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Storia di un clown alla fine del mondo

Autenticità, fascinazione e perturbante nel "Circus" di Bruce Davidson

by Alessandro Pagni
16 Aprile, 2020
in Fotografia, Scritture
5 min read
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Il cielo quasi grigio, quasi bianco, di un mattino fradicio, si riflette increspato dal vento sulle pozzanghere di questo insopportabile pantano. La luce infetta della notte di pioggia più lunga, a battere maligna su tendoni e caravan, ricorda a posteriori il neon malato di una sala d’aspetto, di quelle dove si aspetta in eterno. L’aria odora di cani bagnati e degli escrementi delle bestie esotiche più grandi, arrese e rassegnate, portate in giro a dar spettacolo: quella puzza persistente, diventa parte del bagaglio di informazioni che il tuo archivio mentale finisce per associare a un sentimento di familiarità, all’idea di un riparo, di casa. 

È il 1958, Bruce Davidson ha lasciato da poco l’esercito. Mentre era di stanza a Parigi conosce Henri Cartier-Bresson, che sarà determinante, l’anno successivo, per il suo ingresso nell’agenzia Magnum. In questo periodo il fotografo dell’Illinois lavora come freelance per la rivista Life e si avvicina al mondo romantico, surreale, per certi versi mistico, del circo. A questo tema verrà dedicato un libro, Circus, (edito da Magnum nel 2007), che raccoglierà gli scatti di Davidson su tre circhi americani sostanzialmente diversi fra loro. Il punto di partenza nonché perno dell’intera antologia, è la piccola, splendida serie The Dwarf: il racconto poetico e dolente, della vita quotidiana di un clown nano, Jimmy Armstrong, impiegato al Clyde Beatty Circus. 

Allora, come anche oggi, i circhi offrivano protezione e lavoro a persone affette da nanismo, che spesso erano escluse dalla società a causa della loro deformità.

Vera Agosti, La figura del clown: metafora della condizione umana, Firenze, MEEF – Firenze Atheneum, 2005, p.102.
Bruce Davidson, The Dwarf, New Jersey, Palisades, USA, 1958. 

La questione “Clown” nella mia vita, ha sempre avuto un suo peso specifico: da bambino ero letteralmente terrorizzato da questa figura e quando mia madre provò, una sola volta, a mascherarmi da pagliaccio a mia insaputa, mostrandomelo poi a cose fatte di fronte allo specchio, rimasi talmente spaventato da me stesso, da non riuscire più a smettere di piangere. Mi dimenavo disperato e furioso come se un parassita, di quelli particolarmente minacciosi e ostinati, nello stile dell’Alien di Ridley Scott, si fosse accasato dentro di me e non riuscissi in alcun modo a estirparlo. It di Stephen King fu il primo stimolo che riuscì a mutare i sentimenti che provavo verso questa maschera: l’orrore generava inquietudine, ma di un tipo diverso, una paura cercata, inseguita, squisitamente morbosa e a modo suo seducente. Da grande poi, quello per i clown, è diventato un amore profondo, mascherato da ossessione: prima con i ritratti dolenti di Rouault e i saltimbanchi del periodo rosa di Picasso, più tardi con Il sorriso ai piedi della scala di Henry Miller. Ma più di tutto con il personaggio dal cuore calpestato di Heinrich Böll, che mi ha agevolato l’uscita dall’ennesima storia disastrosa ed è diventato a conti fatti, uno dei romanzi più importanti che ho divorato. Il clown infine, da adulto, ha assunto ai miei occhi il carattere di un antieroe triste e stoico, un naso rosso che trascina dietro di sé chili e chili di intenzioni inespresse, di slanci monchi finiti in sonori capitomboli e ha saputo modellarsi discretamente bene ai miei disagi interiori e alle assurde, castranti insicurezze che ancora mi porto dietro. 

Bruce Davidson, The Dwarf, New Jersey, Palisades, USA, 1958. 

Davidson segue l’uomo mentre veste e sveste i panni da clown, dalle prime luci del mattino fino a notte inoltrata, nei suoi spettacoli e nelle faccende private, portando a galla il valore universale di quel sorriso posticcio, tracciato in modo grossolano sopra al cerone, a volte triste, a volte crudele, ma sempre beffardo, disilluso, segnato dalla consapevolezza della grande bugia che riguarda un po’ tutti, l’assurdità di questo nascere e poi morire, in un punto qualsiasi del tempo, alla periferia dell’universo. Quel ghigno che da bambino trovavo spaventoso, ora mi è insopportabile per le verità che si porta dietro, per l’ironia nichilista con cui vende l’oppio di una comicità tragicamente impacciata, a un pubblico stolto e ignaro. 

Torniamo alla fotografia di Armstrong, mentre fuma in prossimità di un tendone a strisce bicolore, tenuto in piedi da una teoria di paletti e corde tese. Lo scatto che meglio riassume questo lavoro. La terra sembra una vecchia che respira a fatica, i rumori troppo lontani perché non siano semplici collisioni maldestre di pensieri. Puoi quasi afferrarlo il grottesco abito di questa solitudine, che balla nell’aria con la pesantezza di un pachiderma: è lo spazio cruciale fra il fotografo con il suo occhio di vetro e lo sguardo meditabondo del clown, mentre in una mano stringe un patetico mazzo di fiori, e con l’altra, porta alle labbra la brace minuscola di una cicca accesa. 

Bruce Davidson, The Dwarf, New Jersey, Palisades, USA, 1958. 

Il cappellaccio nero, la giacca troppo larga, la guardia bassa e vulnerabile di un amante tradito, la dignità di un re triste alla fine del mondo, ai confini del tempo. Lo scatto di Davidson racconta questa cosa estremamente piccola, tanto semplice e immensa: siamo noi Jimmy Armstrong, per la maggior parte delle ore a nostra disposizione su questo misero pianeta, siamo lui, in una giornata che ci spacca in due per l’umidità, a considerare i nostri fallimenti, i troppi dubbi, nel tempo in cui il fuoco si divora una sigaretta e nella cattedrale vuota della nostra testa, rimbalza il suono di una canzone di Nick Cave che comincia così: 

Proprio come un uccello che canta al sole
in un’alba molto molto scura 
così è la mia fede in te 
così è la mia fede 
E tutta l’oscurità del mondo potrà ingoiare 
una sola scintilla 
tanto è il mio amore per te 
tanto è il mio amore 
C’è un regno 
C’è un re 
E lui vive fuori 
E lui vive dentro 

Nick Cave & The Bad Seeds, There Is A Kingdom
Bruce Davidson, The Dwarf, New Jersey, Palisades, USA, 1958. 

La cosa che davvero ci consola, fra queste macerie, è sapere che in fondo, possiamo in qualsiasi momento decidere di buttar giù tutte le impalcature, azzerare colpe e traguardi e restare, semplicemente, fedeli a noi stessi. 

Nessuno, neanche il mondo intero, avrebbe potuto impedirgli d’essere se stesso. Se davvero era un clown, allora doveva esserlo fino in fondo, da quando apriva gli occhi al mattino, fino a sera, quando li richiudeva. In stagione e fuori stagione, a pagamento o per il semplice piacere… senza cerone, senza trucco, senza costume […]. Essere così totalmente se stesso che si sarebbe vista solo la verità, che ora gli bruciava dentro come un fuoco.

H. Miller, Il Sorriso ai piedi della scala, Feltrinelli, Milano, 1963, p.7. 

Alessandro Pagni

Alessandro Pagni

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