Jihad is over
18 marzo 2002. In piena Seconda guerra cecena, Amir Khattab è ben nascosto tra i monti ostili d’Ichkeria, protetto dai suoi uomini più devoti che ormai da tempo gli sconsigliano di fidarsi dei nuovi arrivati. In questa disgraziata frangia settentrionale del Caucaso, i tradimenti sono all’ordine del giorno e le leve più fresche potrebbero essere agenti dell’FSB, il servizio segreto russo erede del KGB. La Russia e il governo ceceno di Khadirov suo alleato hanno deciso di chiudere i conti con la guerriglia oltranzista, in particolare con i wahhabiti, ma anche la maggioranza dei separatisti ceceni, sebbene divisi in gruppi rivali, vorrebbe trovare un accordo. Il presidente Putin in persona reclama la testa di Khattab, che per questo è sempre molto prudente, come si addice a un amir — un comandante — che ha portato il jihad dall’Afghanistan alla Cecenia. Tuttavia ha deciso di fidarsi dei nuovi combattenti, che gli consegnano un plico di lettere, tra cui una particolarmente importante. Nonostante abbia la mano destra monca di tre dita, Khattab apre la lettera e la legge mangiando, dopodiché si sente strano e decide di coricarsi. Quella notte, come ogni altra, si sveglia presto per condurre i suoi fratelli nella ṣalāt al-fajr, la prima delle cinque preghiere quotidiane, ma il suo ultimo giorno dura poco: appena sveglio respira a fatica e nemmeno riesce ad alzarsi, quasi subito entra in coma e in capo a poche ore è morto. I suoi uomini avevano ragione: la lettera recapitatagli con urgenza sospetta era intrisa di veleno. “Spero e voglio credere che Khattab sia stato davvero liquidato”, commenta Vladimir Putin preparandosi al trionfo elettorale dell’anno successivo.
Figli del tawḥīd
Nel Diciassettesimo secolo, sull’altopiano al centro dell’odierna Arabia Saudita, non lontano dalla capitale Riad, Muḥammad ibn Abd al-Wahhāb fonda un movimento che predica il ritorno a un’interpretazione letterale del Corano. I suoi bersagli polemici sono i governanti musulmani e quei giurisperiti, studiosi di diritto islamico, che dall’alto del loro illegittimo principio di autorità avrebbero pervertito il messaggio di Maometto, piegandolo a interessi secolari e alimentando orrende forme di idolatria. Poco importa che anche questa sia un’interpretazione dell’islam, né più né meno di ogni altra, e neanche la prima che si rifà ai fondamenti della religione, poiché il predicatore ha la ventura di legarsi alla tribù dei Saud la quale fonderà l’Arabia saudita, singolare stato il cui nome ha incorporato quello della dinastia regnante.
Il wahhabismo è una dottrina che — con scarsa originalità — insiste sull’unicità di Allah, il tawḥīd, e chiede al fedele di aderire ai cinque principi: la testimonianza di fede, la preghiera, l’elemosina, il digiuno del Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca. L’obbedienza alle regole non implica nessuna riflessione o elaborazione e neanche la comprensione delle stesse: la letterale accettazione della sunna (il Corano più gli hadīth, il repertorio di fatti e detti attribuiti al Profeta e riportati dai suoi seguaci e successori diretti), la passiva esecuzione delle prescrizioni e il completo abbandono al volere di Allah sono le uniche posture previste, senza che serva chiedersi come e perché. Questa forma di religione sembra un involucro vuoto, una sorta di guscio fatto di riti, formule e norme sociali praticabili anche senza la minima elaborazione intellettuale da parte del credente. In quanto pura sottomissione, lo wahhabismo rivendica il nucleo più verace e profondo dell’islam, condensato nella formula monolitica del tawḥīd, l’unicità assoluta di dio. Per quanto riguarda la società, la sola fonte di diritto accettata è la shari’a, il complesso di regole derivate esclusivamente dal Corano e dagli hadīth, e non nella giurisprudenza elaborata nei secoli seguenti. Naturalmente occorre sempre aggiustare qualcosa in base ai tempi e ai bisogni, come nel caso della finanza islamica ma, in linea di principio e di ideologia, la sostanziale novità del wahhabismo è che dopo l’Ottavo secolo non ci sono novità.
Nella seconda metà del Novecento, la petromonarchia dei Saud, le cui tasche si riempiono anno dopo anno dei proventi petroliferi — contabilizzati in bei dollari americani, verdi quanto il colore dell’islam — fa sempre più fatica a legittimare agli occhi dei musulmani la posizione di custode della loro religione. Ma con la fondazione della Lega islamica nel 1962, l’espansione della finanza islamica nel decennio successivo e l’istituzione di enti come la Mezzaluna rossa, i sauditi elaborano un nuovo modello politico: l’adesione al credo wahhabita, minoritario nel paese ma ben inserito nelle istituzioni, diventa la condizione perché sia finanziata la costruzione di moschee e scuole, e perché siano dati aiuti ai paesi musulmani più poveri; le scuole producono nuovi imam che andranno a guidare la preghiera in moschee nuove di zecca, guadagnando sempre più fedeli; la da’wa, ossia l’opera di diffusione del credo wahhabita, è un dovere, una missione: è jihad, impegno sul sentiero di dio. Da un punto di vista dottrinale, il wahhabismo non si differenzia granché da altre forme di fondamentalismo islamico, in genere riconducibili al grande alveo del salafismo. Caratteristico del wahhabismo è piuttosto il paese da dove si irradia, ossia l’Arabia saudita. L’ideologia basilare — rifiuto di ogni sovrastruttura storica e richiamo diretto ai fondamenti della religione — è stata un fattore decisivo per la sua espansione che però, senza il petrolio saudita, avrebbe avuto di certo minore successo.
Nel 1973, con lo shock economico dovuto al blocco delle esportazioni di petrolio verso i paesi occidentali, colpevoli di aver sostenuto Israele nella Guerra del Kippur, l’Arabia saudita mette in chiaro il peso che è in grado di esercitare attraverso l’OPEC. Nel 1975, il cartello decide di alzare del 10% i prezzi del petrolio e il risultato della crisi energetica è un afflusso di ricchezza mai visto nella storia della Penisola arabica. La possibilità di studiare in scuole e università nuove di zecca, unita alla domanda di forza lavoro di una borghesia sempre più ricca e desiderosa di servizi, attirano nel Golfo gente da tutto il mondo islamico, spesso delusa dai fallimenti e dai tradimenti degli stati arabi laici. Il boom demografico registrato dal levante al ponente spinge masse di lavoratori alla ricerca di opportunità: afgani, pakistani, malesi, indonesiani, raggiungono la Penisola in cerca di fortuna portandosi dietro, quando possono, le famiglie. Mentre in Arabia Saudita arrivano le prime Ferrari, negli anni settanta, molti immigrati lavorano come servi, o schiavi. Alcuni fanno fortuna, almeno agli occhi dei connazionali, che provano a seguire le orme di questi pionieri assimilando i loro nuovi costumi. Gli studenti, invece, apprendono l’islam del tawḥīd e, concluso il periodo di studio, importano nei loro paesi una religione nuova, che prende il posto o aspira a rimpiazzare le istituzioni tradizionali.

Il successo del modello è triplice: acquisendo un enorme credito come promotori dell’islam più puro, i sauditi allontanano gli elementi più radicali e allo stesso tempo guadagnano influenza politica in ogni paese dove si trovi un wahhabita, persino in Occidente. Il tutto, grazie al petrolio.
Khattab vive questi movimenti entrando nel flusso dei mujaheddin in partenza per il jihad afgano. Ma benché a tratti sia polemico con la cupidigia delle monarchie del Golfo, starà sempre attento a non rivoltarsi contro il suo paese. “Siamo figli del tawḥīd”, dirà. “Nella Penisola conosciamo la religione.”
Afgana 1
Con lo scopo di abbattere il governo del riottoso Amin e ripristinarne uno filosovietico, nel 1979 l’URSS di Brežnev interviene in Afghanistan provocando un’insurrezione degli abitanti, i più anziani dei quali rispolverano i fucili con cui i loro nonni e bisnonni massacrarono gli inglesi nell’Ottocento, all’epoca del Grande Gioco.
Con l’occupazione sovietica, in Afghanistan viene a schiudersi uno scenario particolarmente instabile: il Paese è diviso in diversi gruppi etnolinguistici, i più numerosi dei quali sono i pashtun, tagiki e hazara; questi macro-gruppi sono a loro volta organizzati in tribù (come i Durrani, tra i pashtun), aggregazioni che comportano ulteriori divisioni interne, a volte tanto violente quanto quelle verso l’esterno. In questo stato debole e privo di un’idea di nazione diffusa, l’islam rimane l’unico elemento comune praticamente a tutti gli afgani, che in maggioranza sono musulmani sunniti tranne la minoranza hazara, che è sciita e legata all’Iran.

Il gruppo numericamente più ampio è quello dei pashtun, che abitano il sud del Paese a cavallo del confine con il Pakistan, una linea immaginaria tracciata dai Britannici. In quest’area, lo Stato non è mai davvero arrivato e a governare sono le istituzioni tribali, che hanno condensato il sistema di norme della tradizione in un codice chiamato pashtunwali.
Un’altra spaccatura decisiva per le sorti dell’Afghanistan è quella fra i centri principali — Kabul, Kandahar, Helmand e Mazar-i Sharif, tra loro collegate da un anello stradale che accerchia il massiccio dell’Hindu Kush — e la periferia di un paese rurale ma con pochissima terra coltivabile e privo di infrastrutture. A tutto questo, nel 1979, va aggiunta la recente nascita dei partiti politici, i più agguerriti tra i quali sono i comunisti e gli islamisti, che si fronteggiano a colpi di omicidi.
Sebbene composta principalmente da pashtun, la resistenza afgana riunisce gruppi da tutto il paese, ognuno coi suoi sponsor — su cui spiccano USA e Arabia Saudita — e le sue tattiche, ma tutti impegnati nella guerra di liberazione dall’Unione Sovietica. Benché divisi in una miriade di fazioni, i combattenti sono noti con un unico nome, mujaheddin.

Negli anni della guerra, tra il 1979 e il 1989, milioni di afgani, fino a un quinto su circa trenta, nascono e vivono fuori dal loro Paese, in Pakistan, dentro campi profughi contigui ai campi di addestramento della resistenza. Molti sono accolti nelle scuole coraniche, le madrasse, di orientamento deobandita — la corrente fondamentalista più potente del Pakistan — pressoché le uniche istituzioni che offrono un rifugio e una vita a migliaia di ragazzini afgani. Sempre negli anni Ottanta, in Afghanistan arrivano anche centinaia di giovani da Egitto, Arabia saudita, Yemen, Giordania, Algeria, e persino dalla Palestina, scappati di casa per combattere gli aggressori kuffār — infedeli. Alcuni provengono da famiglie benestanti, come l’egiziano Ayman al Zawahiri, oppure ricchissime, come il saudita Osama bin Laden, e spesso hanno frequentato o abbandonato l’università. Molti sono mossi dall’idealismo battagliero dei giovani e alcuni hanno già fatto politica opponendosi ai regimi corrotti che controllano i loro paesi di origine. Qualcuno ha pagato il prezzo della lotta sulla propria pelle, dove ancora conserva i segni delle torture inflitte agli oppositori da stati-fantoccio frutto della decolonizzazione.
Tutti leggono i libri di Sayyd Qutb, l’intellettuale egiziano giustiziato nel suo paese insieme ad altri sei Fratelli musulmani, nelle cui pagine si rifiutano definitivamente socialismo, nazionalismo e capitalismo, ripiegando su un’idea di islam primigenio, orgogliosamente ostile alla modernità in ogni sua emanazione. La proba arretratezza dell’Afghanistan rurale offre uno scenario perfetto su cui proiettare quel mito di un solo dio, un solo profeta, un solo califfo e una sola comunità di fedeli, da perseguire con il jihad. Ma la vera scintilla sono le fatwa di Abdallah al Azzam, letterali chiamate alle armi nonché manuali che spiegano come giustificare in punta di diritto islamico l’abbandono delle famiglie e delle vite, a volte dure ma spesso prospere, che questi giovani conducono in patria. Al Azzam li incita ad accorrere in Afghanistan per combattere i nemici dell’islam, formando l’avanguardia di un movimento che, un giorno, avrebbe proclamato l’unicità del loro dio su tutti i paesi musulmani e, a quello stesso dio piacendo — inshallah — anche sugli altri.