più bello e il più triste paesaggio del mondo”). Nient’altro.
Da adulti si diventa più razionali e pragmatici. Pensate allora al Padiglione di Barcellona dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe, realizzato per l’Esposizione universale del ’29: moduli composti esclusivamente da linee rette disposte a formare quadrilateri in una continua alternanza di pieni e vuoti, positivo e negativo; il marmo liscio delle pareti portanti, i rivestimenti ondulati in onice, il solaio in cemento armato, il basamento in travertino della vasca grande, a dare corpo; l’acciaio e il vetro delle grandi porte-finestre rettangolari, l’acqua piatta e immobile nelle due vasche ornamentali, a liberare. E la scelta cruciale, dentro a quell’involucro perfettamente bilanciato, di una decorazione semplice, sottile, funzionale, che eviti qualsiasi orpello non necessario. Il vuoto dentro a cui poter significare.
Difficile non riportare queste considerazioni sul vuoto spaziale al suo corrispettivo in musica, il silenzio; perché la sottrazione proficua del suono può portare a quell’equilibrio ideale tra presenza e assenza che è proprio dei capolavori della composizione. E se dovessi trovare una band contemporanea che sa gestire con maestria l’arte del vuoto, non avrei dubbi, penserei ai Low.
È il 1994, quando tre ragazzi del Minnesota, Alan Sparhawk, sua moglie Mimi Parker e il loro sodale John Nichols (sostituito già dal secondo album), danno alla luce un disco, nato sotto il segno dello slo-core, che è l’essenza pura della sottrazione: I Could Live In Hope. La musica è scarna, spoglia, e si muove in stanze semivuote dove non c’è necessità di portare altro. Un basso, una chitarra, una batteria, due voci, e tutto gestito come fosse un sussurro: il preludio di qualcosa che non arriva mai e così ci trattiene in un’attesa mai paga che diventa il senso fisico e filosofico dell’intero “progetto Low”.
Nel percorso della band, da Long Division (1995), che replicava i concetti e l’urgenza del primo album, a Things We Lost In The Fire (2001) e Trust (2002), che ne ampliavano le prospettive, resta coerente il desiderio di sintesi e la volontà di procedere per sottrazione.
Con la parentesi per niente trascurabile di The Great Destroyer (2005), C’mon (2011) e The Invisible Way (2013), i Low sembrano prediligere una musica e un’esistenza più affollata. Si lasciano tentare dallo “scrivere canzoni”, ma gli ambienti e le architetture restano gli stessi e il richiamo del vuoto è dietro l’angolo, anche se arriva come un cattivo presagio (Ones And Sixes, 2015) o come specchio distorto dei tempi che verranno (Double Negative, 2018).
Da quel primissimo capolavoro minimalista sono passati quasi tre decenni e i Low, alla fine dell’estate di questo secondo anno di pandemia, dopo lunghi periodi di distanziamento sociale e il bagaglio “pesante” del precedente Double Negative, escono nel 2021 con HEY WHAT: un ritorno a casa, ma la casa sembra finita in un altrove ribaltato, immersa nel brusio di disturbi sonori, interferenze e sacche di elettricità statica.
La conoscenza pratica del vuoto nelle discipline orientali (soprattutto in Cina e Giappone) si raggiunge non attraverso la teoria ma tramite la meditazione, che è la chiave di volta per la produzione, la comprensione e la fruizione di esperienze estetiche come l’Ikebana, la pittura a inchiostro, la scrittura, la cura dei bonsai, la poesia haiku e i cosiddetti giardini a paesaggio secco, fino a discipline marziali come l’aikidō.
In Occidente, l’estetica del vuoto è stata esplorata da intellettuali come Lacan (il suo plusgodere, l’alternanza di pieni e vuoti, di presenza e assenza che produce nel soggetto la spinta desiderante), Freud (dal Das Ding alla teoria del rocchetto, che illustra i rapporti di interdipendenza fra madre e figlio, nel perenne gioco di allontanamento e avvicinamento che li vede protagonisti), Heidegger (la metafora della brocca con il suo nulla interno che ne legittima la funzione), per giungere nella pratica artistica ai pionieri del ready-made (la sottrazione di oggetti comuni dalla loro funzione quotidiana che genera un momentaneo vuoto di senso, terreno fertile per nuovi significati): si riconosce al vuoto, in tutti i casi, un ruolo costitutivo nella formazione di ogni oggetto, qualcosa che fa parte di noi fin dalle origini e che percepiamo come una perdita irrisolvibile.
Detto in soldoni, riducendo all’osso l’incontro fra pensiero orientale e occidentale, quello che sembra indiscutibile è che la cura del “vuoto” migliora e nobilita anche il “pieno” all’interno di una pratica o un’opera: le eleva, le pone in evidenza, gli conferisce eleganza e profondità.
Quello che vorrei fare, aiutandomi con delle suggestioni mutuate dal mondo della letteratura e delle arti visive e concettuali, è scomporre l’idea di disco che i Low hanno portato avanti dai primi anni Novanta a oggi, dissezionandola per provare a cogliere l’essenza che ne sta alla base, il significante, fino poi a toccare il significato.
Il contenitore, le stanze
Ugo Mulas nel 1970, a pochi anni dalla morte, decide di ripercorrere la sua carriera di fotografo con un lavoro dichiaratamente concettuale (le Verifiche) dove, alla luce della sua lunga esperienza, decide di confrontarsi di nuovo con le problematiche tipiche del medium che ha incontrato quando ancora era un dilettante. In particolare, nell’Omaggio a Niepce (1970), mette “sotto vetro” lo sviluppo di un intero rullo vergine (quindi completamente vuoto), per sottolineare l’importanza (al tempo, perché oggi con il digitale molte dinamiche sono cambiate) della superficie sensibile, della pellicola, il punto di partenza del lavoro del fotografo, che in questo caso rappresenta in modo più ampio il “luogo”, lo spazio, la stanza in cui far abitare i propri significati.
Per quanto riguarda i Low, l’ambiente in cui cui muovono le poche pedine a disposizione (poche per loro esplicita scelta), quello che da I Could Live In Hope in poi non cambierà mai (sebbene vengano aggiunti elementi nel corso degli anni, o sporcati, stravolti e manipolati quelli già presenti), è quel tappeto ossessivo di basso e batteria, a volte fine come un lenzuolo, altre asettico come un caveau, su cui scivolano e leggermente s’impennano due voci che si legano e si slegano, in un continuo sporgersi e ritrarsi sulla lama dei fraseggi di chitarra.
Fernanda Pivano, nel suo piccolo saggio Il Minimalismo di Raymond Carver (torneremo ancora su Carver, a breve), descrive un modus operandi che mi sembra si adatti molto bene agli scenari sonori fabbricati dal trio del Minnesota:
“Gli artisti negli anni Sessanta presero a ridurre la figurazione a segni elementari, quello che gli americani chiamavano basic, basici, calati in uno spazio vuoto di significato: gli scultori riducevano la scultura a una struttura geometrica e metafisica, i pittori riducevano la pittura a una struttura matematica e metafisica. In uno stesso clima, ma con colossali differenze Carver ridusse gli eventi a stati metafisici, a segni basici, e li collocò in un vuoto sociale, raccontando i disastri prodotti dalla società, ma di una società che non si vede mai, di cui si vedono soltanto le conseguenze. Le sue storie potrebbero avvenire dovunque e comunque avvengono quasi sempre nell’interno delle case, intorno a un tavolo di cucina o davanti a un televisore: sono storie che si svolgono in scene condensate su una lastra da vivisezione, dove l’emozione nasce dalla suspance di un evento che avviene in un vuoto totale, alla cui logica siamo impreparati, un po’ (molto vagamente) come in certi quadri di Hopper.”
I brani dei Low sembrano concepiti proprio per nutrire ostinatamente questa “suspance”, l’attesa di eventi che avvengono e galleggiano in un vuoto totale.
Il linguaggio
Robert Frank, uno degli esponenti chiave della beat generation, ma soprattutto uno degli sguardi più profondi e istintivi della storia del medium fotografico, dopo la morte della figlia Andrea e la diagnosi di schizofrenia dell’altro figlio Pablo, e dopo una lunga esperienza come regista durata più di dieci anni (che continuerà anche negli anni successivi), torna alla fotografia, ma si allontana dai reportage che lo hanno reso celebre. Cerca un approccio più intimo con il mezzo, predilige per le nuove immagini prodotte la contaminazione, scegliendo linguaggi cari alle avanguardie e alle pratiche concettuali: fotografie di fotografie, collages, interventi diretti e fisici sulla pellicola, uso della parola scritta con inserimento di messaggi all’interno della composizione.
Un’immagine in particolare di questo sembra venirci incontro per gettare una luce sui testi dei brani dei Low, dove ogni accostamento è ponderato, ogni verso è un distillato di concetti talvolta enormi e ingombranti, brandelli di vita strappati via dal flusso lineare del tempo, in modo che la nostra attenzione non possa non soffermarsi su ogni singola parola.
Nella foto di Robert Frank incontriamo una composizione dell’immagine molto semplice e razionale, scandita dall’elemento centrale del palo di legno che divide lo scatto in due parti che si affacciano sullo stesso panorama. A sinistra troviamo due ricordi (scatti del suo periodo d’oro da reportagista) appesi a un filo per stendere i panni ad asciugare (lo stesso filo che si utilizza in camera oscura) mentre a destra sventola come una bandiera nera la scritta WORDS e il nostro sguardo non smette di rimbalzarci contro per il cortocircuito della parola “parole”, su una superficie dove sono proprio le parole a mancare.
Il brano Words, che apre il primo lavoro dei Low, sembra un manifesto programmatico di questo modo di intendere la scrittura:
If you’re hearing screams
Come back child, come back
My hands are dry
But I know they’re gonna make it
Just one more night
Too many words, too many words
Ho sempre associato a Raymond Carver questa invidiabile capacità di sfoltire e ridurre all’essenza un testo. La sua è stata un’esistenza votata alla letteratura e sotto il segno dell’adesione ostinata a un modo di scrivere che contempla ampi spazi di “assenza” (di giudizio, di sentimentalismo, talvolta di azione) in cui inoculare una poesia sottile, incredibilmente aderente al reale, da setacciare con buona volontà fra le pieghe di frasi asciutte e sospensioni di trama.
Alcuni testi dei Low si risolvono in miniature nervose, composte da poche frasi perse nel deserto di brani dilatati: sono frammenti capaci di regalarci la stessa inquietudine del “non finito” che ritroviamo nei racconti minimi dello scrittore americano, come Meccanica popolare o Ancora una cosa, dove appena riusciamo ad ambientarci è già arrivato il tempo di uscire dalla storia.
Ad esempio:
The sea is a long, long way
Low, Sea
The sea is a long, long way
The sea is a long, long way from me
I’d go there if I had the time
But lying here will do just fine
The sea is a long, long way from me
O anche:
You’re
Low, Rope
You’re
You’re gonna need more
You’re
You’re gonna need more
You’re
You’re gonna need more
You’re
You’re gonna need more
You’re gonna need more
Don’t ask me to kick any chairs out from under you
O ancora:
And then they take it all away
Low, Take
How many years have I been away?
Mi viene in mente la poesia visiva di Ketty La Rocca con Appendice per una supplica (1972), uno dei primi interventi di video-arte nella storia contemporanea dove, in bianco e nero di fronte a una camera fissa, due mani si muovono, si stringono, si piegano, si lasciano e tornano a incontrarsi. Sulla pelle troviamo ripetuta la parola you che, nella disperazione di quei gesti sospesi nel buio, indica una privazione, una mancanza, un’assenza che brucia. O di Lamberto Pignotti con quel pezzo dalla serie Paesaggio su sfondo grigio, dove si limita a vergare di viola sopra un cartoncino raffigurante una fotografia sbiadita decorata con piccoli interventi dell’autore il messaggio Silenzio agghiacciante: un’iperbole banale, ma nel momento esatto in cui la leggi comincia a risuonare in testa, dapprima come un sibilo che si fa via via più prepotente, per poi diventare l’ossimoro di un grido straziato.
La narrativa
Una pesante cornice racchiude la rappresentazione di una vicenda di difficile lettura. A terra giace una donna e sembra morta. Un’altra cerca di difendersi, brandendo un coltellaccio, dall’attacco di quello che il titolo dell’opera ci rivela essere un usignolo. Sopra il tetto della casa, intanto, un uomo sta cercando di fuggire, si presume per mettere in salvo la bambina che tiene in braccio. L’uomo si allunga per afferrare un pomello gigante e tridimensionale che sporge dal frame, come a voler uscire dal “pittorico” sconfessando la veridicità di ciò che il quadro mostra. Siamo di fronte a una delle opere più strane e controverse della produzione di Max Ernst (Due bambini sono minacciati da un usignolo, 1924).
Al di là del suo reale significato, dell’ironia intrinseca, la modalità con cui vengono messi in scena i fatti è quella che caratterizza le situazioni raccontate da Carver come dai Low. Quello dinnanzi a cui ci pongono non è il mistero, ma il suo contrario, la realtà senza mediazioni e imbonimenti, sbattuta davanti ai nostri occhi improvvisamente, senza contesto né alcun genere di antefatto. Come se qualcuno ci tirasse per una manica, ci portasse di fronte a una finestra e dicesse: “Guarda che fanno!”. E prima di darci il tempo di sapere come va a finire, ci privasse del gusto voyeuristico, strappandoci a quella visione: “Basta, ora andiamo via”. Il risultato è la vertigine di una conclusione che non arriverà mai.
In camera da letto, mi tolsi la vestaglia, la ripiegai e la misi a portata di mano.
Raymond Carver, Riuscivo a vedere ogni più piccola cosa
Senza guardare l’ora, controllai che la levetta della sveglia fosse alzata. Poi mi infilai nel letto, tirai su le coperte, e chiusi gli occhi. Fu allora che mi venne in mente che avevo dimenticato di chiudere il cancello.
Aprii gli occhi e restai lì ferma. Diedi una scrollatina a Cliff. Lui si schiarì la gola. Deglutì. Qualcosa gli andò di traverso e gli gorgogliò dentro il petto.
Non so. Mi fece pensare a quelle cose che Sam Lawton cospargeva di polvere.
Per un minuto pensai al mondo là fuori, e poi non pensai a nient’altro, solo che dovevo sbrigarmi a dormire.
In questo continuo stato di sospensione, d’incertezza riguardo a un “prima” e un “dopo”, ogni attesa sembra minacciosa, ogni cosa costantemente in bilico, in equilibrio precario, anche quando poi non accade niente e la frustrazione che proviamo somiglia a un godimento interrotto con le nostre paure.
Ricordo un’opera di Mandana Moghaddam, artista iraniana oggi residente in Svezia, dove porta avanti i suoi lavori concettuali sempre incentrati sull’alternanza e il bilanciamento della forma maschile e femminile. Chelgis II (2005) è un’installazione formata da un pesante blocco di cemento tenuto sospeso da quattro trecce di capelli con un nastro rosso che vi passa in mezzo: sebbene l’opera sia una metafora della forza femminile che tiene saldamente sollevato il grigio monolite, è anche indiscutibilmente simbolo di precarietà, di un equilibrio fragilissimo e delle conseguenze oltremodo tragiche, in caso questo equilibrio venga meno.
If you see my daughter
Low, Fear
Don’t tell her I’m scared
Forty days without water
Feel my hands on her hair
I fear
La risultante delle forza in gioco
Tutte le canzoni dei Low, alla fine della fiera, somigliano a una sola canzone dei Low: la più lenta, la più vuota, a tratti la più sinistra, eppure zuppa di emozioni, eppure dolce; la più dilatata e spaziosa (tanto che sembra non finire mai), eppure la più claustrofobica: Lullaby.
Cross over and turn
Low, Lullaby
Feel the spot don’t let it burn
We all want we all yearn
Be soft don’t be stern
Lullaby
Was not supposed to make you cry
I sang the words I meant
I sang
E questa canzone dei Low, che è specchio di tutte le canzoni dei Low, somiglia a Philip Guston, a una sua opera in particolare, un quadro enorme (Sleeping, 1977), dove quello che ho provato a descrivere ritorna come se ne fosse il compendio: il vuoto di un letto naufrago nel buio di una stanza che non c’è, i pochi tratti abbozzati, fumettistici, sproporzionati, necessari per esaltare lo stato di sospensione del sonno (gambe, capelli, un occhio chiuso). L’assenza marchiata a fuoco nel perimetro di un materasso troppo stretto, nel ripiegarsi dentro il guscio malsicuro di una coperta troppo leggera per far bene il suo lavoro.
Postilla su disturbi e apnea
HEY WHAT, l’ultima fatica del trio uscita da poche settimane, ha il sapore di un ritorno, ed è a tutti gli effetti un disco dei Low, ma la traiettoria scelta sembra aver seguito le giravolte contorte di un nastro di Möbius che riparte da Double Negative. Abbiamo ancora il vuoto, come intervallo in cui melodie pulite, ben distinte, quasi eteree, riemergono dal magma di interferenze, compressione dei suoni e disturbi post-apocalittici che ancora ribollono in questo secondo album del nuovo corso.
Il vuoto, negli ultimi due dischi dei Low diventa disturbante, sembra di passare in mezzo a una nebbia densa di minuscoli circuiti elettronici in sospensione. La casa piena di spazi da far significare ha cambiato aspetto: somiglia a quel mostro architettonico raccontato da Mark Z. Danielewski nel labirintico romanzo Casa di foglie, che moltiplica le stanze e i vuoti, sia per numero che per dimensione, come un organismo vivo e rapace in continua espansione, pronto a difendersi con gli artigli da chi cerca di abitarlo o almeno comprenderlo.
Double Negative, come in un delirio lynchano, ci ha portato indietro all’essenza stessa della band di Duluth, ma in una sorta di dimensione altra, parallela, dove tutto è caos e brace, rumore bianco, interferenza e schermatura. HEY WHAT è un passaggio obbligato dopo una tale immersione catartica: un lento e a tratti faticoso ritorno a galla, con qualcosa appiccicato addosso, come una poltiglia.
Un’altra “verifica” di Mulas è particolarmente interessante in questo senso. Si tratta di quella (Il cielo per Ninì) dedicata all’ingrandimento di un minuscolo dettaglio dentro una fotografia già precedentemente ingrandita “al massimo della sua lettura”, per arrivare alla grana della superficie sensibile: il risultato è la scomparsa del cielo rappresentato nello scatto e l’affiorare dei sali d’argento sotto forma di grumi, sedimenti e accumuli spontanei. Sembra che i Low cerchino di fare esattamente questo nel loro ultimo lavoro: tornare a casa dopo aver scavato l’ultimo strato possibile prima del nocciolo. Esplosioni tamponate, sfrigolare elettrico, qualcosa che brucia nel buio. Iceberg di senso, in mezzo al disordine dei tempi che stiamo abitando. Una risposta che si avvicina e poi si allontana, non sembra volere o poter essere afferrata. È stata questa forse l’epifania di Double Negative? L’impossibilità di afferrare il senso dei giorni, di imbrigliarli e dar loro una direzione?
Carver, per un’ultima volta, ci viene incontro con qualcosa che somiglia a una risposta:
Mel rovesciò il bicchiere. Tutto il contenuto si sparse sul tavolo. “Il gin è partito”, disse Mel.
Terri disse “E adesso?”
Sentivo il cuore che mi batteva.
Sentivo il battito del cuore di ognuno.
Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò buia.Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
Che stia proprio lì il segreto di tutto quel brusio di fondo a sporcare il vuoto? Nel perenne contrasto con la pulizia, la dolcezza di voce e melodie?
“Rumore umano”.
Semplice rumore umano, ancora da decodificare.