Prendiamo questa celebre fotografia.
New York City, 1966.
Il titolo è quello semplice, discreto, dei buoni reportage.
Dove e quando.
Quanto basta per restare, il più possibile, imparziali.
Per sospendere qualsiasi giudizio.
Come a dire: questo è ciò che ho visto, in un giorno qualunque, a New York, nel 1966.
Quando poi andiamo ad osservare lo scatto in questione, effettivamente ci rendiamo conto che tutta quell’oggettività e quel distacco, quella tranquillità intellettuale, vengono giù con la stessa facilità di un castello di carte.
Ci troviamo sul marciapiede di una strada trafficata, sappiamo di quale città, ma non abbiamo ulteriori informazioni.
Due terzi dell’immagine sono occupati, sulla sinistra, da una donna presa di spalle, bionda a quanto pare, con una morbida pelliccia dal collo avvolgente. Il brontolare delle auto, i rumori che arrivano dai negozi, il vociare irrequieto dei passanti, modellano un impasto sonoro non dichiarato, eppure tangibile come un’intuizione improvvisa.
E il sole prepotente, di una giornata limpida (certamente fredda), proietta la sagoma nera di un uomo (il fotografo), sulla schiena dell’ignara passante, come fosse una tela vergine.
Somiglia a un agguato.
Ma il popoloso contesto, sconfessa questa sensazione di minaccia.
L’ombra, ha comunque un suo peso specifico (e la sua brava dose d’inquietudine), per certi versi un ruolo chiave, che ruota, solo apparentemente, intorno al concetto di errore.
Il punto della questione è un altro, scivoloso e ambiguo, non guarda fuori ma è ripiegato verso l’interno e flirta con la smania di presenza.
L’autore è Lee Friedlander, attivo dal 1955 nella Grande Mela. Cresciuto con lo stile di vita, la poetica e gli insegnamenti di Robert Frank e William Klein, il suo sguardo vorace, il più delle volte audace, si è nutrito dello squisito caos cittadino. Con abilità ha saputo imbrigliare e riorganizzare il disordine urbano in un rompicapo di linee e piani, mettendo a nudo un’incredibile ricchezza di strutture che, solo superficialmente, possiamo intendere come anarchia.
Si parla di un approccio da jam session, una sorta di improvvisazione jazzistica (J.C. Lemagny, A. Rouillé (a cura di), Storia della fotografia, Sansoni, Firenze 1988): nel suo vagare attento, quasi rapace, fra quartieri e scorci metropolitani, seleziona dalla confusione pulsante delle strade, singoli elementi, che ricompone in un’architettura complessa e coerente, dove tutto, visivamente, funziona e dialoga alla perfezione.
“In queste fotografie l’essere umano è divenuto un oggetto fra altri in un mondo intasato di oggetti fino alla nausea. E sotto la luce tagliente e dura degli Stati Uniti, il passante incrocia gli altri senza vederli (già in Robert Frank e Harry Callahan). Egli stesso si trova improvvisamente amputato, occultato da ciò che si interpone fra lui e il fotografo. La fotografia aveva sempre cercato di eliminare tutto ciò che nasconde il soggetto, ma Friedlander fotografa tutto quello che c’è in mezzo, a cominciare dalla propria ombra, perché l’ombra c’è, invece di abbandonarsi ai furtivi saltelli dei reporter del «momento decisivo».”
J.C. Lemagny, A. Rouillé (a cura di), Storia della fotografia, Sansoni, Firenze 1988, pp. 179
E, fisicamente ma anche concettualmente, fra il fotografo e il suo soggetto, anzi fra l’apparecchio fotografico e il soggetto che viene indagato, si piazza prepotente, ingombrante, anche quando è inconsapevole, lo sguardo/pensiero del fotografo stesso.
Da questo presupposto, nasce la pratica del self-portrait, che accompagnerà Friedlander per tutta la sua carriera: un laboratorio, una stanza mentale, dove sperimentare e verificare le idee sul medium e sul ruolo di chi ne fa uso, in continua mutazione.
“Questi autoritratti coprono la durata di sei anni e furono scattati senza una preoccupazione specifica ma piuttosto come un’estensione periferica del mio lavoro. All’inizio erano autoritratti veri e propri ma presto mi ritrovai di frequente nel paesaggio delle mie fotografie. Mi potrei definire un intruso. Comunque sia, gli autoritratti risultarono lentamente e senza alcun piano, ma piuttosto come una scoperta progressiva. Mi immaginavo come un personaggio o come un elemento che si modificava nel momento in cui il mio lavoro cambiava di direzione. All’inizio la mia presenza nelle fotografie era affascinante e disturbante. Ma come il tempo passava e divenivo parte di altre idee nelle mie foto, ero capace di aggiungere una risatina a quei sentimenti.
Lee Friedlander, Self-Portrait. Introduzione in Documenti e finzioni. Le mostre americane negli anni Sessanta e Settanta. Istituzioni e curatori protagonisti fra East e West Coast, a cura di M.A. Pellizzari, Agorà editrice, Torino 2006, pp. 244-245.
Sospetto che si guardi ai propri dintorni e a se stessi per il proprio interesse. Questa ricerca è nata da un desiderio personale ed è la mia ragione e motivo di fare fotografie. La macchina fotografica non è semplicemente uno specchio riflesso e le fotografie non sono esattamente uno specchio, come uno specchio al muro che dice bugie. La verità è rivelata e i puzzles sono risolti nel momento fotografico che è molto semplice e completo. La mente-dito preme lo scatto sulla stupida macchina e ferma il tempo e ritiene ciò che le sue mandibole possono incamerare e ciò che la luce può impressionare. Quel momento in cui il paesaggio parla all’osservatore.“
Non è durata sei anni, ma una vita intera, la stagione degli autoritratti: questo a testimonianza del fatto, che non dovremmo smettere mai di farci domande sul nostro operato e in primis, su noi stessi.
Torniamo un minuto a quella silhouette disegnata dal sole newyorkese.
Quell’ombra in primo piano, che sembra un errore (Clément Chéroux ricorda nella sua storia sull’errore fotografico una cosa importante, che “l’errore è uno straordinario strumento di conoscenza, esso mette a nudo i principi fondamentali della fotografia”), il tipo di leggerezza che nei circoli dei fotoamatori si insegna diligentemente a evitare in modo acritico, in realtà esprime un’idea precisa, un concetto cardine della fotografia consapevole di sé: che il fotografo non può evitare, filosoficamente o istintivamente, di finire dentro la fotografia che scatta. Il suo sguardo, o meglio, la risultante del suo sguardo, che incrocia nello spazio il fluire del tempo, sarà sempre in qualche modo influenzata dal temperamento, dalle radici, dalla cultura e soprattutto dall’universo interiore che lo ha reso diverso da tutti gli altri.
Friedlander, con questo e con tutti i self-portrait prodotti dal 1958 al 2011, disinnesca la pretenziosa oggettività della fotografia che, in quanto testimonianza e documento, non esiste mai come idea pura, eroica, incorruttibile, ma esiste esclusivamente come “mediazione”. E ribadisce una cosa semplice ma cruciale: che in ogni foto ci sarà sempre, nonostante il mezzo meccanico di supporto, un po’ dell’autore che l’ha scattata e quindi sarà ogni volta, ad ogni click, un discorso soggettivo, una lettura personale.
Nel 1970, Ugo Mulas, nel pieno della sua maturità artistica e, ahimè, alla fine delle sua vita, si è preoccupato di percorrere a ritroso gli anni passati e prendere in mano, di nuovo, con la consapevolezza adulta di un’esistenza dedicata al mestiere del guardare, quei principi che stanno alla base della pratica fotografica (superficie sensibile, uso dei diversi obiettivi, il formato da scegliere per un’immagine, il legame fra un’immagine e la sua didascalia, ecc…) per dare finalmente un senso profondo, a una serie di operazioni meccaniche, che aveva compiuto ogni giorno centinaia e centinaia di volte.
Il prodotto finale di questo ritorno al passato, è un esemplare saggio di fotografia concettuale, che ha intitolato Le verifiche: al suo interno ne troviamo una che riflette sull’autoritratto ed è dedicata proprio a Lee Friedlander (L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander).
Le parole con cui il fotografo milanese mette a nudo questo ambiguo paradosso del ritrovarsi, riconoscersi dentro al proprio guardare, chiudono il cerchio di questa riflessione, aggiungendo un tassello ulteriore a un discorso, mai come oggi, nell’epoca dei selfie e dell’ego incontenibile in pasto ai social network, terribilmente attuale, seppur distante anni luce (per profondità), da certe pratiche odierne:
“Qualche tempo dopo l’omaggio a Niepce ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina. Contro la finestra c’è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l’ombra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da quest’ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue i casi c’è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c’è l’ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può né sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente.“
Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 2007. p. 150
Bibliografia
J.C. Lemagny, A. Rouillé (a cura di), Storia della fotografia, Sansoni, Firenze 1988.
Lee Friedlander, Self-Portrait. Introduzione in Documenti e finzioni. Le mostre americane negli anni Sessanta e Settanta. Istituzioni e curatori protagonisti fra East e West Coast, a cura di M.A. Pellizzari, Agorà editrice, Torino 2006.
Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 2007.