Nel dicembre del 1994, la giornalista Maddalena Tulanti intervista per l’Unità Džochar Dudaev, presidente della Repubblica cecena d’Ichkeria, così chiamata dal nome della parte montagnosa del paese, quella dove storicamente la popolazione corre a rifugiarsi in caso di pericolo. Dudaev parla della Russia e dice:
“Al potere ora sta gente di strada. El’cin ha goduto dell’onda d’urto di Gorbačëv e poi ha scaricato lui e tutti i veri democratici. Oggi è attorniato da avanzi di galera. Le dico una cosa: in Russia arriveranno al potere forze terribili armate di soldi e armi. E sarà una tragedia”.
Nemico numero uno
Il 31 dicembre del 1999, i russi che aspettano di sentire il discorso di auguri del presidente El’cin si trovano di fronte il suo giovane delfino Vladimir Putin. Il politico proveniente dai servizi segreti, che dall’estate ricopre la carica di Primo ministro, li avvisa così di essere divenuto il loro nuovo presidente, in attesa delle elezioni che si terranno l’anno successivo.
Negli anni immediatamente precedenti, bande di ex burocrati e neocapitalisti rampanti hanno smantellato la carcassa dell’ex Unione Sovietica, estorcendo a uno Stato in agonia di liquidità le industrie pesanti, il commercio, le telecomunicazioni, le banche, nonché l’enorme bacino di materie prime della sterminata Madre Russia. Putin vuole che lo Stato riprenda il controllo delle imprese e degli istituti che formano la base di una “nazione civile”, inclusa la grande stampa, garanzia della libertà di parola. I suoi avversari sono gli oligarchi miliardari e le loro aziende, che vuole sostituire con altre gestite da uomini che siano sì fedeli, ma prima di tutto a lui.
Alle prossime elezioni Putin intende affermarsi come un politico “della gente” in grado di battersi contro le bande che hanno in pugno il paese e le sue ricchezze, ma per farlo gli serve una prova di forza, un mito fondativo sul quale costruire la sua statura di leader.
Nel 1999, le bombe di Buynaksk e Mosca fanno sì che la Russia avvii ufficialmente l’Operazione antiterrorismo in Cecenia — che mai sarà definita guerra dal Cremlino — dopo una scia di attentati che hanno falciato decine di vittime, principalmente militari, poliziotti e relative famiglie.
Subito prima della promozione a presidente, in un’intervista Putin dichiara, riferendosi ai terroristi islamici ceceni individuati come responsabili dei due attentati: “Anche se si nascondono al cesso, noi li annienteremo”. Il discorso rimarrà celebre per il linguaggio di strada, da gangster, che varrà a Putin uno scatto di popolarità fin negli ambienti criminali, storicamente ostili agli algidi burocrati di targa sovietica.
Il senso di insicurezza dei russi, spaventati e impoveriti dopo la cirsi costituzionale e le liberalizzazioni selvagge degli anni Novanta, risuona e si amplifica con la minaccia del terrorismo islamista dei ceceni, a cui i media danno grande risalto. La figura di un uomo forte che afferri le redini di un paese allo sbando, nell’immaginario russo si staglia all’orizzonte ogni giorno più nitida.
Caucaos
All’indomani del crollo dell’URSS, ai confini della Federazione si riaccendono focolai ultrasecolari di rabbia mai sopita: a fine anni Novanta, in Ciscaucasia — un caleidoscopio di piccole patrie isolate, frammentate, deportate e massacrate a più riprese negli ultimi due secoli dai poteri di Mosca — la Russia è inchiodata da almeno un quinquennio tra agguati in alta montagna e sanguinose guerriglie urbane.
Con la guerra del 1994-1996, i Ceceni hanno ottenuto uno Stato “separato in casa” dalla Russia, ma la condizione del paese è disastrosa. Le infrastrutture di zone già poco accessibili sono andate distrutte, l’amministrazione è collassata a tutti i livelli e i civili cadono vittime tanto del conflitto contro la Russia — che continua sottotraccia, con gruppi di militari e paramilitari che combattono senza uniforme e aerei che bombardano senza portare colori — quanto di una guerra civile strisciante. Molti ex leader militari si sono affermati come narcotrafficanti e contrabbandieri, commerciando e alleandosi con una fazione o l’altra secondo convenienza. I sequestri sono un’industria e capita che bande di uomini incappucciati saltino fuori da furgoni senza targa e portino via qualche ignaro astante. A volte si tratta di uomini del GRU — l’intelligence militare russa — che rapiscono colpevoli o semplici capri espiatori, altre di delinquenti organizzati, che se non ottengono un riscatto uccidono gli ostaggi.
Nel 1996, alla fine della Prima guerra cecena, conclusa dopo il terzo assedio di Grozny in circa un anno e mezzo, i separatisti si dividono in fazioni: la maggior parte sono musulmani sufisti che si appellano all’identità tradizionale per rivendicare la separazione dall’oppressore russo; il loro leader storico è Džochar Dudaev, il primo presidente della Cecenia indipendente ucciso da una coppia di missili russi nel 1996. Esiste però un’ala più giovane e radicale che si è avvicinata all’islam wahabita, emanato in tutto il mondo da emissari sauditi. Questa fazione conquista sempre più consensi anche perché in Cecenia può contare su migliaia di orfani, di genitori che hanno perso i figli, di uomini e donne che hanno visto morire sorelle e fratelli. La da’wa, l’apostolato degli wahabiti, fa buona breccia nei lutti di una società familista e nella perdita di prospettive che affligge in particolare i più giovani. Ma la penetrazione del fondamentalismo islamico in Cecenia si deve soprattutto a una figura: Amir — il comandante — al Khattab.
Tra guerra e jihad
Khattab è un saudita che si è fatto le ossa nel jihad afgano, alle battute finali della guerra contro l’Unione Sovietica; ha poi tentato, fallendo, di innescarne uno in Tagikistan, e dopo aver perso metà di una mano armeggiando con una granata è infine giunto in Cecenia, dove si è innamorato della causa direttamente dalle parole di Dudaev.
Khattab, che fin dal 1995 trova in Shamil Basaev un grande alleato, è il motore dell’ala “orientalista” della guerriglia separatista perché è il principale collettore di finanziamenti esteri, grazie ai quali istituisce campi di addestramento militare e scuole coraniche (lo stesso modello che in Afghanistan ha appena partorito i talebani). Quando le circostanze lo consentono, i giovani più dotati vengono mandati all’estero a studiare dai salafiti egiziani in esilio o dai wahabiti del Golfo. Al ritorno in Cecenia, gli ex studenti assumono il posto di imam in qualche villaggio, importando i nuovi costumi prescritti dalla sharia degli “arabi” e indottrinando altri allo stesso percorso.
A Khattab è generalmente riconosciuto un ruolo di pioniere nella propaganda del jihad moderno per la sua pratica di diffondere video che riprendono gli assalti ai convogli russi, oltre a una specie di audiodiario, simile a un podcast, che negli ambienti più vicini al fondamentalismo gli portano consensi, reclute e denaro.
Tra il 1996 e il 1997, Khattab riesce ad attirare l’attenzione persino di bin Laden, che intanto sta tessendo la sua tela internazionale dalla Malesia al Sudan. Tra i due sembra esserci un’intesa di principio e addirittura Ayman al Zawahiri, il secondo uomo di Al Qaida, viene fermato in Daghestàn, senza che però si sappia se fosse già entrato in Cecenia. Ma alla fine la collaborazione non sembra decollare e nonostante le ripetute accuse non pare esserci traccia di affiliazioni formali o di sostegni materiali tra Khattab e al Qaida.
Il wahabismo in Cecenia attecchisce meno di quanto vorrebbe la propaganda di Khattab, trovando resistenza negli abitanti di alcuni villaggi poco entusiasti della sharia, ma il suo successo militare è indubbio, tanto da fare di Khattab un famigerato nemico pubblico già prima dell’Operazione antiterrorismo, altrimenti detta Seconda guerra cecena.
Nel 1999, Basaev e Khattab sono arroccati nella parte meridionale della Cecenia, quella montuosa, da dove hanno cominciato a espandersi in alcuni villaggi del Daghestàn. Con gli attentati hanno lanciato una sfida diretta alla Russia, che del resto è ormai più che convinta di volerli eliminare senza appellarsi a dichiarazioni formali di guerra. In più, a Putin serve un nemico perché il suo mito cominci a ergersi in vista delle elezioni previste per il marzo 2000. Ed ecco il discorso dello stanare i terroristi al cesso.
In un video, Khattab infila una pallottola dietro l’altra nel caricatore di un Ak-47, destreggiandosi bene nonostante il moncherino guantato: “Massacreremo i russi dappertutto”, dice Khattab con un gran sorriso in faccia alla telecamera, “ma non nei cessi. I nostri cessi sono puliti”. Intorno a lui, ceceni smilzi e arabi barbuti, tutti in mimetica da neve, sghignazzano indaffarati a preparare le armi in vista dell’ennesimo assalto.
Operazione antiterrorismo
All’inizio del 2000 i distretti di Argun, Vedeno e Shatoi, roccaforti montane dei separatisti, sono ripetutamente bombardati in quanto covi dei guerriglieri, mentre Grozny subisce l’ennesimo assedio, che costa il piede destro a Shamil Basaev.
Tra i soldati russi si diffonde l’uso di prendere gli scalpi ai separatisti ceceni e a volte, nel corso di retate che spesso culminano in saccheggi, stupri e omicidi — le famigerate zacitski — ai soldati basta ricevere una birra per risparmiare un uomo, o non riceverla per massacrare una famiglia intera.
Anna Politkovskaja, introdotta al paese dall’attivista cecena Natal’ja Estemirova, racconta il disonore russo di questi anni: la sua è un’ispezione chirurgica delle piaghe scavate da crimini di guerra ripetuti e impuniti. La beffa finale è che i soldati russi congedati dal servizio in Cecenia soffrono spesso di gravi problemi psichiatrici ma vengono abbandonati dallo Stato, finendo vittime di alcolismo e tossicodipendenze. La Politkovskaja denuncia fatti e persone precisi, ma cerca anche di avvertire i russi che il loro Paese non potrà tornare indietro da quell’orrore. Un governo moralmente legittimo non agirebbe mai in modo simile, dice.
La massiccia offensiva russa spinge gli “arabi” di Khattab a nascondersi nelle gole più impervie del Caucaso, braccati per terra e per cielo senza poter neanche accendere un fuoco. I jihadisti soffrono per ipotermia, cancrene, febbri e malnutrizione, oltre che per gli scontri a fuoco contro i ricognitori russi. Nonostante siano divisi e fatichino a riunirsi, i gruppi di Khattab e Basaev riescono ad abbattere alcuni elicotteri e a proseguire con gli assalti ai convogli, benché gli abitanti dei villaggi cerchino di tenerli il più possibile lontani. Asserragliati in sparute comunità che cercano di autodifendersi, i civili sono retrocessi al rango di scudi umani verso il nemico comune, ostaggi dei loro presunti paladini.
Ma la tattica di togliere al pesce l’acqua in cui nuotare funziona, e a maggio del 2000 la Russia ha ripreso il controllo della Cecenia. Il vero colpo di scena si ha però con la nomina a governatore e poi l’elezione a presidente di Achmad-Chadzi Kadyrov, Gran muftì di Cecenia al tempo della Prima guerra. Il nuovo governo sostenuto da Mosca, imbrigliato nel tradizionale sistema ceceno di clan, confraternite e gruppi paramilitari, si impegna a riportare la pace e a ricostruire con i soldi russi un paese ridotto in macerie dalle bombe degli stessi russi.
Fine di una non guerra
Nel marzo del 2002, Amir al Khattab è ben nascosto tra gli ostili monti d’Ichkeria, protetto dai suoi uomini più devoti che ormai da tempo gli sconsigliano di fidarsi dei nuovi arrivati. Nella disgraziata frangia settentrionale del Caucaso dove si trova, i tradimenti sono all’ordine del giorno e le leve più fresche potrebbero essere agenti dell’FSB, il servizio segreto russo erede del KGB. Khattab è sempre molto prudente, tuttavia ha deciso di fidarsi dei nuovi combattenti, che verso sera gli consegnano un plico di lettere. Nonostante la mano destra monca di tre dita, Khattab apre la lettera e la legge mangiando, dopodiché si sente strano e decide di coricarsi. Quella notte, come ogni altra, si sveglia presto per condurre i suoi fratelli nella ṣalāt al-fajr, la prima delle cinque preghiere quotidiane, ma il suo ultimo giorno dura poco: appena sveglio respira a fatica e nemmeno riesce ad alzarsi, quasi subito entra in coma e in capo a poche ore è morto. I suoi uomini avevano ragione: la lettera recapitatagli con urgenza sospetta era intrisa di veleno.
“Spero e voglio credere che Khattab sia stato davvero liquidato”, commenta soddisfatto Vladimir Putin, mentre organizza e consolida una nuova verticale del potere con lui solo al centro della scena. A dargli una mano è anche bin Laden, poiché l’11 settembre consente a Putin di equiparare Al Qaida ai terroristi ceceni, guadagnando credito internazionale e distendendo le relazioni con un Occidente ossessionato dalla Enduring Freedom. La maggioranza dei russi accetta così di barattare una relativa stabilità economica con la compressione delle libertà civili e Russia Unita, un partito di cartapesta, può vincere le elezioni del 2003. L’anno seguente Putin viene rieletto alla presidenza.
Nel 2004, Achmad-Chadzi Kadyrov è assassinato da una bomba piazzata nello stadio dove partecipa a una cerimonia, ma viene subito sostituito dal figlio Ramzan, già capo della fazione militare nota come Kadyrovcy. Ramzan Kadyrov prende definitivamente il controllo del Paese rinsaldando il legame che suo padre aveva stretto con Putin, grazie anche alla legge promulgata nel 2003 che consente ai soldati russi di votare in Cecenia.
L’Operazione antiterrorismo si conclude formalmente soltanto nel 2008 ma intanto, sotto il buon governo di Ramzan, le associazioni cecene per i diritti umani sono mestamente liete di constatare che violenze, sequestri e omicidi si limitano a colpire chi se lo merita, ovvero chiunque si opponga a Khadirov e alle sue bande. Natal’ja Estemirova, attivista dell’associazione Memorial, viene sequestrata e assassinata nel luglio del 2009, dopo che alla sua amica Anna Politkovskaja, come è più noto, nel 2006 hanno sparato in testa dentro un ascensore.
Grozny chiama Kiev?
Per atroce ironia della geopolitica, a febbraio del 2022 i Kadyrovcy, gli uomini del ceceno Khadyrov, sono dislocati in Ucraina sotto lo sventolante tricolore russo al grido improbabile di Allah akbar. Khadyrov e Putin restano legati da un patto di sangue, che ha tenuto in sella il solerte dittatore ceceno ma che ora gli richiede un sacrificio. Un’altra lezione appresa e applicata dalla Russia nel Caucaso è infatti che è sempre meglio mandare avanti una parte di esercito proveniente da una nazione federata, così da stornare una quota di odio verso altri, non russi.
Un comune pregiudizio vuole che le grandi decisioni politiche, come dare il via a operazioni di guerra, obbediscano sempre a logiche come il profitto, le opportunità economiche o strategiche. Eppure, in casi come quello ceceno non c’erano obiettivi concreti. La Cecenia, un paese grande quanto la Calabria, senza importanti risorse naturali e dallo scarso valore strategico, forniva solo un nemico antico e diverso, perfetto per saldare i ranghi di un grande paese ridotto a brandelli come la Russia uscita dagli anni Novanta.
Dal 2000 in poi, gli indici di approvazione per Putin, ai quali il presidente tiene moltissimo, non sono mai scesi sotto il 60%, stando alle rilevazioni ufficiali (che però vanno prese con cautela, poiché rientrano nell’arsenale della tecnologia politica russa). Si nota una flessione dopo la crisi finanziaria del 2008, che tocca il punto più basso in corrispondenza delle proteste di piazza Bolotnaja e l’ingresso in politica di Aleksej Naval’nyj, ma la curva torna a salire nel 2014, con l’annessione della Crimea.
Il tacito contratto sociale che lega Putin ai cittadini, basato su una passiva e disincantata accettazione della sua leadership in cambio di un’economia in crescita, sembra rinsaldarsi quando la Russia deve affrontare una minaccia. O anche quando la propaganda governativa, cioè pressoché tutti i media, diffondono l’idea che la Russia stia affrontando una minaccia.
Vedendo i battaglioni ceceni dei Kadyrovcy infliggere agli ucraini le stesse sofferenze patite dal loro popolo, si è tentati di credere all’ennesima vittoria di Vladimir Putin. La possibilità che l’Ucraina rifiuti la resa e trasformi la nuova guerra d’Europa in un altro Afghanistan o un’altra Cecenia sembra piuttosto remota.
Forse, più che sui campi di battaglia, Putin potrebbe subire un colpo duro all’interno, se davvero l’economia e la società russa fossero seriamente danneggiate dalle sanzioni e dal boicottaggio dell’Occidente. Ma per vederne gli effetti eventuali potrebbero servire settimane e poi, l’idea di isolare la popolazione russa — peraltro già vittima di un sistema mediatico allineato — può essere rischioso, se questa guerra ha tra i moventi far stringere il paese attorno al suo leader.
Il tempo gioca sia a favore sia contro gli ucraini, mentre bombe e proiettili sono tornati a ferire il suolo d’Europa.
Fonti
Sulla Cecenia:
A. Castellani, Storia della Cecenia
M. Tulanti, “Io, messia della terra cecena”, intervista a Džochar Dudaev
Sulle guerre russe in Cecenia:
A. Lieven, Chechnya: Tombstone of Russian Power
A. Politkovskaja, Cecenia, il disonore russo
A. Politkovskaja, Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin
Sulla Cecenia di Ramzan Khadirov:
J. Littell, Cecenia anno III
Sulla Russia e Putin:
F. Bartoli, G. Savino, Da Brežnev a Putin
F. Burkhardt, Präsidentenrating
A. Politkovskaja, Diario russo 2003-2005
Sul jihad fino agli anni Novanta:
G. Kepel, Jihad, ascesa e declino
Su bin Laden e al Qaida:
L. Wright, Le altissime torri
Su Khattab:
M. Al-`Ubaydi, Khattab (Jihadi Bios Project)
Le memorie di Khattab sono reperibili, ma essendo edite a scopo celebrativo si preferisce non includerle tra i link.