Il rap spiegato ai bianchi, in breve
Il rap spiegato ai bianchi è un saggio quasi unanimemente considerato fallito perché privo delle basi necessarie a offrire una narrazione dell’hip hop capillare, enciclopedica, e perché nemmeno riesce a fornire una chiave utile per un primo accesso al genere. Tuttavia contiene pagine divertenti e qualche spunto interessante, perciò si è deciso di trarne alcuni frammenti da usare come sample.
Sample #1
Circa vent’anni prima di morire suicida nel 2008, prima anche di essere l’osannato autore dell’infinito Infinite Jest, e prima ancora di aver scritto su praticamente qualsiasi argomento, David Foster Wallace era:
“uno specializzando e aspirante disoccupato che guarda la tv invece di dormire, che sta cominciando a preferire sempre più le pubblicità ai programmi, e ascolta fedelmente con mezzo orecchio suppergiù qualunque puttanata commerciale trasmetta al momento la stazione radio di Boston che la sua pigrizia gli impedisce di cambiare.”
Siamo nel 1989, a Boston, e Wallace ha già pubblicato il romanzo d’esordio, La scopa del sistema, ma benché la sua carriera di scrittore sia in fase di decollo, si sente prossimo allo stallo. Le sue antenne ultrasensibili hanno però captato, ormai da qualche tempo, il potenziale di un nuovo genere musicale.
Infatti, c’è in giro da almeno un decennio, e ha preso sempre più piede, un nuovo tipo di musica capace di fagocitare e risputare in rima le mille sfaccettature di una società soggiogata dal profitto e ipnotizzata dalla cultura di massa; è una musica fatta di slang, poesia, kung fu, pubblicità, manifesti politici, filastrocche, fiabe, tutto mescolato in un calderone insieme a tessiture musicali a base di funk, jazz, disco, rock, colonne sonore, canzoni natalizie e drum machine.
Un tale miscuglio non poteva non indurre uno scrittore affetto da eclettismo patologico a gettarsi entusiasta nell’impresa (in questo caso fallita) di scrivere un saggio in proposito.
Ad affiancarlo c’è un coautore, suo coinquilino e amico, il pragmatico e musicalmente più ferrato Mark Costello, sobriamente definito come:
“un procuratore legale che ama il jazz, il blues e il funk.”
Questi “due residenti di Boston di razza bianca e sesso maschile” sostengono di avere gusti agli antipodi praticamente in tutti i campi, se non per questa recente e improbabile passione musicale che li accomuna: il rap.
Sample #2
A fine anni settanta, in mezzo alle rovine fumanti del Bronx, si era creato un fermento artistico e culturale — capeggiato dalla trinità riverita in tutti i testi sacri: Kool Herc, Grandmaster Flash e Afrika Bambaataa — che ruotava attorno a una strana specie di non musica, non suonata e non cantata. Il perno erano i DJ, che creavano tappeti sonori campionando frammenti di canzoni dai vinili di altri artisti, insieme agli MC, che su questi tappeti facevano qualcosa che non era né parlare né cantare, e che era definito con una parola specifica: rap.
Nel 1979, la Sugarhill Gang, una crew costruita a tavolino da una lungimirante produttrice nera, Sylvia Robinson, dà alle stampe Rapper’s Delight, 14 minuti di rime saccheggiate da altri MC già attivi nella scena underground, rappate su una base ricavata da Good Times degli Chic.
Rapper’s Delight scatena il dileggio e l’odio dei padri fondatori, fedeli alle origini live e performative della loro creatura, ma dimostra anche che il rap ha le carte in regola per approdare al mainstream.
Infatti, nel 1986, arriva una seconda e più imponente fiammata, con la pubblicazione dell’album Raising hell dei Run DMC.
Dapprima, il singolo My Adidas, dedicato alle iconiche sneakers bianche, viene sapientemente sottoposto all’attenzione della Adidas dallo scaltro impresario Russell Simmons, produttore del disco nonché fondatore, insieme a Rick Rubin, della seminale etichetta Def Jam. Il risultato è una sponsorizzazione milionaria, oltre al record di posizionamento nelle classifiche generaliste per un singolo di musica rap.
Ma il vero successo arriva grazie a un’intuizione di Rick Rubin (che in seguito avrebbe prodotto dagli Slayer a Shakira, passando per Johnny Cash e i Mars Volta): è Rubin, infatti, a portare i Run DMC in studio per reincidere una cover di Walk this way degli Aerosmith insieme alla stessa rock band, in una fortunata formula mash-up che avrebbe anche, poco meritoriamente, rilanciato la declinante carriera di Steve Tyler e soci.
Viene girato un video, con un senso della metafora forse poco sottile, ma profetico.
I Run DMC, infastiditi dalla musica rock proveniente da una sala prove attigua, danno vita a una guerra a colpi di volume contro i vicini, finché il muro che li separa non viene sfondato:
“Dietro il muro trovano […] Steve Tyler con indosso la stessa mise idiota da mago-elfo che portava l’ultima volta che qualcuno l’ha degnato di qualche attenzione […] ma… i Run DMC decidono che a loro questa roba piace, e i due gruppi uniscono inaspettatamente le loro forze.”
Nonostante i propositi bellicosi, i Run DMC finiscono per imbastire una jam insieme ai vecchi ma pur sempre tosti Aerosmith, con cui infine celebrano una sacra unione in nome di non si sa bene cosa (probabilmente dei milioni che tutti avrebbero guadagnato). È il botto.
Con il video di Walk this way frana l’argine che MTV aveva fino quel momento opposto al rap, ma soprattutto comincia a crollare la barriera razziale che lo aveva precluso all’attenzione del pubblico bianco.
Sample #3
Quando Wallace e Costello decidono di scrivere Il rap spiegato ai bianchi, non si può dire che abbiano scovato una gemma grezza. Tuttavia, in quanto musica nata e fatta da neri a uso e consumo di altri neri, e nonostante il crescente successo commerciale anche presso gli “shock-hungry white teenagers”, l’hip hop nel 1989 manteneva solide barriere all’ingresso.
Il fascino che l’ultima black music esercita sui due bianchissimi intellettuali ventiseienni è ostacolato — ma anche stimolato — dal colore della loro pelle, ostacolo che si traduce nel problema di come entrare in contatto con quel mondo.
Ecco cosa accade infatti a Roxbury, emblematico quartiere “difficile” di Boston, quando Wallace e Costello si mischiano al pubblico per assistere, unici e intimoriti bianchi, a un concerto di Slick Rick:
“Era impossibile incrociarne gli sguardi: mettevano sempre a fuoco qualcosa alle nostre spalle. La gente ci urtava senza ostilità e senza chiedere scusa […] Non raggiungevamo neppure la dignità di intrusi: la nostra presenza era così vistosa che diventavamo invisibili.”
Quando tentano di attaccare discorso a qualche addetto ai lavori, presentandosi come due saggisti dall’aspetto e i modi informali, il risultato è più o meno lo stesso. Finché:
“Ai Vs. ricercatori si è accesa improvvisamente la lampadina […] assumere l’identità bidimensionale di ‘Intellettuali/Scrittori’ , essere come poteva vederci un alieno, la cui unica via d’accesso al nostro mondo era la rappresentazione mediatica.”
Per prendere consistenza, come per magia, ed essere finalmente ascoltati, i due devono incarnare uno stereotipo, con tanto di “toppe di pelle sui gomiti delle giacche di tweed”. È questa l’unica strategia che Wallace e Costello trovano per uscire da una condizione di invisibilità.
Una delle questioni chiave nel Rap spiegato ai bianchi è quella della rappresentatività sociale del rap, questione particolarmente complessa sia per l’evidente connotazione razziale del genere, sia per il peso dei mezzi di comunicazione di massa, che molti rapper hanno dimostrato di saper usare alla perfezione, lucrando su stereotipi che teoricamente avrebbero dovuto danneggiarli (vedi, per esempio, gli N.W.A.).
Forse, l’insistenza dei rapper nel rappresentarsi tramite stereotipi — soggetti pericolosi proprio come li vedeva l’opinione pubblica — era una strategia identica a quella di Wallace e Costello, necessaria a essere finalmente visti.
Sample #4
Il titolo originale del libro è Signifying Rappers, omaggio al pezzo di un rapper di Filadelfia, Schoolly D, uno dei più hardcore sulla scena dell’epoca, caratteristico miscuglio tra duro di strada e militante.
Signifying rapper, costruito sul groove di Kashmir dei Led Zeppelin, è un pezzo non proprio rappato, che somiglia più a una declamazione o a una spoken word.
Nella canzone, Scholly D racconta di quando, per la strada, subiva in continuazione le vessazioni di un odioso pappone, ma non potendo competere sul piano della violenza, decide allora di usare l’arma dell’astuzia. Così Scholly D racconta al pappone che c’è un tizio, “una checca, grande grossa e incazzata”, che se ne va in giro a dire cose terribilmente ingiuriose sul pappone e su tutta la sua famiglia, nonni inclusi. Allora il pappone, aizzato dal rapper, va a cercare il nemico per reclamare giustizia ma, quando lo trova, tutto ciò che ottiene è un sonoro pestaggio. Il pezzo si conclude con il pappone che torna malconcio nel quartiere, dove trova Schoolly D che nel frattempo si è preso tutte le sue donne, e che lo liquida, infine, con una battuta sprezzante.
Questa fiaba di strada vede come protagonista una versione urbana della signifying monkey, la scimmia messaggera della mitologia degli Yoruba, una popolazione dell’Africa occidentale. (Nella versione originale, la scimmia raggira il leone portandolo a scontrarsi con l’elefante.) A sua volta, la scimmia messaggera si lega alla figura di un trickster popolare, ossia:
“Legba, l’‘uomo blu’ ricordato dalle leggende a sfondo didattico della tradizione Yoruba, uno spiritello/diavoletto la cui prerogativa è superare in astuzia chiunque si trovi davanti […] Un circolo storico si chiude: questo genere musicale… torna a esercitare la sua funzione più radicata e probabilmente più forte: quella di raccontare storie.”
L’hip hop può dunque offrire letture del presente attingendo a fonti ben più lontane, nel tempo e nello spazio, rispetto a un quartiere degradato di un’odierna metropoli americana.
Sample #5
Wallace mette spesso a confronto il rap con altri generi musicali:
“…nella storia della musica pop… lo slang, i doppi sensi e perfino l’implicito uso neologistico di parole innocue sono stati utilizzati per rendere i testi delle canzoni abbastanza espliciti o scioccanti per essere ‘rock’ e al tempo stesso adatti alla programmazione radiofonica — ad es: ‘Baby I love you/I’d love to love you’ equivale a ‘Baby, here is my dick/I’d just love to fuck you’…”
Invece, Chuck D dei Public Enemy, con il verso:
“‘I show you my gun/My Uzi weights a ton’ […] sostiene che la parola ‘Uzi’ — che è, certo, il significante di un vero tipo di arma da massacro… non è altro che un metonimo in funzione autoreferenziale…”
In altre parole:
“…la canzone stessa, diventa il vero referente profondo nei testi dal significato pluristratificato a cui deve ricorrere ogni tipo di musica che voglia godere tanto i favori di un pubblico affamato di trasgressione quanto di un’industria dello spettacolo estremamente conservatrice.”
Ma l’idea che l’hip hop porti la violenza all’interno del suo mondo metaforico (o metonimico) togliendola da quello all’esterno è appesa a un filo sottile.
Sample #6
“Presto i pubblicitari del rap si troveranno a dover affrontare un problema […] Ogni possibile gesto scioccante, sessuale o violento che sia, sarà stato simbolicamente ‘compiuto’ […] Il risultato: il nostro primo snuff record, un album rap durante la cui realizzazione, correrà voce, qualcuno è morto veramente. Gli editorialisti resteranno sgomenti, consentendo così ai nuovi snuff rappers di fare un en plein di pubblicità gratuita…”
Quella dell’incolpevole Costello è una provocazione che gioca sull’iperbole, ma ripensando alla successiva beef tra Tupac Shakur e Biggie Smalls, cominciata con una presunta rapina sfociata nel tentato omicidio di Tupac, avvenuta proprio in uno studio di registrazione, faida proseguita con il suo assassinio e, pochi mesi dopo, con quello del rivale Biggie, la frase assume il sapore di una macabra profezia.
Considerando poi quanta benzina la stampa ha gettato sul fuoco, amplificando qualsiasi accusa e congettura, e quanto le case discografiche (la Bad Boy di Puff Daddy e la Death Row di Suge Knight in primis) hanno lucrato sulla rivalità prima, durante e dopo la morte delle due loro stelle più brillanti, la profezia suona ancora più sinistra.
Un’immagine parziale e basata su stereotipi, l’unica a essere veicolata dai media di massa e dunque l’unica a essere compresa dal pubblico, ha travolto due rapper di strada, trasformandoli nei gangsta che tutti, inclusi loro, volevano che fossero. (Lo stesso meccanismo si vede all’opera nella serie TV Atlanta, incentrata sulle vicende di un rapper ma soprattutto del suo manager/cugino, interpretato da Donald Glover che è anche l’ideatore, lo sceneggiatore e a volte il regista della serie, oltre a essere Childish Gambino.)
Fade out
Il rap spiegato ai bianchi è un tentativo, in buona parte fallito, di interpretazione critica dell’hip hop azzardato da due outsider folgorati dal genere musicale.
Il libro fallisce per via dello scarso contatto degli autori con la scena musicale, per le falle nelle discografie riportate, per gli errori di trascrizione dei testi, e per il grande peso attribuito ad alcuni rapper che saranno presto dimenticati (Schoolly D), a scapito di altri a cui invece la storia darà più credito (Eric B. & Rakim e gli ingiuriati Beastie Boys, per esempio).
Soprattutto, una perorazione pro hip hop, in più appesantita dal continuo chiedersi quale diritto abbiano i due autori, in quanto bianchi, di immischiarsi nelle faccende di un mondo a cui si sentono estranei, oggi suona inutile e fuori bersaglio.
Ma è pur vero che, proprio negli ultimi anni, medie e grandi produzioni si sono dedicate a raccontare la storia dell’hip hop appassionando anche un pubblico generalista e internazionale, storicamente estraneo al genere (tra le serie The Get Down, tra le docuserie Hip Hop Evolution, tra i film Straight outta Compton).
Forse, nel 1989, semplicemente i tempi non erano ancora maturi, ed era troppo presto perché Il rap spiegato ai banchi potesse essere l’anello di congiunzione che i suoi autori desideravano fosse.