Giovani mujaheddin crescono
Samir bin Salih bin Abdullah al-Suwaylim, questo il nome anagrafico di Khattab, nasce in Arabia Saudita nel 1969. Dell’infanzia non si hanno molte notizie, se non che la sua è una famiglia religiosa, cosa tutt’altro che singolare dati i luoghi e i tempi. Pare che il padre fosse solito portare con sé Samir e suo fratello in campeggio, a caccia e a pesca, con lo scopo dichiarato di crescere figli forti e coraggiosi. Al netto delle tendenze macho-survivaliste del padre, dalle testimonianze disponibili non emerge nulla che lasci presagire ciò che Samir farà della sua vita, e di molte altre.
Nel 1987, appena diciottenne, Samir viene ammesso al programma speciale che Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale, riserva agli studenti più promettenti per prepararli agli studi universitari. Il suo futuro sembra indirizzato, al pari di quello dei sauditi di buona famiglia, a godere dell’ubriacatura generale a base di quel petrolio che da decenni, in collaborazione con gli Stati Uniti, inonda le austere terre del Profeta. Ma proprio nel 1987 in Palestina scoppia l’Intifada mentre la ferita afgana è aperta da tempo. Complici anche i boom demografici dei vari paesi in via di sviluppo, il mondo arabo-musulmano, sempre più musulmano, è in piena ebollizione.
La dinastia Saud affonda il suo potere negli enormi giacimenti petroliferi d’Arabia, giustificando le spettacolari iniquità del suo sistema sociale con l’essere culla e custode della religione del profeta. La minaccia al loro petrolio (i sauditi accusano i russi di spingersi sempre più a sud attraverso l’Afghanistan per accaparrarselo) coinciderebbe perciò con una minaccia alle terre dove il profeta è nato e ha vissuto. Professare il rigido islam wahhabita torna utile ai sovrani per tenere buono il potente clero radicale afferente ai luoghi santi dell’islam, il cui messaggio raggiunge università e istituzioni culturali quasi ovunque, dal maghreb al mashreq. Sostenere il jihad afghano, sebbene sottobanco, è quindi una strategia utile per guadagnare le simpatie o almeno la neutralità degli islamisti più radicali, soprattutto giovani, che vengono allontanati dal Paese disinnescando il rischio di rivoluzioni. In tutto questo, i sauditi mantengono amichevoli relazioni di affari con gli americani, che a loro volta, nel contesto della Guerra fredda, vedono con favore la resistenza antisovietica in Afghanistan.
Samir legge al Azzam, da cui apprende che il jihad in Afghanistan è dovere di ogni musulmano, e non solo dei musulmani in generale, nel qual caso basterebbe che qualcuno, possibilmente un sovrano, lo combattesse. Per la sua generazione il jihad diventa un obbligo personale.
Samir si trova così davanti alla sua linea d’ombra: accettare una vita comoda in qualche oasi voluta dai Saud e costruita dai bin Laden, arricchita da quella che più tardi avrebbe definito — in un audio sarcasticamente intitolato Jihad da un appartamento arredato — “la spazzatura” della vita mondana: “desideri come un’auto, uno stipendio, una casa, una moglie”; l’alternativa è rifiutare tutto per dedicarsi a quel che è giusto, inseguendo grandi imprese che lasceranno ai musulmani l’eredità del suo nome e gli garantiranno un posto in paradiso, al costo del martirio.
Le tribolazioni di Samir durano un anno scarso, giusto il tempo di procurarsi un paio di lettere di raccomandazione che gli saranno utili per muoversi a Peshawar: una proviene da un uomo legato ai vertici pakistani della Mezza Luna Rossa — la Croce Rossa musulmana —, l’altra invece reca il timbro del Maktab al-Khidamat, l’Ufficio Servizi, organizzazione fondata da bin Laden e al Azzam che funziona come un ufficio erasmus per aspiranti mujaheddin, antesignano della rete internazionale che, più tardi, prenderà il nome di Al Qaida.
Samir raggiunge l’Afghanistan, si ferma due mesi, poi torna subito in Arabia Saudita per l’hajj, il pellegrinaggio alla Mecca. Il cuore dell’islam è ancora la Kaʿba, la costruzione nera al centro della Moschea Sacra, meta obbligatoria del pellegrinaggio per ogni musulmano che non sia impossibilitato a farlo almeno una volta nella vita. Una tappa dell’hajj prevede di compiere sette giri antiorari intorno alla Kaʿba, gli stessi giri compiuti ogni anno da oltre un milione di fedeli, che si radunano, si incontrano, assimilano idee, stringono legami e fanno affari. Ma è probabile che Samir si aspetti di non tornare più a casa, e nemmeno di vivere ancora a lungo, perché nel 1988 rientra in Afghanistan per diventare, definitivamente, un mujaheddin.
Afgana 2
La guerra contro i russi è faccenda perlopiù degli afgani, perché anche con tutto l’idealismo e la cupio dissolvi del mondo, la maggior parte dei ragazzini arabi accorsi in Afghanistan, alcuni dei quali, come Khattab, appena maggiorenni, a malapena raggiunge il fronte. Qui rimangono scottati oppure delusi, ammesso che siano riusciti a non finire nei guai già in Pakistan, prima ancora di arrivare.
Per molti è sufficiente aver tentato l’impresa, anche solo aver fatto una gita in direzione del fronte con un fucile in mano, per tornare indietro con il credito di devoti combattenti. Una minoranza però si unisce effettivamente ai mujaheddin e per questi l’Afghanistan diventa una micidiale palestra di addestramento: apprendono rudimenti di tattica militare e imparano a usare armi tradizionali come mitragliatrici (su tutte gli AK-47, assemblati in Pakistan sulla piattaforma progettata da Kalashnikov), pistole e granate, ma a partire dal 1986 anche armi ben più sofisticate. Dagli Stati Uniti arrivano i lanciarazzi stinger da spalla con guida laser, per la prima volta forniti fuori dalla NATO, che permettono di abbattere aerei ed elicotteri.
Tra i mujaheddin arabi, foreign fighter per antonomasia, paladini di un solo dio ormai indifferenti alle nazionalità d’origine – ma saldamente legati alle loro patrie in termini di finanze – si è messo in bella mostra Osama bin Laden, l’ennesimo figlio dell’uomo che ha materialmente costruito l’Arabia dei Saud. Oltre ad aver avuto facile accesso a materiali e macchinari da costruzione, Osama si è rivelato un abile collettore di denaro, che ha girato a una schiera sempre più nutrita di combattenti. Il suo ruolo sul campo è sempre stato messo in discussione, ma come ideologo e organizzatore si è dimostrato efficace.
Dopo sette anni di una guerriglia che i sovietici non erano pronti a combattere, nel 1986 l’esercito comincia a ritirarsi lasciando al governo fantoccio di Najibullah le incerte redini della Repubblica democratica dell’Afghanistan. Sul fronte dei mujaheddin, le fratture già preludono alla guerra civile che presto incendierà il paese e a farne le spese, nel 1989, è addirittura al Azzam, l’ideologo del jihad afgano, assassinato da un’autobomba mai rivendicata.
Nel 1991, con il crollo dell’URSS, il sostegno finanziario e militare si prosciuga improvvisamente e i mujaheddin colgono l’occasione per circondare Kabul e rovesciare il traballante governo di Najibullah. La pressione sui civili si allenta e cominciano gradualmente a riprendere vita i commerci e l’agricoltura, in particolare la filiera dell’oppio, che assume un valore strategico. Ma la gloria dura giusto una scintilla, perché il movimento, già frammentato, è spaccato tra due componenti principali: il Jamʿiyat-e islami dei tagiki Rabbani e Massud, e l’Hezb-e islami di Hekmatyar, un signore della guerra di etnia pashtun che controlla il traffico d’oppio nel sud del paese.
Ci sono poi milioni di rifugiati afgani, cresciuti nei campi profughi all’ombra dei mujaheddin e istruiti nelle madrasse pakistane, che hanno imparato a vivere circondati solo da insegnanti, guerriglieri e altri studenti, tutti maschi. Le loro giornate si alternano fra preghiere, studio del Corano, addestramento militare e un po’ di sport, dopodiché non c’è altro a cui sia lecito rivolgere l’attenzione. Il Mullah Omar, un orbo misticheggiante, ha preso le redini del movimento, il cui modello di Afghanistan indipendente è una gigantesca scuola coranica a cielo aperto. Queste fazioni prendono il nome di “talebani”, ossia studenti, e il credito guadagnato nella resistenza farà sì che la loro presa sulla popolazione, e l’influenza sulle sorti del paese, saranno più durature di quanto chiunque avrebbe previsto.
Rabbani diventa presidente nel 1992 e suo ministro della difesa è il generale Massud, un islamista che ha assimilato dagli occidentali un forte senso della nazione e della necessità di fondare uno Stato afgano. I contrasti con la fazione di Hekmatyar sono però insanabili, perché gli islamisti considerano uno stato, al massimo, come un sistema di cariche da assegnare a sé stessi e ai propri uomini. Hekmatyar e i talebani vogliono instaurare una teocrazia militare, sotto la cui ombra lugubre la popolazione deve solo pregare, lavorare, vendere, comprare e pagare le tasse che servono a mantenere una casta di soldati perennemente in guerra per Allah, e un clero che predica e sorveglia il rispetto dell’unica legge necessaria e ammissibile, la shari’a.
Scoppia così la vera guerra civile e benché per alcuni anni Massud riesca a respingere Hekmatyar, nel 1996 deve infine arrendersi alla marea montante dei talebani che risale dal Pakistan, e ripiegare nella sua roccaforte, il Panjshir. L’ex presidente Najibullah viene prelevato dentro il palazzo dell’Onu, per essere linciato e mutilato dai guerriglieri trionfanti.
L’Afghanistan sembra condannato a rimanere ancorato al suo stadio ottocentesco di terra circondata da stati che non riesce a fondarne uno proprio, e che a ogni tentativo finisce puntualmente per disgregarsi in un nugolo di potentati bellicosi capeggiati dai khan, gli emiri, i signori della guerra di turno.
In generale, il reale contributo militare dei mujaheddin arabi alla causa afgana è stato scarso per via del numero ridotto, dell’impreparazione, dell’attitudine dispotica e della propensione alle rivalità. Khattab non conserverà bei ricordi della sua formazione afgana e dei mujaheddin arabi. Anche Bin Laden ammetterà che erano troppo impreparati e dipendenti dagli afgani per sostenere il peso reale di una guerra, soprattutto su un terreno tanto duro. Khattab invece criticherà le troppe risorse investite nelle scuole coraniche e nell’educazione, che considera superflue: se non produce guerra, secondo lui il jihad degli arabi partorisce solo ideologia, oppure il nulla: “Qual è il destino dello studente che ha studiato quattro anni? Lavorare come cuoco in una pensione, andare in un paese del Golfo per imparare l’arabo o diventare un commerciante”. Secondo il radicale Khattab, per un musulmano devoto l’orizzonte di una pacifica vita borghese è una prospettiva spregevole, segno di un blasfemo attaccamento ai beni terreni, “la spazzatura della vita”. Sempre nell’audio intitolato Jihad da un appartamento arredato, Khattab ironizzerà sul benessere che avrebbe corrotto e infiacchito i musulmani di tutto il mondo: “L’obesità è cresciuta tra noi e ora abbiamo pance di cinque, dieci metri di diametro”.
Esportare il jihad
Khattab deve accettare di essere arrivato in Afghanistan quando i giochi erano già belli che fatti, e dunque il teatro della sua gloria dovrà essere un altro. Ha imparato a destreggiarsi con mitra ed esplosivi, ma anche a manovrare ruspe, abbattere alberi e fare tutti i mestieri necessari alla costruzione e gestione degli accampamenti militari. Khattab si è rivelato zelante e pratico ma anche carismatico. Mentre la tela di bin Laden si allarga dalla Malesia al Kenya e l’Afghanistan piomba nella violentissima guerra che lascerà sul campo centinaia di migliaia di civili, nei primi anni Novanta Khattab assume il suo nome di battaglia — dal califfo vissuto nel VII Secolo, ʿOmar ibn al-Khaṭṭāb — e decide di proseguire guidando ventre a terra il manipolo di irriducibili che gli si è formato attorno. Vuole innescare un nuovo jihad e crede che il Tagikistan sia il posto giusto.
Insieme a Uzbekistan e Turkmenistan, il Tagikistan è uno dei paesi confinanti con il nord dell’Afghanistan abitati da musulmani di lingua turca finiti nell’orbita russo-sovietica. Dopo il crollo dell’URSS, in Tajikistan scoppia la guerra civile e le frange musulmane che guardano con speranza al modello afgano chiedono aiuto ai mujaheddin per liberarsi del governo di Emomali Rahmon. Il gruppo di Khattab, forte dell’esperienza accumulata e consapevole che ormai dal jihad non si torna più indietro, raccoglie l’invito e nel 1994 raggiunge il confine, dove trova una situazione ancora più dura di quella afgana.
Il sud del Tagikistan è privo di collegamenti e per raggiungerlo occorre raggiungere lo stretto corridoio che unisce l’Afghanistan alla Cina e superare il Panj, un fiume impetuoso e irto di rocce, praticamente non navigabile. Secondo Khattab “solo attraversarlo è jihad”. Poi bisogna proseguire a dorso di mulo anche per tre giorni, prima di raggiungere una postazione buona per attaccare l’esercito federale. Tutto questo può avvenire, però, soltanto durante l’estate, perché l’inverno desertico del Tagikistan non lascia scampo. Ai primi freddi bisogna tornare indietro, rifacendo la trafila al contrario ma riportando ferite e feriti.
Khattab trova armi, medicine, attrezzi e logistica, incluse barche e gommoni per attraversare il Panj: vuole fondare un esercito, ma poco più di un centinaio di mujaheddin non possono fare molto senza l’appoggio della resistenza locale, con cui stabilisce contatti chiedendo reclute da addestrare; promette che gli arabi forgeranno i mujaheddin tagiki, ma anche che combatteranno al loro fianco; il ruolo dei suoi, giura, sarà in prima linea. Nonostante gli sforzi, però, i rapporti con i locali non maturano e anzi, finiscono per intricarsi nelle fitte maglie delle diffidenze tribali, contro le quali nemmeno l’unicità di dio può nulla. Se per Khattab il jihad afgano era già finito, quello tagiko neanche comincia.
Khattab torna in Afghanistan senza un disegno in mente e proprio in questo periodo di assenza di prospettive commette un errore: durante un’esercitazione qualcosa non va con una granata e l’esplosione gli costa tre dita e buona parte della mano destra. Deve perciò imparare a servirsi della sinistra, più il moncherino dell’altra che terrà fasciato per il resto della vita. I tempi di ripresa fisica sono rapidi, ma continua a mancargli un obiettivo.
L’Emirato islamico è nel frattempo divenuto il santuario dei jihadisti in esilio, che accoglie combattenti e radicali da paesi più o meno vicini: uzbeki, uiguri e persino caucasici. Uno di questi riferisce che da dove viene lui ci sono altri musulmani sottomessi dai kuffar, che massacrano uomini, donne e bambini. Khattab non ha mai sentito nominare quella terra infelice e non sa dove si trovi, ma poi sente qualche notizia in televisione, perciò si procura una cartina e comincia a studiare. Qualcuno sostiene che là, sulle pendici settentrionali del Caucaso, non possa esserci jihad, perché quelli non sono nemmeno veri musulmani — sono sufisti; altri testimoni gli garantiscono invece che si tratta di un popolo fiero di combattenti devoti a Allah, pronti a tutto per riscattare le umiliazioni subite e ottenere l’indipendenza. Gli promettono che se andrà là di persona e vedrà il coraggio di quella gente, non tornerà più indietro.
Khattab vorrebbe capire meglio, ma le informazioni che gli arrivano sono vaghe e contraddittorie, così l’unico modo di sapere se si tratti davvero di jihad e se ci sia margine per un suo coinvolgimento è andare sul posto. All’inizio del 1995 dunque è deciso: con una dozzina di mujaheddin Khattab proseguirà verso est e poi su, fino al nord del Caucaso, in quella porzione di terra che ha da poco preso il nome di Repubblica cecena d’Ichkeria.