Mindhunter
Genere: serie – crime – thriller psicologico
Stagioni: 2
Episodi: 1/10 – 2/9
On: Netflix
Dai fatti alla storia: la vera caccia
“Sono stato una persona normale per la maggior parte della mia vita.”
Ed Kemper
Venerdì 20 aprile 1973, Santa Cruz, California.
Edmund Kemper massacra la madre a colpi di martello, la decapita, le strappa via le corde vocali e ne violenta la testa, che infine depone sulla mensola del caminetto, facendone un bersaglio per giocare a freccette. Subito dopo, con l’assassinio di un’amica della donna, Kemper conclude la scia di omicidi cominciata nel 1964, all’età di 16 anni, quando uccise a fucilate i nonni paterni, disse: “Perché volevo sentire cosa si prova a uccidere la nonna”.
Siamo alla fine degli anni Settanta, il decennio precedente ha visto la società americana cambiare profondamente, e anche il crimine sembra mutato. In molti casi di omicidi plurimi particolarmente efferati, nonostante la cattura dei colpevoli, le motivazioni che hanno spinto gli assassini rimangono oscure, ascritte a cause effimere come la “follia” o il “male”.
Fra i tanti episodi che hanno segnato l’epoca, si può citare l’eccidio di Cielo Drive dell’agosto 1969, ad opera della Manson family, che a sua volta continua a essere ripreso in serie e film, ultimo nella lista C’era una volta a… Hollywood di Tarantino.
La serie Mindunter è ispirata all’omonimo libro scritto da John Douglas, l’agente dell’FBI che a fine anni Settanta ebbe un’intuizione che oggi può suonare scontata, ma che al tempo fu rivoluzionaria: intervistare i soggetti condannati per omicidi multipli, cruenti e connessi a moventi sessuali, così da cercare modelli ricorrenti di pensiero e comportamento che avrebbero potuto rivelarsi utili per le indagini irrisolte, per quelle già in corso e per quelle ancora a venire.
Giochi di specchi
Holden: “Cosa indosseresti se nessuno ti guardasse?”
Mindhunter, stagione 1, episodio 1
Debbie: “Probabilmente nulla. E tu?”
Holden: “Il mio abito.”
Alla figura di Douglas è ispirato il protagonista della serie, Holden Ford (Jonathan Groff), giovane istruttore dell’FBI che insegna tecniche di negoziazione agli allievi dell’accademia di Quantico, Virginia.
Holden è frustrato dalla sua esperienza professionale perché sente di non riuscire a comprendere davvero i soggetti con cui si trova a negoziare.
Perciò, in cerca della collaborazione di psicologi e studiosi di criminologia, l’inquieto Holden si avvicina al mondo universitario. Si trova però davanti a un muro, poiché gli accademici che interpella si mostrano diffidenti nei confronti del bureau.
Il decennio appena trascorso aveva visto molte università divenire culle della contestazione studentesca e della controcultura, movimenti che avevano trovato nell’FBI di J. Edgar Hoover un temibile avversario politico.
Proprio in questo ambiente, ostile ai distintivi quanto agli abiti convenzionali, Holden conosce Debbie Mitford (Hannah Gross), studentessa di sociologia influenzata dagli stilemi hippie.
Tra i due nasce una relazione in cui Debbie introduce Holden ad alcuni concetti chiave della sociologia — il comportamento deviante in Durkheim, la metafora del teatro in Goffman — ma soprattutto lo spinge a riconoscere e mettere in discussione alcuni assunti sulla natura umana che lui ingenuamente considera verità, ma che scopre essere mere convenzioni sociali.
Queste nuove consapevolezze cambieranno irreversibilmente non solo l’attitudine professionale di Holden, ma anche la sua vita privata.
Infatti, il filo principale della trama di Mindhunter è la ricerca di una via per accedere alle psicologie degli assassini seriali — una caccia alla mente — ma questo filo si intreccia con la vita personale di Holden, prima, e in seguito di tutti gli altri personaggi.
On the road
Bill: “Moventi, mezzi, opportunità: i tre pilastri dell’investigazione criminale nell’ultimo secolo. Ma è il 1977 e improvvisamente i moventi diventano inafferrabili.”
Mindhunter, stagione 1, episodio 2
Holden conosce l’agente Bill Tench (Holt McCallany), scatolare veterano di guerra che lavora nell’Unità Scienze Comportamentali (BSU) dell’FBI. Il lavoro di Tench consiste nel girare per i distretti di polizia degli Stati Uniti, per insegnare ai poliziotti di strada le tecniche della BSU, all’epoca rudimentali ma comunque più avanzate rispetto a quelle delle polizie locali.
Bill vede nell’intuitivo e ambizioso Holden un potenziale alleato, perciò gli propone di affiancarlo nella formazione dei poliziotti. In più, il contatto diretto con i distretti di polizia mette i due al corrente di dettagli relativi a casi complicati o irrisolti, che per diversi motivi non sono entrati nel raggio d’azione dell’FBI. Proprio le indagini su questi casi “raccolti per strada” costituiscono un ulteriore filo della trama.
Nel frattempo le lezioni continuano e il problema maggiore, riferiscono i poliziotti, è che mentre in precedenza i crimini erano commessi per motivi essenzialmente strumentali, ora sembra che invece, molte volte, siano privi di senso.
Spesso il loro è un punto di vista conservatore, se non reazionario, basato sull’idea che la società americana sia degenerata irreversibilmente. Nondimeno hanno bisogno di risposte, e possibilmente semplici.
Bill è un buon conoscitore dei suoi uditori, e per questo limita le lezioni a un distillato di concetti chiave (“Cosa + Come = Chi”), mentre Holden concepisce la sua missione in termini filosofici: vette irraggiungibili per i concreti sbirri di strada.
Nonostante le differenze di approccio, un aereo e un distretto dopo l’altro, chilometro dopo chilometro, fra un hot dog e un uovo strapazzato, il rapporto fra Holden e Bill si salda progressivamente, in quello che a tratti diviene un tipico road movie. Finché Holden ha l’idea chiave.
Decine di criminali violenti aspettano di morire reclusi nelle carceri degli Stati Uniti, condannati per crimini risolti solo in termini investigativi. Cosa ne sappiamo delle loro motivazioni? Nulla. Dunque, perché non intervistarli?
Taglio accademico
Wendy Carr: Quando ho ricevuto i suoi appunti del colloquio con Kemper ero a un punto morto con il mio libro.
Mindhunter, stagione 1, episodio 3
Holden: Di cosa parla?
Wendy Carr: Dei criminali della finanza. Non sono così diversi da Kemper.
Holden: In che senso crede che gli uomini che ha studiato siano simili a Edmund Kemper?
Wendy Carr: Beh, per prima cosa sono tutti psicopatici. Studio i capitani d’industria. IBM, MGM, Ford, Exxon…
Inizialmente, Bill è poco propenso a usare il loro poco tempo libero per conversare con assassini psicopatici, oltretutto senza che Shepard (Cotter Smith), il loro diretto superiore, ne sia informato; ma, dopo i primi colloqui con Kemper (Cameron Britton), cambia idea.
Bill pensa però che per sostenere il progetto occorra una validazione scientifica, perciò coinvolge la dottoressa Wendy Carr (Anna Torv), algida psicologa esperta di psicopatia.
Dopo un primo incontro esplorativo, la dottoressa Carr accetta di partecipare allo studio, e oltre a contribuire alla formalizzazione del metodo per le interviste, stabilisce la necessità di un gergo specialistico.
Killer organizzati e disorganizzati, fattori di stress, modus operandi, entrano così nella storia della criminologia, ma è Bill — personaggio ispirato al vero agente dell’FBI Robert Ressler — a coniare la definizione “serial killer”.
A caccia di persone
Kemper: Tutti noi che diamo la caccia ad altre persone, non faremmo altro che parlarne.
Mindhunter, stagione 1, episodio 2
A Kemper piace parlare, ed essendo intellettualmente capace di interpretare le proprie azioni, l’unica cosa che Holden e Bill devono fare per garantirsi una fruttuosa collaborazione è instaurare con lui un rapporto cordiale. Ma con gli altri assassini i dialoghi si fanno via via più spigolosi, e presto emergono almeno due problemi sostanziali.
Il primo è che parafilie, feticismi, omosessualità latenti o meno, fanno parte della psiche di quasi tutti i serial killer. Oggi sappiamo che questi tratti, di per sé, non attestano nessuna patologia mentale, ma all’epoca non era così. Mentre Bill trova difficile accettare che la passione per il crossdressing di Jerry Brudos non sia legata al suo essere un maniaco, Holden finisce invece per sperimentare con Debbie alcune delle pratiche sessuali emerse dai suoi dialoghi con i serial killer.
Il secondo problema è che la dottoressa Carr ha concepito i questionari come strumenti per raccogliere dati strutturati, necessari alla classificazione e al confronto, ma anche come mezzi per stabilire un rapporto — e dunque una distanza — con i soggetti delle interviste. Solo che per entrare in contatto con i criminali, Bill e Holden usano gli stessi mezzi che hanno a disposizione per relazionarsi con chiunque altro: empatia, partecipazione, al limite adulazione strumentale.
In molti casi risulta perciò impossibile, prima e più per Holden, ma in seguito anche per Bill, rimanere distaccati e oggettivi.
A caccia della mente
Kemper: “Mia madre tornò da una festa. Le chiesi com’era andata la serata. Lei mi guardò e mi disse: ‘Sono sette anni che non faccio sesso per colpa tua, assassino’. Così ho preso un martello e l’ho picchiata a morte. Le ho tagliato la testa. L’ho umiliata. E poi le ho detto: ‘Ecco, ora hai fatto sesso.’”
Mindhunter, stagione 1, episodio 3
“(…)”
Bill: “È vero che hai gettato parti del suo corpo nella spazzatura?”
Kemper: “Le sue corde vocali.”
Holden: “Perché?”
Kemper: “Non riuscivo mai a farla stare zitta. Voleva distruggermi con le parole.”
Quando Bill e Holden intervistano un assassino, la tensione non nasce da un senso di minaccia fisica, ma dal loro essere a un passo dalla verità. Apparentemente, quella che cercano è una verità che illumini i meandri più contorti e inaccessibili di una mente malata, ma in fondo sono tesi perché pensano, temono, o sperano, che questa verità riguardi anche loro.
Le prime conoscenze che trae dalle interviste aiutano Holden a scoprire i colpevoli di alcuni crimini locali, ma lo illudono anche di saper predire l’insorgere di tendenze omicide in persone dai comportamenti ambigui, ma formalmente corretti. I profili psicologici che lui, Bill e la dottoressa Carr stanno cominciando a delineare sono davvero così infallibili?
Più o meno consapevolmente, Holden e Bill cominciano anche a mettere in discussione i loro ruoli privati di fidanzati, mariti, genitori, uomini, finendo per interrogarsi sulle norme sociali che regolano i rapporti sentimentali, o sessuali, o tra padri, madri e figli.
Nel frattempo, benché nato sotto cattivi auspici, il loro lavoro con i serial killer ha conquistato la fiducia dei superiori, attirando l’interesse delle alte gerarchie dell’FBI e i relativi investimenti.
Per la criminologia e le scienze investigative si aprirà una nuova strada, tracciata dalla psicologia, che cambierà irreversibilmente le vite dei protagonisti. Saranno proprio le loro discese nelle menti dei serial killer, e nelle proprie, a innescare le crisi personali e i conflitti professionali attorno a cui ruota la trama della seconda parte della stagione.
Bill, Holden e noi spettatori: 3 verticali
Bill Tench
La forma rettangolare e il pragmatismo dei modi conferiscono a Bill le sembianze da duro tipiche degli sbirri dei film, ma il fascino del personaggio sta nel contrasto fra il suo aspetto coriaceo e la sua paura degli assassini, che soprattutto è paura di riuscire a comprenderli.
Per Bill, comprendere Kemper vorrebbe dire abbattere la barriera che li separa, quell’argine artificiale costruito dalla società per recludere i criminali nel recinto della disumanità.
Bill si è sempre comportato come se quel recinto avesse una consistenza morale (la giustizia per cui si batte un vero sbirro è questa, no?), ma la sua certezza vacilla puntata dopo puntata. Il suo personaggio, che con la tradizionale, obsolescente fiducia nelle istituzioni rappresenta la vecchia guardia, sarà costretto a vivere il cambiamento dei tempi sulla propria pelle.
Holden Ford
Holden, invece, in fondo sa che non esiste una barriera reale che lo separa dai serial killer che intervista, e spera sul serio di capire come nascono e pensano gli assassini seriali, anche se questo significa essere loro simile.
Il punto di vista di Holden è più moderno rispetto a quello di Bill, ma si dubita, strada facendo, che la sua prospettiva sia davvero migliore e più umana rispetto a quella del collega. In Holden ci sono infatti grosse dosi di ambizione e di cinismo, nonché di indifferenza, soprattutto verso sé stesso.
Non si scende così a fondo nella psiche umana senza uscirne destabilizzati, e sarà proprio la mente di Holden, suo malgrado, a ricordarglielo.
Noi spettatori
Gran parte del fascino esercitato dai serial killer su noi spettatori risiede nella loro psiche, o meglio nell’idea che ne hanno restituito tutta la filmografia, la narrativa e la saggistica esistenti sul tema. Sono le loro menti, più che le loro azioni (o vittime) ad attrarci.
L’Io e l’interiorità sono infatti le vere cifre del nostro tempo, per cui tendiamo a pensare le collettività come agglomerati di psicologie individuali, più che come aggregati sociologicamente e culturalmente determinati. La psicologia non ha solo invaso le scienze investigative, piuttosto ha permeato in profondità tutta la nostra cultura.
Ma perché ci interessa tanto penetrare, fino quasi a perderci, nei meandri oscuri e contorti delle menti dei serial killer?
Forse per avere un saggio, come un carotaggio artificiale, dei recessi più profondi della loro psiche, che oggi sappiamo essere, a tratti, simile alla nostra. Ma anche e soprattutto per sentirci, una volta usciti, rassicurati e tonificati da questa visione edulcorata di baratri in cui sappiamo, fin dal principio, che non cadremo mai.
Mindhunter: alcuni motivi per guardare la serie
- Perché è basata su persone realmente esistite e tutti gli assassini sono interpretati in modo ottimo: Ed Kemper (Cameron Britton), Jerry Brudos (Happy Anderson), Richard Speck (Jack Erdie), Montie Rissel (Sam Strike) e, a margine, Dennis Rader (a.k.a. BTK, interpretato da Sonny Valicenti), la cui cattura è avvenuta soltanto nel 2005.
- Per come le indagini on the road e le interviste con gli assassini si legano alle vite dei protagonisti. La forza principale della serie è la perfezione di questo intreccio.
- Perché Mindhunter narra una storia seminale: Thomas Harris, autore del libro Il silenzio degli innocenti, ha attinto a piene mani, tra le altre fonti, proprio da Mindhunter di John Douglas.
- Per come Jonathan Groff (Holden Ford), e soprattutto Holt McCallany (Bill Tench), sono riusciti a dare a vita a due personaggi originali entro un genere funestato dai cliché.
- Perché non esalta i serial killer, ma li inquadra prima di tutto come vittime di abusi e soprusi.
- Per la sceneggiatura (Joe Penhall), mai banale né pretestuosa, per le scenografie (Steve Arnold) e i costumi (Jennifer Starzyk), che non hanno mai un dettaglio fuori posto, e per la fotografia (Erik Messerschmidt, Christopher Probst), calda ma vagamente acida, pulita ed elegante. C’è poi la mano di David Fincher nella regia di alcuni episodi e nella produzione.
- Perché è del tutto priva di scene di azione, restando fedele, in questo, al lavoro e alle parole di John Douglas: niente virili abbattimenti di porte, inseguimenti, sparatorie, corpo a corpo.