Matushka Rossiya
Nel 1996 El’cin è riuscito a farsi rieleggere presidente promettendo una soluzione alla questione cecena, ma la pace ottenuta da Lebed’ suona come una sconfitta, tanto ai vertici dell’esercito e dello stato federale russo quanto all’opinione pubblica, interna ed estera, che ha visto l’esercito erede dell’Armata rossa impietosamente ridotto a mendicare. La salute sempre più precaria di El’cin e la spaventosa crisi economica del 1998 innescano una lotta per la successione dove torna in gioco la paura della dissoluzione russa.
Il 31 dicembre 1999, i russi che aspettano di sentire il discorso di auguri del presidente El’cin si trovano di fronte il suo giovane delfino Vladimir Putin. Il politico proveniente dai servizi segreti, che dall’estate ricopre la carica di Primo ministro, li avvisa di essere divenuto il loro nuovo presidente, in attesa delle elezioni che si terranno l’anno successivo.
Putin vuole che lo stato riprenda il controllo delle imprese e degli istituti che formano la base di una “nazione civile”, inclusa la grande stampa, garanzia della libertà di parola. I suoi avversari sono gli oligarchi miliardari e le loro aziende, che vuole sostituire con altre gestite da uomini che siano sì fedeli, ma prima di tutto a lui.
Alle prossime elezioni Putin intende affermarsi come un politico “della gente” in grado di battersi contro le bande che hanno in pugno il paese e le sue ricchezze, alle quali addossa la colpa per le condizioni in cui versano i cittadini. Per farlo gli serve una prova di forza, un mito fondativo sul quale costruire la sua statura di leader.
Nel 1999, le bombe di Buynaksk, Volgodonsk e poi Mosca danno il pretesto alla Russia per avviare ufficialmente l’Operazione antiterrorismo in Cecenia — che mai sarà definita guerra dal Cremlino — dopo la scia di attentati che hanno falciato decine di vittime, principalmente militari, poliziotti e relative famiglie. Alcune circostanze, tra cui movimenti sospetti di agenti del GRU e i tipi di esplosivi usati negli attentati — ma soprattutto il ritorno di immagine di cui ha goduto Putin come paladino della lotta al terrorismo — hanno portato molti a pensare che dietro vi sia stato il Cremlino.
Il senso di insicurezza dei russi, spaventati e impoveriti dopo l’ennesima crisi, risuona e si amplifica con la minaccia del terrorismo islamista dei ceceni, a cui i media danno grande risalto. La figura di un uomo forte che afferri le redini di un paese allo sbando, si staglia all’orizzonte ogni giorno più nitida.
Subito prima della promozione a presidente, in un’intervista Putin dichiara, riferendosi ai terroristi individuati come responsabili dei due attentati: “Anche se si nascondono al cesso, noi li annienteremo”. Il discorso rimarrà celebre per il linguaggio di strada, da gangster, che varrà a Putin uno scatto di popolarità fin negli ambienti criminali, storicamente ostili agli algidi burocrati di marca sovietica.
In un video si vedono ceceni smilzi e arabi barbuti in mimetica da neve che sghignazzano, indaffarati a preparare le armi in vista di un assalto. Khattab, seduto a terra, infila una pallottola dietro l’altra nel caricatore di un Ak-47, destreggiandosi bene nonostante il moncherino guantato: “Massacreremo i russi dappertutto”, dice con un gran sorriso in faccia alla telecamera, rispondendo direttamente a Putin, “ma non nei cessi. I nostri cessi sono puliti”.
Shahada
Maschadov prova a costruire un esercito ufficiale incorporando e organizzando i gruppi di separatisti, i cui leader ora reclamano poteri e cariche nel nuovo governo vantando la credibilità guadagnata sui campi di battaglia. La leadership del nuovo presidente è più debole di quella di Dudaev, che peraltro non era bastata a contenere gli islamisti radicali.
Di fronte alle pressioni per la smobilitazione, alcuni signori della guerra legalizzano i loro eserciti personali trasformandoli in società di sicurezza private. Diversi entrano nel business dei sequestri di persona: i giornalisti stranieri sono gli ostaggi più agognati all’alba del nuovo millennio, quando ormai i sequestri in Cecenia sono diventati un’industria. Capita che una banda di incappucciati salti fuori da un furgone senza targa e porti via qualche ignaro astante: a volte si tratta di uomini del GRU — il servizio segreto militare russo — che rapiscono colpevoli o semplici capri espiatori, altre di delinquenti organizzati.
L’esercito ceceno cattura alcuni uomini dell’FSB, infiltrati in Cecenia per raccogliere informazioni e gettare le basi di una milizia filorussa. In effetti, per i russi, smettere di combattere in Cecenia significa da anni soltanto togliersi le uniformi, non mostrare più le insegne, e continuare a sparare. Oltre a soffrire la vergogna della sconfitta, i vertici militari sanno che dall’altra parte si stanno formando nuovi eserciti. Gli arabi acquistano sempre più consensi, reclute e controllo su un numero crescente di cittadine e villaggi, soprattutto nell’Ichkeria più impervia.
I russi e i jihadisti si accusano reciprocamente per gli scontri che scoppiano in Daghestan e che subito investono anche la Cecenia. Il meccanismo della guerra è tanto brutale quanto stupido: ogni offesa è la compensazione per un torto o una ferita subiti, e anche di fronte alla schiacciante accusa di aver scatenato la Seconda guerra cecena insieme a Basaev, Khattab risponde: “Cos’altro potevamo fare? Volevano ucciderci tutti”.
La causa che Khattab e i suoi dicono di condividere con ceceni e daghestani è ora la liberazione dai sionisti, problema che gli abitanti delle montagne comprendono più difficilmente rispetto alla lotta contro un invasore.
L’Operazione antiterrorismo comincia dapprima con incursioni aeree, seguite da un’invasione che lascia sul campo decine di migliaia di morti. Grozny viene ridotta in macerie dall’ennesimo assedio scattato il 25 dicembre, dopo il quale i russi avanzano verso sud. Una massiccia campagna di bombardamenti nell’inverno del 2000 colpisce i distretti di Argun, Vedeno e Shatoi, verso il confine con il Daghestan. Stavolta i jihadisti non possono affrontare l’esercito della Federazione a viso aperto, la superiorità numerica e degli armamenti russi è schiacciante e il campo delle azioni possibili si restringe. Gli assalti alle colonne di camion e blindati prendono sempre più la forma di attentati, con l’uso di esplosivi radiocomandati la cui conoscenza è arrivata grazie ai contatti mediorientali. Ma il terrorismo ceceno si caratterizza per il ricorso a una risorsa inedita: le donne. Per un crudele paradosso, la maggiore libertà di movimento goduta dalle donne cecene rispetto a quelle afgane, unita alla scarsa considerazione in cui sono tenute, le rende armi perfette. Ignorate dai controllori, orfane e giovani vedove appena maggiorenni – private di ogni ragion d’essere sociale e manipolate dai reclutatori – vengono imbottite di esplosivo, a volte anche di farmaci, e mandate a uccidere e morire per motivi sempre più astratti.
L’adesione al wahhabismo di Basaev sembra sincera, mentre per molti signori della guerra minori ha solo valore di convenienza, proprio come la formale professione di fede comunista serviva ai ribelli del terzo mondo a guadagnarsi il sostegno sovietico. Quella al wahhabismo dovrebbe aprire la strada a finanziamenti esteri, principalmente sauditi, utili a condurre le proprie personalissime guerre, ma dopo l’11 settembre il sostegno internazionale al jihad trova l’inedita opposizione congiunta di Russia e Stati Uniti. Inoltre, sempre più ceceni sono stanchi di combattere e la svolta politica decisiva per le sorti del paese sta maturando, sotto forma del ritorno al sistema tradizionale – l’adat – fatto di clan – i teip – confraternite religiose sufiste – Naqshbandi o Qadari – e alleanze militari. Mentre vari gruppi, fra cui quelli di Doku Umarov e Achmat Kadyrov, lottano per la leadership, sui monti d’Ichkeria infuria la guerra.
In un video un soldato russo — un biondino di nemmeno vent’anni — guarda Khattab come un ragazzino guarda un adulto che sta per dargli uno schiaffo. Khattab lo fa sdraiare sulla neve indicando il terreno con la punta dell’Ak-47. Il corpo ossuto del soldato obbedisce, navigando dentro una divisa grigia diverse taglie troppo larga. Appena è ventre a terra, Khattab lo inchioda con una raffica di mitra, senza dire niente, senza lasciargli speranza.
Tra i soldati russi che guidano l’avanzata in montagna, dicono, si è diffusa la pratica di prendere gli scalpi ai guerriglieri ceceni, mentre nei villaggi l’esercito federale si dedica a odiose operazioni di polizia militare. A volte, durante una zacitska, ai soldati basta ricevere una bibita per risparmiare un uomo, o non riceverla per massacrare una famiglia intera.
Anna Politkovskaja continua a raccontare il disonore russo, ispezionando le piaghe scavate da crimini di guerra ripetuti e impuniti. Mentre denuncia fatti e persone, cerca anche di avvertire i russi che il loro Paese non potrà tornare indietro da quell’orrore. Il governo di Putin, un imponente apparato di sicurezza che si regge sulla corruzione sistematica, tratta i propri cittadini non meno crudelmente che i nemici stranieri.
Nell’estate del 2001 le operazioni russe sono guidate da Patrushev, il direttore dell’FSB, che si concentra sull’eliminazione dei leader della guerriglia tra i quali Khattab. Questi, nel frattempo, insieme a circa un migliaio di combattenti si è separato dalle truppe di Basaev ed è inchiodato da bombardamenti e incursioni nelle valli intorno a Shatoi.
La situazione si fa sempre più complicata. Non avendo un campo base, i jihadisti possono contare solo su ciò che portano negli zaini, e ad aggravare la situazione ci sono l’inverno rigido e la neve alta: presto cominciano ipotermie, fame, febbri e dissenterie. Di notte la temperatura è gelida, ma il rischio di essere individuati dall’aviazione russa, che proprio col buio intensifica i raid, impedisce di accendere fuochi. Khattab divide gli uomini in piccoli gruppi, ciascuno con il suo amir, mossa che può consentire a più combattenti di salvarsi ma che rende più probabili gli scontri. Ridotti alla fame, quando i jihadisti trovano gruppi di case incustodite le saccheggiano. I frequenti scontri a fuoco decimano gli uomini, diversi amir perdono la vita e Khattab stesso si attarda per cercare di seppellire i morti, senza riuscirci. In una sola battaglia, i russi perdono 75 soldati, mentre il suo gruppo conta 50 martiri e 100 feriti.
Esasperare la situazione contando sulla violenza della risposta, che produce altre vittime da arruolare alla causa: la strategia del terrorismo ha definitivamente alienato ai jihadisti le simpatie della popolazione, peraltro già controverse; ormai sono visti come portatori di una religione che vuole allontanare le tradizioni e cancellare le forme che l’islam ha preso tra quei monti verdi, che d’inverno si coprono di neve, così lontani dai luoghi del profeta. Le mimetiche bianche dei guerrieri di Allah portano ormai solo richieste di cibo, bombe e zacitsky. L’unicità di dio non sembra importare davvero a nessuno, quando le priorità esistenziali sono altre e il resto sono solo gusci vuoti di parole: “Dio ci ha promesso la vittoria o il martirio, che è anch’esso una vittoria”.
Putin ha capito, infine, come fare con i ceceni: la tecnica è la stessa usata dagli europei d’occidente, gli inglesi più di tutti, con i paesi colonizzati, ossia scegliere un leader locale con un suo seguito, investirlo di un potere assoluto e dotarlo di fondi illimitati, o comunque incomparabili con quelli dei rivali. Il prescelto è Achmat Kadyrov, uomo della vecchia guardia sopravvissuto all’epoca di Dudaev e posizionatosi, sul fronte separatista, contro i wahhabiti e a favore di un accordo con la Russia. A questo punto non rimane che eliminare le altre figure carismatiche che ancora resistono tra i separatisti, primi fra tutti gli orientalisti Basaev e Khattab.
Gli ultimi video di Khattab sono diversi da tutti i precedenti. Ora non lo si vede più pontificare circondato dai suoi manipoli, o in mezzo alle capanne di qualche villaggio sperduto: nei brevi frammenti pubblicati si trova circondato solo da fiumi e radure, in solitudine o al massimo con un compagno, più l’operatore. La stagione dei suoi trionfi è stata feroce ma breve, una serie di fiammate che Khattab riesce a raccogliere in alcune interviste che formeranno le sue memorie ufficiali, la sua eredità, l’anello che ritiene di aver aggiunto a un catena che idealmente risale dritta al dio.
Khattab non lesina dettagli sulle difficoltà e sugli errori commessi, ma solo per mostrare come abbia superato quelle prove, mentre gli aspetti controversi, che pure emergono, non sembrano turbare mai la sua fede nella bontà di scopi e metodi. Il suo impegno sul sentiero di Allah termina un giorno di marzo del 2002, quando, dopo essersi ricongiunto a un gruppo di combattenti, viene raggiunto da una lettera avvelenata.
Coda
Morto Khattab, il suo posto viene preso dal vice Al-Ghamidi, ma il cordone saudita va essiccandosi e il controllo del paese è sempre più saldamente nelle mani di Kadyrov e del suo braccio armato, i kadyrovtsy comandati dal figlio Ramzan. Al-Ghamidi viene ucciso nell’aprile del 2004, ma il mese successivo tocca a Achmat Kadyrov, assassinato da una bomba piazzata nello stadio dove partecipa a una cerimonia. Ramzan prende definitivamente le redini rinsaldando il legame che suo padre aveva stretto con Putin, grazie anche alla legge promulgata nel 2003 che consente ai soldati russi di votare in Cecenia.
Ciò che è rimasto della Cecenia è un paese devastato moralmente e materialmente, ed è con un senso di straniamento che i sopravvissuti cominciano a veder sparire le macerie provocate da un decennio di guerra. Città e villaggi rasi al suolo sono ricostruiti con una solerzia inedita in tutto il Caucaso e per le strade comincia a prendere forma una normalità mai vista, una ipernormalità. I centri urbani sono i nuclei da cui lo stato comincia a rinascere, stringendo d’assedio gli irriducibili nelle gole e nei boschi del Caucaso e poi spingendoli oltre confine, negli angoli più impervi dei piccoli e precari stati limitrofi.
Aslan Maschadov muore nel 2005 in circostanze non chiare: i russi lo trovano in un bunker ucciso da una granata, gettata, riferiscono, per errore.
Per circostanze mai chiarite esce di scena anche Šamil Basaev, nel 2006 : i kadyrovtsy reclamano la paternità della trappola esplosiva in cui il terrorista sarebbe finito, mentre i jihadisti sostengono si sia trattato di un altro incidente.
L’Operazione antiterrorismo si conclude formalmente nel 2008 ma intanto, sotto il buon governo di Ramzan, le associazioni cecene per i diritti umani sono mestamente liete di constatare che violenze, sequestri e omicidi si limitano a colpire chi se lo merita, ovvero chiunque si opponga a Kadyrov e alle sue bande. Natal’ja Estemirova, attivista dell’associazione Memorial, viene sequestrata e assassinata nel luglio del 2009, dopo che alla sua amica Anna Politkovskaja, come è più noto, nel 2006 hanno sparato in testa dentro un ascensore. Sulla sua morte non esiste una verità ufficiale credibile, ma in fondo è irrilevante: la Politkovskaja aveva sempre denunciato tanto la brutalità del regime di Putin quanto i crimini della dittatura cecena, e scoprire a quale dei due appartenessero i proiettili che l’hanno uccisa non sminuirebbe comunque la responsabilità diretta di entrambi.
Osama bin Laden, quintessenza del terrorismo islamico globalizzato, è sopravvissuto a Khattab per più di dieci anni. Ma già prima che fossero pronunciate le parole fatidiche “For God and country. Geronimo. Geronimo. Geronimo”, con cui comunicarono la sua uccisione direttamente al POTUS Obama, il jihad dello sceicco era recluso nei bunker pakistani e malesi. Nel mondo jihadista Osama era ancora una figura autorevole, ma distante dai teatri di guerra iracheni e mediorientali devastati dalla war on terror. Il più longevo membro di spicco della vecchia guardia qaidista è stato l’egiziano Ayman al Zawahiri, ucciso in Afghanistan da un drone americano soltanto nel 2022, un anno dopo il fallimentare ritiro degli USA dal paese.
Eredità di un amir
Diversamente da al Qaida, piuttosto che cercare adepti per la sua causa cosmica in giro per il mondo, Khattab ha ripreso la lezione afgana cominciando dal particolare, ossia provando a innestare il seme del jihad in una guerra indipendentista oltretutto condivisa, almeno in linea di principio, persino in Occidente. Solo che la causa è diventata, o forse era sempre stata, solo un pretesto, perché Khattab ha finito per trasformarla in una lotta eterna del Bene contro il Male. Il nemico era Satana, che agiva per mezzo non solo dei russi, ma di chiunque si opponesse ai sedicenti mujaheddin. Khattab ha provato a instillare, in parte riuscendoci, il germe del fondamentalismo islamico nelle ferite di un paese in guerra, la Cecenia, trovando nuova linfa a cui attingere perché si diffondesse a sua volta. Ma il contatto con le popolazioni e i loro bisogni reali era stato soltanto incidentale, dopodiché il suo jihad non poteva che fallire. Una parte della sua eredità è comunque sopravvissuta nella principale strategia di qualsiasi branca del terrorismo fondamentalista islamico: radicarsi in conflitti preesistenti, come in Afghanistan, in Palestina, in Cecenia, in Iraq, in Siria, in Somalia, in Nigeria, in Mali, ma anche tra i musulmani abbandonati nelle carceri e nelle Molenbeek d’Europa.
Khattab ha confermato la lezione afgana anche da un punto di vista tattico: con pochi mezzi è possibile inchiodare un nemico più attrezzato in una guerriglia sanguinosa. Ha dimostrato tutta la forza della propaganda e negli anni successivi, con lo sviluppo dei social network, l’Isis ha fatto tesoro dei suoi insegnamenti sull’uso di video e la creazione di brand. Khattab e i suoi hanno anticipato anche l’uso simbolico e provocatorio del terrorismo che Bin Laden farà nel 2001 con le Torri Gemelle, il casus belli decisivo per la storia del ventennio successivo. Stragi come quella del Nord-Ost al Teatro Dubrovka di Mosca, o della Scuola numero 1 di Beslan, nell’Ossezia del Nord-Alania – uno di quei minuscoli stati ricomposti dalla spaccatura di entità più grandi operata sistematicamente dalla Russia – provengono dallo stesso arsenale tattico e ideologico.
Le vittime principali di tutte queste guerre sono state le donne, che nelle varie vicende non compaiono mai ai piani decisionali, ma soltanto nei livelli operativi più bassi, come le vedove nere cecene, oppure nelle vesti preziose e infelici di testimoni, come Natal’ja Estemirova e Anna Politkovskaja. Ma il prezzo più alto per queste guerre tra uomini è pagato dalle donne afgane, che si trovano di nuovo confinate a un ancestrale ruolo domestico, praticamente prive di diritti in un paese poverissimo e isolato dal consesso internazionale.
Infine, è impossibile scindere Khattab dall’Arabia Saudita: i suoi contatti in patria gli hanno portato simpatie e finanziamenti indispensabili, nonostante l’opposizione formale della monarchia. La logica grottesca e arbitraria delle relazioni internazionali, però, ha sempre fatto sì che l’Arabia Saudita godesse di uno status di intoccabilità, grazie al controllo sul petrolio e in virtù del suo rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, che a loro volta hanno un diritto di impunità quasi totale, come la Cina contesta ormai da tempo.
In questo 2022, gli occhi dell’Occidente sono puntati su Russia e Cina, ma la prossima crisi epocale potrebbe avere al centro proprio l’Arabia Saudita, culla del wahhabismo e di Amir Khattab.
(Alcune parti del testo sono entrate a far parte, in corso d’opera, di La prima guerra di Vladimir Putin.)
Fonti
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S. Shuster, Yuri Kozyrev: Photographing 15 Years of Chechnya’s Troubled History
M. Specter, Russia’s Public Enemy No. 1 Takes Charge in Chechnya
M. Strzelecki, Terrorism in the Russian Federation: Fear and Threat or Tool and Opportunity?
M. Tulanti, “Io, messia della terra cecena”, intervista a Džochar Dudaev
L. Vidino, The Arab Foreign Fighters and the Sacralization of the Chechen Conflict
J. Wilhelmsen, When separatists become islamists: the case of Chechnya
J. Wilhelmsen, Between a Rock and a Hard Place: The Islamisation of the Chechen Separatist Movement
L. Wright, Le altissime torri
Le memorie di Khattab e alcuni documentari su di lui sono facilmente reperibili online, ma trattandosi di materiale propagandistico si preferisce non dare riferimenti più precisi.