Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Relazioni: il magazine di Luca Sossella Editore ed è riprodotto qui per gentile concessione dell’editore.
La diga di Enguri è la sosta naturale per chi viaggia dalla città di Zugdidi verso le valli dello Svaneti, regione montana del Caucaso settentrionale georgiano. Fermarsi è quasi obbligatorio, per sciogliere le tensioni accumulate su schiena e gambe, prendere aria nuova e liberarsi di quella aria viziata dal viaggio nel marshrutka strapieno di camminatori. Da qui in avanti si snodano gli ultimi quaranta chilometri di tornanti d’asfalto misto a sasso che, in non meno di un’ora, portano a Mestia.
La quarta diga più alta al mondo non è solo un‘infrastruttura di cruciale importanza strategica, ma anche una vera e propria matrice di storie, legate a doppio filo alla politica energetica e territoriale della Georgia. Dalla centrale di conversione di Enguri dipende infatti l’approvvigionamento energetico sia della Georgia che dell’Abcasia, una regione de facto separata dalla Georgia, ma non riconosciuta come stato indipendente a livello internazionale, ad eccezione della Federazione Russa. Le due entità hanno fatto parte dello stesso stato fino al 1992, quando scoppiò il conflitto che si concluse l’anno successivo, con la vittoria delle forze separatiste abcase, sostenute dalla Russia di Eltsin.
Poco sopra la linea dell’acqua dell’invaso della diga corre proprio il confine fisico con la regione separatista, il cui accesso è interdetto ai georgiani che qui, fino al primo conflitto del ’92, erano circa la metà della popolazione e oggi si sono ridotti al 17/20%.
A Enguri la parola “terraformazione” prende sostanza concreta: un’impresa umana di radicale modifica dello spazio che porta elettricità a milioni di persone, ma anche il sintomo fatto di cemento del magna politico emerso in superficie dopo la dissoluzione del sistema sovietico.
E i segni sono visibili anche a occhio nudo: le gallerie che i profughi georgiani in fuga dell’Abcasia usavano per uscire dalla regione in guerra sono ferite segnate sul corpo delle montagne dal primo conflitto etnico scoppiato dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Si riconoscono solo se qualcuno te le indica, in alto, appena sotto le prime cime caucasiche: dei piccoli cerchietti poco più scuri dei boschi di aceri, faggi, carpini e infine, prima degli alpeggi, d’abeti rossi e pini.
Appoggiato alla balaustra sulla parte sommitale della diga, mentre lo sguardo corre sull’enorme lago d’acqua dell’invaso, trattenuto da uno strapiombo cementizio di 270 metri e, in alto, alle prime cime del Caucaso, la sensazione è di essere sulla soglia di un mondo diverso, tutto da comprendere.
Risaliti nel pulmino si vorrebbe dormire o perlomeno vagare con la mente e mandare tante energie positive al signore al volante che ha in mano la tua vita; ma la testa corre tutta dietro alla complessità geografica, politica ed etnolinguistica di questa cerniera tra Europa e Asia chiamata Caucaso e alla remota possibilità che, in sole due settimane di viaggio, possa davvero capirci qualcosa di questa inedita complessità. Ci riuscirò?
Complessità, appunto: parola comoda, parola-ombrello, casco anti-caduta che spesso viene messo sulla testa dei discorsi sulle ex-repubbliche sovietiche più vicine all’Europa. Del Caucaso se ne parla anche come di un “mosaico”, per via degli innumerevoli accostamenti, convivenze e dispute storico-territoriali mai davvero risolte, ancora incagliate nelle trasformazioni degli ultimi due secoli. Allievo di Kapuscinski, il giornalista polacco Wojciech Gorecki, lo ha chiamato “Pianeta” nel suo importante reportage di prossima ristampa per Keller editore: un corpo celeste con tutti i suoi satelliti di lingue e culture orbitanti.
In ogni caso, c’è sempre un marker che si mette a bella evidenza prima di ogni discorso su queste terre: “presta attenzione, ti stai addentrando in terreni assai scivolosi”. Scivoliamo.
La montagna delle lingue
Djamal al-alsun, lo definirono già i geografi arabi: la montagna delle lingue. Oltre una quarantina, in un area di mille chilometri di aree montane che parte dalle profondità del mar Nero e dal petrolio di Baku e si alza in una dorsale di vette, vallate e pianure su cui raramente il passo della storia si è fermato a riposare.
In questa diagonale di terre tra Mar Caspio e Mar Nero sono confluite nei secoli decine di popolazioni in fuga dall’Asia Centrale, sotto la pressione dei nuovi occupanti delle steppe. Sospinti a ovest, si trovavano qui in feroce competizione per la spartizione delle risorse del territorio con le popolazioni che si erano spostate prima di loro; chi usciva sconfitto da questi scontri era forzato ad ulteriori migrazioni, spesso nelle zone più inospitali della regione, le uniche rimaste disponibili. È forse per tutte queste ragioni, e per le caratteristiche geografiche che di per sé favoriscono l’isolamento, che già il buon vecchio Erodoto scriveva, icastico, che “molti popoli abitano nel Caucaso”?
Costruire il Caucaso
Il confine fisico conta più di 150 vette oltre i 4000 metri e divide oggi quelli che effettivamente sono due mondi distinti: le repubbliche della Federazione Russa a nord (Circassia, Cabardino-Balcaria, Ossezia, Inguscezia, Cecenia e Daghestan), da quelle indipendenti del sud (l’Abkhazia, la Georgia e l’Azerbaijan). La loro storia culturale e politica è il risultato di molteplici influenze: la russificazione, i massicci spostamenti demografici, deportazioni ed esodi. A questi si aggiungono i cambiamenti avvenuti tra la prima dominazione russa – durante la guerra civile che segnò il passaggio dalla monarchia zarista alla repubblica sovietica – e la ridefinizione delle geografie umane nel periodo sovietico, culminata con la seconda guerra mondiale.
La disgregazione dell’Unione Sovietica, avvenuta proprio mentre si affermava una nuova attenzione verso i diritti delle autonomie locali, ha ulteriormente complicato la situazione. Le responsabilità per le violazioni subite dalle comunità locali e dalle minoranze etniche sono state trasferite ai governi post-sovietici, che hanno spesso faticato a gestire le rivendicazioni ereditate da un sistema ormai scomparso, interpretato in modi assai diversi nell’area caucasica.
La disgregazione dell’Unione Sovietica, avvenuta proprio mentre si affermava una nuova attenzione verso i diritti delle autonomie locali, ha ulteriormente complicato la situazione. Le responsabilità per le violazioni subite dalle comunità locali e dalle minoranze etniche sono state trasferite ai governi post-sovietici, che hanno spesso faticato a gestire le rivendicazioni ereditate da un sistema ormai scomparso, interpretato in modi assai diversi nell’area caucasica.
Il risultato dell’interazione di queste faglie è una regione di straordinaria eterogeneità, pur nella sua relativa estensione, in cui gli equilibri sono stati continuamente rinegoziati e poi infranti in conflitti che a volte hanno covato sotto la superficie della repressione e altre volte sono esplosi in vere e proprie guerre.
Costruire il Caucaso
Come le Alpi, anche il Caucaso non è soltanto un insieme di magnifiche aree montane e rurali, ma anche prodotto di un lungo e complesso processo di proiezioni esterne; sedimenti di immaginario accumulati nel tempo che, dapprima, hanno dato vita a idee collettive e successivamente hanno modellato il paesaggio montano stesso attraverso opere e infrastrutture, oggi collegate principalmente all’economia del turismo.
L’Europa post-illuminista troverà il suo primo sguardo su questa regione, perlopiù sconosciuta, nella letteratura di metà Ottocento, con quel Viaggio in Caucaso di Alexander Dumas, che darà il via alla fascinazione romantica ed esotica di Puskin, Tolstoj e soprattutto di Lermontov. Erano gli anni in cui nel vecchio continente prendeva forza il mito dell’alpinismo esplorativo che, grazie alla febbrile attività dei pionieri britannici e delle guide locali, portò le bandiere nazionali sulle vette del Rosa, del Cervino e poi del Bianco.
L’inglese Douglas William Freshfield aveva solo diciassette anni quando arrivò sulla vetta più alta d’Europa: era il 1862 e le Alpi, da lì in avanti, non gli sarebbero mai più bastate: ad aspettarlo c’erano monti e vallate alle porte dell’Oriente. Esplorazione del Caucaso sarà la chiusura del cerchio-viaggio che Freshfield, insieme a guide e cartografi inglesi, intraprese a fine del diciannovesimo secolo, percorrendo un vasto arco del Grande Caucaso, sia nel versante russo che in quello georgiano.
Qualche anno dopo la prima spedizione, prese a viaggiare con Freshfield anche Vittorio Sella, esploratore, alpinista e fotografo italiano, che attraverso il resoconto fotografico ha contribuito come nessuno prima alla documentazione e alla conoscenza delle remote aree della regione.
A guardare le immagini delle lastre fotografiche di Sella scattate su banco ottico, o a leggere delle peregrinazioni dell’ufficiale dell’esercito imperiale Lermontov tra i passi innevati del Caucaso, si resta increduli a pensare come certi individui fossero in grado di battere le altitudini inesplorate con addosso attrezzatura fotografica di quel peso o in carovane notturne al traino dei muli. Eppure, forse, la risposta è sempre più semplice: l’uomo adatta sempre le sue abilità ai mezzi materiali di cui dispone, e la percezione del rischio che oggi proiettiamo su quelle imprese è anche un filtro culturale legato alle possibilità del nostro tempo. Un filtro non propriamente oggettivo ma sempre situato nella storia.
Da fine Ottocento in avanti, anche l’alpinismo esplorativo nel Caucaso, come quello alpino, cede il passo a una concezione sportiva e sempre più tecnica dell’avventura in altitudine. In tutto questo affanno generale per le vette, è il Monte Elbrus con i suoi 5600 e passa metri la spilla da appuntare al petto. La prima ascensione documentata della vetta occidentale (la più alta) è datata 28 luglio 1874 ed è attribuita a una cordata di inglesi e svizzeri accompagnati da una guida locale. Tuttavia, la vetta orientale (più bassa, 5.621 metri) era già stata conquistata nel 1829, da un contadino locale, Killar Khashirov, come parte di una spedizione scientifica russa. Nel 1909, poi, un gruppo di undici alpinisti russi allestì un accampamento temporaneo a 4.050 metri di altitudine. Prima di partire, lasciarono un’incisione su una pietra con la scritta “Shelter 11”. Vent’anni dopo, nello stesso luogo, un gruppo di alpinisti sovietici eresse quello che sarebbe diventato l’albergo più alto dell’URSS (e successivamente della Russia moderna): lo “Shelter 11”, destinato supportare le spedizioni alpinistiche e scientifiche sull’Elbrus.
La costruzione dei rifugi in luoghi estremi e isolati – pratica già ampiamente collaudata in Europa – rifletteva bene l’ambizione scientifica e ingegneristica dell’epoca, quando la natura non era più vista come inaccessibile e pericolosa, ma come un terreno da esplorare, misurare e conquistare. Gli stessi rifugi erano spesso realizzati con un’estetica razionale, coerente con i valori del modernismo, in cui la forma seguiva la funzione: strutture semplici, robuste, capaci di resistere agli elementi.
Con la Seconda Guerra Mondiale poi, l’Elbrus diventa teatro di scontri militari dal valore più simbolico che realmente strategico. A causarli l’operazione militare Edelweiss. La Wehrmacht non avrebbe potuto ottenere il petrolio di Baku senza prima controllare il Caucaso e nell’agosto del ’42 una squadra di truppe d’élite tedesche issò la croce uncinata sulla vetta dell’Elbrus. Lo scopo era più di dimostrare la supremazia tedesca in ogni ambiente, compresi i territori più ostili, che ottenere un reale vantaggio. Lo stesso valeva per la Russia che dai primi mesi del 1943, lanciò una controffensiva che riuscì a respingere le forze tedesche e riconquistare anche le posizioni sulle pendici dell’Elbrus. Entrambi gli eserciti sottrasserosottraerono così importanti energie da teatri di guerra ben più strategici, e solo per garantire il proprio dominio sulla vetta più alta al confine tra i due mondi. Quattro mesi e mezzo di combattimenti tra i 4000 e i 5000 metri che provocarono centinaia di vittime.
Saltando a incauti balzi verso l’epoca sovietica, il Caucaso diventa la meta principe dell’alpinismo di Stato a vocazione militare. Perché questa catena montuosa ha rappresentato, per l’Impero russo prima e per l’Unione Sovietica poi, l’equivalente delle Alpi per i mitteleuropei: un simbolo di potenza e modernità, dall’Ottocento fino alle controverse Olimpiadi di Sochi del 2014, quandto il paesaggio è stato letteralmente ri-creato, con massicci interventi di terraformazione, deforestazione e opere di costruzione di impianti sportivi dalla dubbia utilità, in aree naturalistiche protette.
Solo dopo l’89, le guide alpine un tempo al servizio dello Stato, e ora disoccupate, iniziarono a reinventarsi, offrendo i primi servizi di accompagnamento per gli alpinisti europei. E tuttavia, ci vorrà ancora del tempo prima di vedere degli sciatori civili sulle piste, e molti anni di più prima che i primi escursionisti zaino in spalla iniziassero a esplorare queste montagne.
Le montagne sono il nostro scudo
Nel Caucaso del Nord ci sono sette vette che superano i 5000 metri di altitudine e si trovano principalmente nella sezione centrale della catena, tra Russia e Georgia. Gole strette e profonde, ghiacciai, pareti rocciose e fiumi creano un ambiente estremamente alpino in cui le pendici settentrionali scendono ripide e le meridionali vanno più dolcemente verso le pianure georgiane. Se il versante nord è dominio dell’alpinismo, quello che scende in Georgia si presta meglio all’escursionismo e più di recente al cosiddetto eco-turismo.
Con il “ripristino” della stabilità politica e le riforme economiche post-sovietiche, la Georgia ha iniziato a trovare nel turismo una delle sue attività economiche più rilevanti.
Il governo ha investito nelle infrastrutture, e sebbene mobilità e accessibilità abbiano tuttora dei problemi evidenti, negli ultimi due decenni, il turismo in Georgia è cresciuto in modo significativo, passando da circa 500.000 nel 2004 a oltre 9 milioni nel 2019. Nel 2023, dopo la flessione negativa dovuta alla pandemia da Covid-19, i numeri sono cresciuti nuovamente, e si stima che i visitatori internazionali abbiano raggiunto circa 6-7 milioni, con una quota crescente verso le destinazioni montane. E anche qui si sente sempre più parlare di turismo sostenibile, una definizione per niente pacifica se si pensa che le destinazioni vengono perlopiù raggiunte con voli di linea low cost, ma che qui limiterò in senso costruttivo a quei progetti di sviluppo di sentieri ecologici, alloggi e viaggi a basso impatto ambientale e promozione di pratiche di coabitazione tra turisti e comunità locali.
Tra le due regioni più popolari per l’escursionismo estivo in Georgia, oltre al Kazbegi – con la sua strada Militare che collega Tbilisi con la città di Vladikavkaz in Russia, passando attraverso il valico di Jvari – c’è lo Svaneti. Una zona tanto isolata dalle barriere, quanto oggi popolare tra gli escursionisti, che fa parte della regione del Samegrelo, a sud della catena principale del Grande Caucaso, confine naturale, barriera di roccia e ghiaccio tra Georgia e Russia.
Le popolazioni dello Svaneti sono storicamente caratterizzate da una forte omogeneità etnica e da particolari concezioni di comunità e di diritto che hanno funzionato come un cuscinetto sulle autorità, prima imperiali e poi sovietiche. Questo compattamento deriva non solo dalla lingua (lo svano, che appartiene alla famiglia delle lingue kartveliche, o sud-caucasiche, un ramo linguistico che include anche il georgiano, il mingrelio e il laz), ma anche dalla dipendenza storica della popolazione dall’agricoltura in altitudine, sempre più compromessa oggi dai rischi idrogeologici aggravati dal cambiamento climatico, e dall’abbandono delle attività agricole per lo spostamento d’interesse sulle attività di accoglienza turistica. Da qui la necessità di creare un mondo vitale collettivo, ma soprattutto di mantenerlo stabile e a lungo termine, anche attraverso una comune identificazione con un’origine e un’eredità condivise.
Gli Svan, non a caso, rappresentano una delle cause identitarie che la Georgia-nazione si intesta più volentieri quando si tratta di rivendicare l’orgoglio patriottico. La regione si presta perfettamente a questo tipo di narrazione, poiché i suoi abitanti sono profondamente consapevoli della propria unicità culturale e mantengono un forte senso di distinzione rispetto ai gruppi circostanti. Questo senso di separazione è in parte dovuto al loro isolamento geografico, ma anche alla loro storia di indipendenza. Anche durante l’epoca sovietica, infatti, lo Svaneti rimase una regione difficile da controllare, con le strutture patriarcali che resistevano ai tentativi di collettivizzazione imposti dal regime. In molte occasioni, le riforme sovietiche venivano applicate solo superficialmente, con i clan locali che mantenevano il controllo effettivo.
Tuttavia, presentare lo Svaneti come un’entità completamente unitaria e coesa è un modo decisamente semplicistico, probabilmente alimentato dalle aspettative esotiche indotte dal recente boom turistico. La realtà sembra più complessa. La natura della regione, con il suo isolamento geografico e le sue strutture sociali patriarcali, ha infatti preservato, magari offuscandole agli occhi stranieri, pratiche tradizionali come la vendetta di sangue che hanno reso difficile risolvere i conflitti tra famiglie a tutt’oggi ancora presenti. In un contesto di forte competizione per le risorse, e di scarsità delle stesse per via di territori sempre più fragili, gli scontri legati al controllo delle aree strategiche e le faide sono un elemento di tensione costante.
Negli ultimi decenni, questi conflitti hanno preso forme diverse, legandosi al traffico di armi e droga, a piccoli monopoli dei mezzi su gomma, fondamentali per far muovere i turisti fra le valli, con clan che lottano, ad esempio, per il controllo viario da Mestia, la principale città della regione, verso le aree più rilevanti per il turismo e l’economia locale. Operazioni di sicurezza, come quella governativa del 2021, che mirava al disarmo delle milizie locali, hanno cercato di ristabilire l’ordine, ma hanno spesso avuto un impatto limitato. L’isolamento geografico e l’autonomia culturale degli Svan hanno sempre reso difficile per lo stato georgiano imporre un controllo completo e risolvere le faide, che sono ancora radicate nelle tradizioni locali di onore e vendetta.
Oggi, l’interesse economico legato al turismo sembra aver contribuito a trasformare le dinamiche sociali interne, favorendo una sorta di pax sine bello tra i clan locali. Per fare un paragone incauto, è un po’ come è successo nel centro città di Napoli, in cui l’aumento del turismo di massa ha portato a una diminuzione dei crimini contro i visitatori, con i clan camorristici che hanno compreso l’importanza di mantenere un’immagine sicura per proteggere il flusso di denaro legato all’industria turistica. I quartieri un tempo considerati inaccessibili o pericolosi si sono aperti ai visitatori, mentre i furti e le aggressioni ai turisti sono diminuiti in modo significativo.
Anche nello Svaneti, i villaggi un tempo remoti e segnati da tensioni locali, sono diventati mete ambite per gli escursionisti amanti della montagna. E la necessità di offrire un ambiente sicuro e ospitale ai turisti ha spinto le comunità a collaborare, mettendo temporaneamente in secondo piano le antiche rivalità, ma allo stesso tempo ha aperto a altre inedite tensioni, legate al nuovo mercato della concorrenza tra host.
Is every guest (still) a gift from God?
Nel mio recente viaggio in Georgia, nell’estate 2024, la prima delle due settimane l’ho dedicata a un cammino proprio nella regione dello Svaneti, partendo da Mestia e arrivando dopo quattro giorni a Ushguli, gruppo di antichi villaggi molto noto per le sue torri medievali.
Si tratta di un percorso che, seppur meno affollato dei nostri sentieri alpini, è comunque assai battuto, soprattutto nei mesi estivi: 55 chilometri di cammino impegnativo, tra valichi e fiumi glaciali, con pernottamenti nelle guesthouse di villaggi interni come Zhabeshi, Adishi e Iprari, dove la popolazione locale si sta adattando alla crescente domanda di alloggi, convertendo le proprie abitazioni in guesthouse e promuovendole sulle principali piattaforme online.
L’ospitalità dei georgiani, come è noto, è un valore culturale profondamente radicato in tutto il Paese: non è solo un luogo comune sbandierato nelle guide ufficiali o negli statement di diplomazia culturale. Tornando da queste zone, difficilmente potresti raccontare che i georgiani non siano un popolo gentile, riservato, accogliente e mai troppo invadente. Tuttavia, l’impressione che il rapido sviluppo del turismo stia mettendo a dura prova questo tratto distintivo si è mutata, alla fine del viaggio, in una certezza.
I residenti di questi villaggi remoti si trovano a dover gestire delle inedite forme di domanda tutte concentrate nei mesi estivi, quanto le aspettative degli escursionisti internazionali confluiscono qui attraverso il filtro immateriale delle piattaforme di prenotazione, che pur offrendo visibilità contribuiscono a creare una forte pressione sui prezzi.
Le recensioni online, spesso superficiali e influenzate da una visione idealizzata, possono avere un impatto significativo sulla percezione del luogo e sul comportamento dei futuri visitatori che, arrivati alla meta, interpretano le guesthouse come dei rifugi di montagna o dei pub, dove festeggiare le loro imprese con abbuffate e gozzovigli. Il turista, inoltre, attratto dall'”autenticità”, si aspetta che anche i prezzi dell’ospitalità restino tradizionali, cioè molto economici.
È facile quindi immaginare la pressione che i locali sentono nel cercare di soddisfare le richieste di questo segmento internazionale mentre affrontano una competizione crescente con i vicini. A tutto questo si sommano le difficoltà di comunicazione e le inevitabili incomprensioni culturali dovute alla mancanza di una lingua comune.
Una carovana globale, in Gore-tex
Non è stata certo una sorpresa capire che sarei stato più che in compagnia durante il cammino di quattro giorni nel Caucaso georgiano: agosto non risparmia niente e nessuno. Eppure, vedere che Mestia, la piccola municipalità che fa da porta d’ingresso alle vallate interne dello Svaneti, fosse non il villaggio incantato di cui parlano le guide, ma un hub internazionale di giovani hikers in gore-tex ha infranto l’aspettativa egotica di avere tutta per sé la presunta autenticità dei luoghi e il primato dell’avventura. E sono bastati pochi minuti in giro per la piccola città a disilludersi e capire, dio voglia, che le tracce che si seguono in qualsiasi viaggio sono sempre già state battute dall’esperienza altrui, sedimentata commento dopo commento, like dopo like, fotografia dopo fotografia.
Sentirmi parte di questa varietà umana in cammino, ha portato a galla delle buone domande, prima fra tutte: cosa stavamo tutti cercando in questo angolo remoto del Caucaso? Il ragazzo francese in anno sabbatico lungo la Via della Seta, la fotografa australiana in viaggio con un amico ricercatore a Londra, la thru-hiker neozelandese reduce da venti giorni continuativi di cammino in Azerbaijan, o il gruppo di startuppari californiani dalla San Francisco con i prezzi al metro quadro prezzi ormai fuori controllo. E poi tanti giovani israeliani, in vacanza dopo l’ultimo anno di scuola, poco prima di iniziare un servizio militare che sarà tutt’altro che semplice. (lLa Georgia è una meta molto amata dai turisti israeliani, grazie alla vicinanza e all’assenza di visto).
Era evidente che questa varietà di volti e storie stesse applicando, ognuna a suo modo, quel western gaze con cui noi occidentali tendiamo a guardare a un paese ex-sovietico: l’estetica urbex, l’oggetto fuori contesto in scenari da “terzo paesaggio”, il diffuso abbandono industriale, le tenere babuske e la famiglia tradizionale. E poi tutto l’immaginario del sacro e della nostalgia che portano con sé le vette innevate e le valli glaciali.
Perché ciò che carichiamo con noi in viaggio è sempre un bagaglio culturale delle nostre vite ordinarie dove l’esperienza autentica e il contatto con la natura rientrano come capitali simbolici da esibire una volta rientrati a casa. Ma spesso, quello che oggi chiamiamo approccio sostenibile al turismo si riduce al semplice vantaggio economico che abbiamo nel visitare un paese con una moneta decisamente più debole della nostra.
Da anni cerco di includere qualche giorno di cammino continuativo nelle mie estati e voglio continuare a farlo: ma perché lo faccio? Cosa cerco in queste fughe montane? Sono davvero esperienze più nobili, come tendo a pensare, rispetto ad altre più ordinarie? Perché, alla fine, cosa c’è di straordinario nel mio approccio “della domenica” alla montagna, dove nulla può realmente andare storto, dato che un elicottero di soccorso è sempre pronto a intervenire se il panico mi cogliesse sul crinale?
Farsi queste domande durante e dopo il viaggio, non dovrebbe tuttavia invalidare l’esperienza che si sta facendo. Dovrebbe essere un modo per bilanciare la spontaneità con una riflessione su che tipo di esperienza si si vive, perché in un’epoca in cui il turismo è uno dei principali motori economici, con impatti inediti sugli equilibri locali, è quasi obbligatorio farsi osservatori attenti dei nostri desideri di fuga e delle nostri immaginari nostalgici. Camminando tra i valloni glaciali dello Svaneti, ho cercato quindi di capire meglio cosa ci sia dietro il fascino delle nostre esperienze di meraviglia montana. E in fondo, se il problema è complesso, la risposta può essere anche molto chiara, se non semplice: il turismo, anche quello che si dichiara più “sostenibile”, è un’arma a doppio taglio per le comunità montane dello Svaneti georgiano. Se da un lato offre opportunità economiche in regioni fragili, segnate da povertà e spopolamento, dall’altro, la sua crescita disorganizzata è un serio rischio per il patrimonio culturale e naturale e per la coesione delle comunità. E mentre lasciavo lo Svaneti, in una carovana di pulmini stracolmi di vacanzieri tutti ben “consapevoli” come me, tornava chiara l’evidenza di quanto anche io stessi contribuendo a sedimentare l’immaginario turistico di questi luoghi, dando un piccola spinta alla loro progressiva e inesorabile trasformazione.
L’eterno dilemma del turista è, anche per questa volta, tutt’altro che risolto.