Caucaos
Il versante settentrionale del Caucaso è un’area di dure lotte indipendentiste: popoli con lingue, culture e religioni differenti rispetto all’ingombrante Madre Russia abitano territori che, ricaduti sotto stati diversi, hanno più volte visto disgregarsi e frammentarsi le appartenenze.
Nel Diciannovesimo secolo lo zar Nicola I represse il sedizioso Imamato del Caucaso guidato dal leggendario Šamil, per il quale combatterono daghestani e ceceni. L’Imam Šamil incarnerà una figura mitica per i ceceni, la cui identità si arroccherà, come la sua guerriglia, sulle dure pendici del Caucaso, nella parte meridionale del paese che prende il nome di Ichkeria.
Con la Seconda guerra mondiale, ceceni e ingusci si ribellano di nuovo, stavolta all’Unione Sovietica. Occupati dai nazisti che nel frattempo hanno invaso l’URSS, successivamente sono accusati di collaborazionismo, pretesto valido per una durissima repressione. Entro il 1944 quasi l’intera popolazione della Cecenia — circa 400.000 persone — viene deportata in Siberia, da dove i sopravvissuti tornano solo dopo la morte di Stalin, quasi dieci anni dopo. Lo sradicamento sistematico delle popolazioni, lo spingere alla frammentazione e all’alienazione politica tanto da non poter essere che cittadini di classe b, c, o zeta, ossia sudditi dell’impero, è una prassi politica antica in Russia.

Nemmeno un mese dopo il Putch di agosto, il colpo di stato tentato da Boris El’cin nel 1991, in Cecenia viene defenestrato il rappresentante del PCUS ed eliminato il grosso dei funzionari di partito. Dopo aver proclamato la fine della Repubblica Autonoma dell’Unione Sovietica Ceceno-Inguscia, a prendere il potere è una fazione di militari capeggiata dal generale dell’aviazione Džochar Dudaev. Una parte del paese, l’Inguscezia, si separa e torna sotto la Federazione russa, per difendersi dall’aggressione della vicina Ossezia alla quale poi verrà annessa. La Cecenia invece rimane da sola a vedersela con il gigante ormai ex sovietico.
L’apparato statale della Cecenia, in quanto repubblica satellite, conta al suo interno migliaia di burocrati e militari russi che vivono in un paese diventato straniero. Prende così il via l’esodo di intere famiglie in fuga dalle violente rappresaglie che si accendono ovunque, con l’eccezione del nord e dell’area di Grozny. Il vecchio stato si dissolve ma non ce n’è uno nuovo pronto a sostituirlo: il risultato è una corsa ad accaparrarsi qualunque tipo di risorsa in un clima di impunità e insicurezza generalizzate.
La reazione militare di Mosca, spaventata dal rischio che la rivolta cecena contagi altre Repubbliche sorelle, è violenta e immediata ma del tutto impreparata. Nasce anche un’opposizione a Dudaev, alimentata dalla stessa Russia, e i ceceni si dividono in filorussi e separatisti, questi ultimi a loro volta divisi in gruppi con priorità ideologiche, militari ed economiche diverse. I più sono ex soldati dell’Armata rossa che vorrebbero fondare uno stato ceceno, mentre alcune bande, soprattutto più giovani, vedrebbero di buon occhio l’instaurazione di uno stato islamico: la religione è stata, nell’ultimo secolo e mezzo, uno dei fattori — insieme alla lingua e alle tradizioni — che ha tenuto uniti i ceceni separandoli dai russi.
Mentre il paese è stretto tra il conflitto con la Russia e una guerra civile strisciante, alcuni ex militari si affermano come narcotrafficanti e contrabbandieri che commerciano e si alleano con una fazione o l’altra, secondo convenienza. Dudaev scioglie il parlamento e impone la legge marziale, ma la Cecenia precipita nel caos.
La giornalista italiana Maddalena Tulanti intervista il leader separatista Dudaev per L’Unità del 12 Dicembre 1994, presentandolo con riverenza: “Pilota di bombardieri nucleari e cintura nera di karate, conosce sei lingue oltre al ceceno materno: il russo, il kazako, l’estone, l’ucraino, l’uzbeko e l’inglese. Viene considerato una persona dura, energica, comunicativa, con una grande forza di volontà”.

Nel corso dell’intervista Tulanti obietta a Dudaev: “Della Cecenia si parla malissimo. Che è un covo di banditi che nasconde la mafia…”. Dudaev: “Anch’io ho letto tante cose cattive sull’Italia, eppure so che non è così. Quello della mafia cecena è un mito inventato di sana pianta per discriminare il mio popolo. Agli usurpatori serve sempre un fattore su cui speculare. Dopo la mafia hanno inventato il fondamentalismo islamico, cosa avranno in comune Dio solo lo sa. Quando si è sciolta l’URSS, mentre in Russia non nasceva nessun potere legittimo, in Cecenia invece costruivamo uno Stato di diritto. Oggi si vede distruggere questo stato”.
Quanto a cosa voglia la Russia, alla Tulanti Dudaev dice questo: “È un precedente. I russi vogliono far sapere che faranno così in qualunque altra parte dell’impero”. Sui governanti della Federazione Dudaev non ha dubbi: “Al potere ora sta gente di strada. El’cin ha goduto dell’onda d’urto di Gorbačëv e poi ha scaricato lui e tutti i veri democratici. Oggi è attorniato da avanzi di galera. Le dico una cosa: in Russia arriveranno al potere forze terribili armate di soldi e armi. E sarà una tragedia”.
Dudaev si definisce un militare prestato alla politica, ma il suo talento dialettico è indiscutibile. Difende la fede islamica dei Ceceni come parte della loro identità, diversa da quella russa e dunque legittimata ad autodeterminarsi vivendo sotto uno stato proprio, con le sue leggi. Tiene a sottolineare la loro volontà di creare un vero stato di diritto riconosciuto dalle altre nazioni e insiste che le norme internazionali dovrebbero difenderli contro l’imperialismo militare di una potenza mondiale.
Fra l’estate e l’autunno del 1994 la Russia prende il controllo della Cecenia settentrionale a colpi di bombe e rastrellamenti, riuscendo a insediare un governo fantoccio. Ma è solo l’inizio, perché quando tutta l’infrastruttura aeronautica cecena viene ridotta in macerie, Dudaev risponde con un messaggio sprezzante: “Mi congratulo con il comando dell’aeronautica russa per aver ottenuto il dominio dei cieli d’Ichkeria. Ci vediamo a terra”. Come sempre nei momenti di pericolo, i ceceni si arroccano nella parte meridionale del paese, la sua anima dura come la pietra, pronti alla guerriglia contro gli invasori.
A fine anno i russi lanciano due offensive su Grozny, subendo due imboscate successive: dopo la prima, Dudaev mostra in televisione alcuni soldati catturati, che confessano di essere mercenari dell’FSB. Il lato forse più grottesco è che ufficialmente la Russia non sta intervenendo in Cecenia e per questo i suoi aerei volano privi di stemmi e i militari non combattono in divisa. Il secondo assedio invece è ufficializzato, comincia a capodanno e culmina di nuovo in una trappola: gli indipendentisti lasciano penetrare i russi dentro la città con i mezzi corazzati, per inchiodarli sparando e farli a pezzi con i lanciarazzi. La vittoria però è solo momentanea, perché nei tre mesi successivi i russi riprendono l’offensiva e a marzo del 1995 Grozny cade nelle loro mani. Il battaglione che protegge la ritirata è comandato da Šamil Basaev, un ex militare federale del distretto di Vedeno diventato guerrigliero islamista, la cui popolarità è in grande crescita.
La excusatio non petita di Dudaev a proposito del fondamentalismo islamico in Cecenia deriva da un processo già visibile nel 1994, ma che esplode davvero solo l’anno successivo: una parte degli indipendentisti — quelli che la giornalista Anna Politkovskaja chiama “orientalisti” — si è legata ai jihadisti arabi. La guerra continua a straziare le famiglie con morti e lutti continui: migliaia di uomini e donne che si ritrovano senza più figli, mogli, mariti, fratelli e sorelle, diventano il materiale umano perfetto per passare all’opzione successiva, l’ultima che sentono di avere a disposizione: il terrorismo. Dato che la guerriglia non basta, l’esercito della Repubblica cecena fonda i suoi primi reparti kamikaze. Dudaev intanto cerca di contenere la marea nera, e alcune sue decisioni successive — come proclamare la shari’a e dichiarare la repubblica islamica — più che dalla convinzione personale muovono da questa urgenza. Ancora una volta, un’invasione militare provoca il collasso delle istituzioni di uno stato povero, caratterizzato da isolamento e frammentazione: la Federazione russa si trova ad affrontare il fantasma dell’Afghanistan, quello della sua dissoluzione nella forma sovietica, “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo” secondo Putin. E il destino vuole che a opporglisi siano, tra gli altri, proprio alcuni mujaheddin reduci dell’Afghanistan.
Ichkeria libre
I contatti caucasici vanno a buon fine e Khattab riesce a raggiungere il Dagestan, ospite di un gruppo di guerriglieri molti dei quali non vedono di buon occhio i ceceni: sostengono che quelli non sono nemmeno veri musulmani, e che la situazione nel paese sia troppo complicata, tanto per i raid russi quanto per la frammentazione degli indipendentisti.
“La situazione è troppo instabile. Se entri in Cecenia non sei sicuro di riuscire a tornare.” Com’è prevedibile, Khattab risponde che questo non dipenderà dal volere suo e così, nel 1995, poco dopo la Seconda battaglia di Grozny, si infiltra in Cecenia stabilendosi nei pressi di Vedeno. Siccome per entrare nel paese si è finto giornalista, oltre alle armi Khattab ha con sé una telecamera, con cui inizia a chiedere conto alla gente di ciò che è successo e di cosa fanno i russi ai musulmani. Si documenta così sulla storia locale e comincia ad apprendere i rudimenti della lingua.
Durante una delle sue peregrinazioni, un giorno Khattab incontra in un villaggio una vecchietta alla quale domanda cosa vorrebbe e cosa sarebbe pronta a dare per averlo. La nonnina gli risponde che vorrebbe che i russi se ne andassero dalla Cecenia, che lasciassero in pace i bravi musulmani, e che l’unica cosa che ha da dare è il suo giubbotto. Poi fa cenno di toglierselo. Khattab ama molto raccontare di commuoversi di fronte a scene come questa, il cui pathos infantile ricorda, forse non per caso, le parabole raccontate a catechismo.
Memore del fallimento tagiko, Khattab investe subito nelle relazioni con gli islamisti locali e grazie alla mediazione dell’influente imam Sheik Fatih — il primo arabo afgano ad aver raggiunto la Cecenia nei primi anni Novanta — ottiene un colloquio addirittura con Dudaev, l’ex ribelle di Mosca ora presidente della Repubblica d’Ichkeria. Il bisogno di sostegni e finanziamenti di Dudaev è forte e accoglierebbe volentieri anche l’appoggio degli arabi. Il dialogo fra i due, però, non parte bene.
“Perché i fratelli arabi non aiutano i ceceni?”, rimprovera Dudaev a Khattab. Questi allora gli contesta l’ambiguità della sua causa di ex comunista che chiede aiuto al mondo islamico. “Perché”, gli domanda, “non avete proclamato una repubblica islamica, così da far sapere a tutti i fratelli per cosa dovrebbero combattere?”
Nonostante la spavalderia fanatica di Khattab, l’intervista consiste in Dudaev che gli insegna teoria e pratica delle relazioni internazionali, spiegandogli che il sostegno occidentale gli serve contro i russi, ma che la fede dei ceceni non è in discussione. La questione dell’identità islamica della Cecenia, però, qui è espressa in modo diverso che con la Tulanti: se con la giornalista italiana aveva insistito su stato, diritto e leggi internazionali, e sull’islam come semplice fattore identitario, con Khattab Dudaev vira sull’utopia onirica; dice infatti: “Ogni bambino ceceno e del Caucaso che è stato sfollato nella diaspora, per decenni sogna che un giorno l’islam ritorni in tutto il Caucaso, e non solo nella sua terra. Io sono uno di quei bambini che sogna che l’islam ritorni nel Caucaso”.
Dudaev tocca subito le corde più adatte a convincere Khattab — l’allucinazione dei bambini che sognano il califfato — ma il vero affondo è quando dice che Khattab è il primo “giornalista” musulmano a intervistarlo, mentre gli Occidentali si contendevano le sue parole. I paesi democratici sono stati gli unici a interessarsi alla Cecenia.
Parlando con Dudaev Khattab si innamora definitivamente dalla causa, ma soprattutto capisce che parte del suo lavoro dovrà essere la propaganda. Bisogna che i musulmani di tutto il mondo sappiano, che vedano con i propri occhi cosa accade lassù. Servono video che denuncino la crudeltà dei russi e le condizioni dei ceceni, ma anche che esaltino i giovani, mostrando loro un esercito di mujaheddin vittoriosi che si oppongono a un oppressore odioso.
La situazione in effetti è disastrosa: la Cecenia è praticamente priva di un sistema economico nonché di uno stato riconosciuto e in grado di imporre una legge, quale che sia. Scontri militari e criminali rendono irraggiungibili interi distretti, la cui popolazione è costretta ad autodifendersi formando altri eserciti.
Khattab decide di cominciare con gli aiuti umanitari, mettendosi n competizione con la comunità internazionale. In un video chiede a una donna cosa abbia ricevuto dalla Croce Rossa.
“Tre chili di zucchero…”, traduce Khattab. “Quattro di farina… E di olio? E due litri di olio!” Khattab fa un grande sorriso. “In due anni.”
Il suo gruppo si impegna a fornire cibo e medicine ai villaggi sperduti e spopolati dagli uomini, che sono quasi tutti via, in guerra oppure morti.

Spettri afgani
L’arrivo degli arabi, addirittura “afgani”, galvanizza alcuni, ma nonostante la popolarità in ascesa la risposta alla loro presenza è tiepida. Khattab prende la parola a una riunione politica mettendo il suo gruppo a disposizione: se c’è un comandante pronto a dare ordini, dice, loro sono là per obbedire. Nessuno si fa avanti. Allora chiede di poter organizzare il suo programma militare, che viene approvato e per il quale gli assegnano una base militare dismessa nei pressi di Serzhen’-Yurt, una quarantina di chilometri a sud di Grozny. Può così iniziare il reclutamento, che parte con un centinaio di allievi ceceni.
Il modello è quello vincente dell’Afghanistan: studio del Corano e addestramento, preghiere e digiuni da buoni musulmani, e vita di campo. Khattab menziona appena il sufismo perché dice improvvisamente pragmatico, “di quello che avete in testa risponderete di fronte a Allah”. I ragionamenti teologici non gli appartengono e alle reclute chiede soltanto fede e ordine in cambio della preparazione tattica e all’uso delle armi. Ovviamente Khattab è prontissimo a uccidere altri musulmani, a patto però che questi si siano rivelati ipocriti, ossia musulmani finti. In questo caso è legittimato a combatterli, altrimenti bisogna evitare in tutti i modi la fitna, la discordia e la divisione in seno alla umma. Buona parte delle sue (poche) preoccupazioni dottrinali consistono proprio nel non prestare il fianco a questa accusa, da cui il suo approccio insolitamente salomonico.
Una notte, nel campo si tiene un’esercitazione con gli RPG — i lanciarazzi anticarro — e al crepitare delle esplosioni la popolazione si rifugia sui monti temendo un attacco dei russi. Passata la paura, il giorno dopo alcuni abitanti scherzano con frasi del tipo: “Con tutti quei razzi sprecati potremmo entrare a Grozny domani”. Khattab è amareggiato, perché nessuno sembra riconoscere l’importanza dell’addestramento, dell’ordine, della strategia.
Una delle prime notti al campo, Khattab si sveglia per al-fajr e si rende conto che nessuno sta montando la guardia. Così si infuria e punisce le reclute costringendole a marciare seminude per andare a bagnarsi nell’acqua gelida di un ruscello che scorre nei paraggi. Poi sceglie quindici elementi che considera problematici e li espelle senza concedere appelli. Scoppiano proteste e boicottaggi, gli uomini si dividono in gruppetti sediziosi, ma lui reagisce proseguendo imperterrito con le espulsioni. “Perché punisci tutti invece che i colpevoli?”, gli contestano. “Se i russi entrano per l’errore di qualcuno, ammazzano solo lui oppure tutti?”, ribatte spietato Khattab. In meno di un mese, la sessantina di reclute che hanno completato il programma sono pronte a ingaggiare battaglia e a formarne altre.
Intanto, la strategia ha funzionato: tramite la catena che collega Khattab al suo Paese natale cominciano ad arrivare soldi. I campi di addestramento sono anche scuole religiose e quando l’urgenza bellica si placherà, dopo il ritiro dei russi, cominceranno a spedire gli studenti in Giordania, negli Emirati, in Egitto, a perfezionare la formazione e stabilire nuovi contatti. Quando torneranno, questi uomini saranno pronti a fare gli imam nei loro villaggi natii, dove importeranno il nuovo credo e le nuove regole che cominceranno a imporre sulla vita in pubblico; poi formeranno altri giovani, che seguiranno lo stesso percorso, e così via. Alcuni non smetteranno mai di combattere, e saranno uccisi soltanto anni dopo, sotto le bandiere di al Qaida, al-Nuṣra e Daesh, sui campi di battaglia di Iraq e Siria.
Un nuovo islam giovane e bellicoso comincia a radicarsi in Cecenia, sostituendo il sufismo degli anziani e coprendo di nero il volto di un paese già sfigurato dalla guerra. In questi anni, e nei venti successivi, fatti analoghi, già visti in Afghanistan, accadranno in Sudan, Somalia, Kenya, Tanzania, Nigeria, Yemen, Indonesia e poi in Iraq, Siria, Libia, fino, più tardi, alle periferie delle grandi capitali d’Occidente.