Campagne invisibili
In Europa e negli Stati Uniti, in particolare nell’era pre-Internet, complice la lingua, le voci dei jihadisti sono sempre arrivate, quando lo hanno fatto, di seconda mano, filtrate e poi tradotte da media — legittimamente — ostili. Quella propaganda era fondamentale per attirare consensi, reclute e finanziamenti, ma persino nei paesi arabi doveva quasi sempre muoversi su canali non ufficiali. Del resto, non erano molti i giornalisti ben accetti o lieti di raggiungere i combattenti nei teatri di guerra per intervistarli (ammesso che fosse possibile).
L’autoproduzione jihadista di audio e video di propaganda, prima su cassette e CD, poi via web, ha sempre giocato un ruolo poco visibile in Occidente, ma vitale per i fondamentalisti. Alcuni hanno usato i media letteralmente come armi: il leader delle forze rivali dei talebani nella Guerra civile afgana, nonché ministro della difesa sotto Rabbani, il comandante Massud, fu ucciso il 9 settembre 2001 da due kamikaze che si finsero reporter, nascondendo l’esplosivo dentro la telecamera. Sembra sia stato il prezzo pagato in anticipo da al Qaida ai talebani in cambio dell’ospitalità dopo l’11 Settembre.
La comunicazione, e soprattutto la trasmissione dell’esperienza di guerra, è parte integrante del jihad, perché permette di riferire le proprie azioni a quelle di illustri predecessori: attraverso le citazioni dei dotti, che chiamano in causa le parole dei saggi, che rinviano alle sure del Corano, trasmesse a Maometto direttamente dal dio, si esprime la continuità, quindi l’unità, di una tradizione e di una religione. Anche il lavoro di registi e pubblicisti è jihad.
A Khattab è generalmente riconosciuto un ruolo di pioniere della comunicazione jihadista, uno dei primi a servirsi, oltre che delle vecchie fatwa testuali e dei memoriali scritti, di video montati con tanto di logo in sovrimpressione, nonché di audiodiari (simili forse a quelli che oggi sono i podcast). Questi al grande pubblico non sono arrivati, però chiunque, europeo o americano, ha bene in mente la faccia di bin Laden anche dieci anni dopo la sua morte: prima dell’11 settembre, grazie alle interviste concesse, o richieste, al saudita Jamal Kashoggi e all’americano Peter Arnett; dopo, con le prediche registrate dalle grotte afgane o dai rifugi in Pakistan messe in circolazione su videocassetta.
Se all’epoca della televisione potevano esserci molti livelli di filtraggio, il web ha reso impossibile impedire la diffusione delle produzioni jihadiste — al massimo permette di rallentarla — ed ecco, negli anni successivi, le decapitazioni e le tute arancioni in Iraq ricevere milioni di visualizzazioni. Daesh, lo Stato islamico, con le sue agenzie stampa impegnate a creare e diffondere contenuti con mezzi e competenze all’altezza dei tempi — usando tra l’altro codici e stili che più occidentali non si può — ha solo fatto l’upgrade di una pratica che già era diffusa e anzi, era centrale per la sopravvivenza del jihadismo internazionale.
L’attivismo di Khattab farà sì che nel 1996 egli stabilisca il primo contatto diretto con Osama bin Laden, che nel frattempo è riparato in Afghanistan, espulso dal Sudan dove hanno ridotto sul lastrico la sua creatura. Bin Laden ha dissanguato al Qaida per pagarsi la permanenza a colpi di mazzette e investimenti nelle infrastrutture sudanesi, finché alla fine lo hanno cacciato comunque. Osama sta cercando di stabilirsi a Tora Bora e di riallacciare buoni rapporti con gli eredi dei mujaheddin, quei talebani che hanno preso il controllo di quasi tutto il paese, tranne il nord, rimasto in mano a Massud. Benché stia ancora cercando di guadagnarsi la fiducia e l’appoggio del Mullah Omar, bin Laden non ha mai smesso di lavorare a un progetto più ambizioso di quello di Khattab, più vasto e totalmente immerso nella geopolitica: fare la guerra agli Stati Uniti.
Khattab pensa che lo sceicco saudita potrebbe garantirgli i soldi di cui ha bisogno, e in ballo potrebbe esserci l’affiliazione ufficiale alla nuova struttura invisibile che Osama sta costruendo con tanta tenacia.
Alcune fonti ritengono che nel ’95 Sheikh Fathi e Khattab fossero gli uomini di al Qaida in Cecenia e che a foraggiarli fosse la Benevolence International Foundation, un’organizzazione con sede a Boston. Nel 1997 al Zawahiri in persona viene arrestato in Daghestan ma non è chiaro se dovesse ancora varcare il confine con la Cecenia.
Nonostante combattano due Satana diversi, Russia e Stati Uniti, Khattab riporta che tra lui e bin Laden sembra esserci un’intesa, almeno di massima, ma che il dialogo finisce per interrompersi, forse per un problema di brand e di priorità. Gli indizi sono molti, ma le prove schiaccianti che al Qaida abbia sostenuto gli orientalisti ceceni sembrano mancare: le effettive fonti di finanziamento di Khattab si sono perdute tra le valli del Caucaso, nelle missive ricevute e subito distrutte e nelle scricchiolanti telefonate via satellite.
A prescindere dal sostegno di Bin Laden, la strategia funziona, i video girano e i fondi affluiscono. Quello che conta è trovare soldi, perché in Cecenia non mancano certo le armi: gli innumerevoli arsenali appartenuti alla defunta Unione Sovietica sono stati svuotati, riempiti e svuotati più volte e ora lanciarazzi, lanciagranate, bombe, mitra, pistole e munizioni passano per le mani di adulti e ragazzini.
Ma perché proprio la Cecenia?
Il lato più tragico e assurdo della situazione è che la Cecenia, grande quanto la Calabria, a metà anni Novanta non è nemmeno una zona strategica: non è ricca di petrolio e al massimo può fornire un corridoio per gli idrocarburi dell’Azerbaijan, mentre fuori da ogni legalità funge da snodo per i mercati neri di droga e armi, da cui è nata la mafia cecena. Ma la Cecenia incarna soprattutto l’ossessione russa di crollare e dissolversi: per lo stato federale, quel lembo sperduto di Caucaso diventa l’ultimo appiglio a cui aggrapparsi per salvare dall’oblio, per l’ennesima volta, l’idea stessa di Russia. Nel frattempo, il paese è eroso all’interno dalle lotte fra oligarchi e da un apparato corrotto fino ai livelli più bassi, dove la vita quotidiana per milioni di cittadini è resa impossibile dall’instabilità di lavoro, prezzi e moneta. Uno stato minimamente sano non può fondarsi su basi simili, cerca di dire la Politkovskaja. Nessuna democrazia può accettare una cosa come la guerra cecena.
Sentieri di guerra
I russi proseguono la campagna militare con bombardamenti aerei approssimativi, mentre a terra continuano le spedizioni punitive, i sequestri di persona e le rappresaglie ai danni dei civili accusati di connivenza con i separatisti. Ai primi di giugno del 1995, un bombardamento su Dyshne-Vedeno uccide alcuni familiari di Šamil Basaev il quale, nemmeno due settimane dopo, guida il sequestro di centinaia di civili all’ospedale di Budyonnovsk, su suolo russo. Oltre un centinaio di ostaggi perdono la vita, uccisi a sangue freddo dai ceceni o dal tiro incrociato di assedianti e assediati. Alla fine Basaev riesce a strappare un accordo al Primo ministro russo Viktor Černomyrdin, il quale si impegna a sospendere le operazioni militari.
Basaev rappresenta l’ala più dura della guerriglia indipendentista, più intransigente tanto di Aslan Maschadov, Capo di stato maggiore sotto Dudaev e prossimo successore alla presidenza, quanto di Achmat Kadyrov, altro importante leader militare nonché Gran muftì della Cecenia. Per ora è Maschadov a guidare i colloqui di pace che portano al cessate il fuoco e al ritorno a casa di molti combattenti, mentre i gruppi più radicali, tra cui quelli legati a Basaev, rimangono attivi.
Dell’incontro tra Basaev e Khattab, che dovrebbe risalire ai primi mesi del 1995, non si conoscono i dettagli, ma è certo l’esito: Basaev non ha intenzione di accodarsi a quelli che cercano la pace a ogni costo e la sua prospettiva comincia ad avvicinarsi a quella utopica di Khattab: un jihad infinito, che non si fermi all’instaurazione del califfato caucasico ma che prosegua fino alla liberazione di tutti i musulmani oppressi, ovunque si trovino. Le tradizioni cecene non bastano e non contano più: la shari’a e il jihad definiscono gli unici orizzonti possibili per un popolo tradito da tutti.
In estate, Dudaev insegue il crescente consenso degli islamisti radicali rinnegando gli accordi di pace e per tutta risposta la Russia prova a ucciderlo. La reazione dei russi è comprensibilmente rabbiosa, ma peggiore è l’ipocrisia che impedisce loro di vedere dove nasca l’orrore dei ceceni che usano gli ostaggi come scudi umani. Inoltre, Dudaev vorrebbe la pace con i russi, che intanto insediano a Grozny il governo fantoccio di Zavgaev, ma dietro la spinta dei gruppi più duri non può chiederla a ogni costo. Le operazioni militari riprendono ufficialmente.
Gli arabi di Khattab cominciano a far sentire il loro peso anche militarmente: la prima operazione ha luogo nei pressi di Kharachoi, dove i jihadisti assaltano un convoglio militare distruggendo cinque veicoli e uccidendo una quarantina di soldati. Il successo tra i ceceni è esplosivo, secondo Khattab, che riferisce scene di giubilo in cui le persone per tre giorni consecutivi non fanno altro che takbīr, ossia proclamare la grandezza di dio con le due parole appena apprese dagli arabi: Allāh akbar. Sempre più giovani cominciano a radersi il cranio a zero e a farsi allungare la barba, unendosi a quello che Khattab battezza “Esercito islamico”.
A Samashki, nell’aprile del 1995, oltre cento persone erano state uccise dall’esercito federale perlopiù in esecuzioni sommarie, alcune addirittura arse vive. La divisione nota come “Scorpione”, famigerati boia dell’esercito federale provenienti dall’Ossezia, erano tra gli artefici di quel massacro, secondo Khattab. I russi, spiega, per le azioni più brutali sono soliti usare brigate provenienti da altri paesi non perché queste garantiscano un sovrappiù di ferocia a stupri e saccheggi rispetto a loro: è che così facendo possono addossare una quota di nefandezze a un’altra parte, accendendo una miccia ulteriore che porti a scontri fra caucasici.
Il gruppo di Khattab incrocia gli uomini dello Scorpione a Yaryshmardy, al centro di una gola nei pressi di Shatoi — altra cittadina tristemente nota per i massacri reiterati — incolonnati in una carovana militare che conta un centinaio di veicoli. Gli osseti si trovano proprio nel punto in cui Khattab e i suoi hanno deciso di attaccare: l’obiettivo è spezzare la colonna, mettendo in fuga la prima metà dei convogli e chiudendo la strada alla seconda. Quando parte l’assalto, gli uomini dello Scorpione combattono all’inverosimile, racconta Khattab, perché sanno che se i ceceni li catturano li bruciano vivi. Gli arabi perdono diversi elementi, ma fanno un centinaio di morti e l’operazione, filmata secondo il metodo Khattab, rappresenta il più grande trionfo degli arabi finora. Alla fine del video si vedono alcuni veicoli in fiamme, ma Khattab non dice se la vendetta contro gli uomini dello Scorpione sia stata consumata.
Dopo essere arrivato tardi in Afghanistan e non aver combinato nulla in Tajikistan, ora finalmente il sogno di Khattab si è avverato. All’inizio del jihad ceceno, alcuni compagni lo avevano accusato di amare troppo il combattimento, al punto di inventarsi cause che non esistono. Ma Khattab, un venticinquenne malato di avventura e forse di mente, imbevuto di trita retorica fondamentalista, non è mai stato più felice.
Nell’aprile del 1996, dopo vari tentativi, i russi intercettano il telefono usato da Dudaev e riescono a ucciderlo con due missili, senza mai ammettere il fatto. Il suo vice, Zelimchan Jandarbiev, diventa il nuovo presidente. Jandarbiev tratta con i russi, ma allo stesso tempo prova a fare come se uno stato esistesse davvero, introducendo un codice penale che accoglie in buona parte la shari’a.
Tra il 6 e il 22 agosto 1996, durante due settimane di guerriglia urbana a Grozny e di attentati terroristici fuori dalla Cecenia — l’Operazione jihad, a cui Khattab partecipa con i suoi — le milizie russe lasciano sul campo circa duemila uomini e rimangono intrappolate nelle basi militari. I russi accerchiati sequestrano civili da usare come pedine di scambio e qui la situazione esce da ogni controllo, con l’esercito russo che devasta Grozny a colpi di artiglieria.
Maschadov, subentrato al defunto Dudaev, riesce a intavolare una trattativa con l’unico tra gli uomini di Mosca davvero disposto a uscire dalla Cecenia senza condizioni, il generale Lebed’. Lebed’ ha chiesto pieni poteri a El’cin così da tornare a casa con dei veri accordi di pace, e lo fa. L’esercito si ritira e gli ultimi russi rimasti nel paese — quelli che non vengono uccisi — fuggono definitivamente. La terza battaglia di Grozny in neanche un anno e mezzo lascia una città devastata, ma tempo pochi mesi la Prima guerra cecena è detta conclusa da Mosca.
I ceceni però non si fidano e, racconta Khattab, si uniscono sempre più volentieri alla sua macchina da guerra. I soldi che arrivano riescono a sostenere l’espansione delle scuole religiose e dei campi di addestramento, che ora ospitano fino a quattrocento reclute per volta. Nasce quello che pomposamente è battezzato “Istituto caucasico per la da’wa e i dawat”. Il campo, ricorda Khattab, sembra un alveare dove non si sa chi entra e chi esce, e non sono più soltanto ceceni, ma vengono anche dall’Inguscezia, dalla Cabardino-Balcaria, dal Dagestan. In giro non ci sono opportunità, specie per i giovani, che hanno come unica alternativa al jihad l’affollare i campi profughi nei paesi confinanti. Khattab fa in modo di dare a tutti qualcosa da fare, perché pensa che sia cosa turpe, e soprattutto pericolosa, avere in giro decine di nullafacenti armati fino al collo.
Ossessionati dal bisogno di stringere buone relazioni con i locali, ammette candidamente Khattab, lui e gli altri arabi sposano donne daghestane e cecene cosicché, una volta dimostrato il loro attaccamento alla terra, possano dedicarsi serenamente alle operazioni militari. Khattab cerca sempre di evitare accuratamente le beghe con i locali, tanto che alcune squadre di ceceni sono incaricate di fare spese per tutti, evitando agli arabi di trattare con i venditori al mercato. Nonostante le attenzioni, però, i dissidi sono frequenti e capita che Basaev gli chieda di mediare tra gruppi in lite.
Dai resoconti che ne dà Khattab, questi episodi suonano sempre incompleti, frutti monchi di una strana reticenza. Khattab stesso, a un certo punto, dice che non c’è davvero bisogno di parlare di queste storie, che se fossero state importanti avrebbe già discusso in uno dei suoi audio. Stando ad altre fonti, sembra certo che in almeno un’occasione gli arabi siano stati affrontati in maniera dura dalla milizia di un villaggio vicino a un accampamento, per il motivo che i jihadisti avevano cominciato a pretendere che in paese fossero adottati i rigidi costumi wahhabiti, in particolare dalle donne. La da’wa, il misto di educazione e propaganda islamica che Khattab vuole portare ai ceceni, sembra incontrare una certa resistenza nella popolazione locale.
In un’altra occasione, in seguito a non meglio precisati “grossi” problemi, sempre Basaev va da Khattab su ordine di Maschadov e addirittura gli promette che, se ci saranno ulteriori complicazioni, sarà lui stesso a sparagli dalla trincea di fronte. Khattab gli risponde angelicamente di essere lì per servire Allah e la gente di Basaev, non sé stesso. Lui non ha bisogno del jihad, dice, forse rispondendo a un’accusa che gli è stata mossa altre volte.
Khattab insiste parecchio sul fatto che Basaev sarebbe stato spesso persuaso dalla sua forza oratoria, forse perché vuole rivendicare la trazione araba del jihad ceceno. Ma a prescindere dal fatto che sia lui a influenzare Basaev o viceversa, resta vero che per entrambi il punto di vista politico consiste esclusivamente nella strategia militare. Dopo la Cecenia, l’intero Caucaso — o Kavkaz, o al-Qawqaz — dovrà incendiarsi e bruciare i nemici di Allah che opprimono i musulmani. È il momento che il jihad prosegua verso il Daghestan e, da lì, verso la Seconda guerra cecena.