Il racconto lungo Bartleby lo scrivano, pubblicato nel 1853, raccontava l’annichilimento da lavoro d’ufficio, ma solo nel 1866 Herman Melville avrebbe cominciato i suoi vent’anni di impiego alle dogane di New York, nei cui stabilimenti sarebbe invecchiato. Da giovane era stato commerciante, insegnante, infine nel 1841 aveva preso il mare, prima come mozzo, poi come marinaio e baleniere, un’esperienza pluriennale che portò alla scrittura dei romanzi Typee, Omoo, La giacchetta bianca, fino al culmine del mastodontico capolavoro Moby Dick (1851), che non ebbe, al momento dell’uscita, alcun successo. Melville dedicò Moby Dick all’amico Nathaniel Hawthorne. Anch’egli aveva lavorato per anni come agente di dogana, e vi avrebbe fatto riferimento nel suo romanzo più celebre, La lettera scarlatta (1850).
Praticarono la professione medica Conan Doyle, Cechov, Bulgakov.
Kafka lavorava come agente assicurativo, e scriveva la notte.
“Vivo ora nel campo tecnico, così lontano da ogni alfabetismo, così assorto in ferraglie, così povero di idee generali, così affogato nel lavoro bestiale”, scriveva, nel 1927, l’Ingegnere Carlo Emilio Gadda, per il quale la scrittura era diventata la via di fuga da una realtà altrimenti opprimente. “Lavoro come posso per il Politecnico”, proseguiva: per lui il lavoro e la letteratura abitavano ambiti distinti e separati.
Successivamente il chimico Primo Levi fu impiegato e poi direttore di una ditta di vernici nel torinese. Stessa qualifica, ma al catasto di Asiago, per Mario Rigoni Stern. Leonardo Sciascia lavorò per diversi anni al Consorzio Agrario di Racalmuto.
La lista degli scrittori che non hanno “solo scritto”, ma anzi hanno vissuto gestendo la coesistenza tra il proprio lavoro – un altro lavoro – e la propria scrittura, con i conseguenti conflitti o magari i reciproci arricchimenti tra rami diversi, sarebbe probabilmente interminabile.
Lavorare, e intanto pensare a cosa scrivere. Scrivere dopo aver lavorato. Lavorare acquisendo nel tempo una visione coerente del mondo, e cercare intanto le parole giuste per definirla, ampliarla, riprodurla. Lavorare e servirsi dell’immaginario conosciuto (anche) nel lavoro, per generare altre realtà. Tentare la fusione tra il lavoro e la scrittura, oppure scorporare completamente i due campi, lavorare immagazzinando parole, con lo scopo di usarle nel tempo libero dal lavoro. E poi forse il fine ultimo: affinare al massimo il funzionamento degli innumerevoli vasi comunicanti che compongono un umano – lavoro, creatività, sonno, sesso, sogni, genoma, abilità motorie, asperità del carattere, conoscenze artigianali, facoltà di tradurre tutto ciò in arte – per renderli elementi coerenti tra loro di una stessa, inscindibile opera.
In Italia, negli anni più recenti, mi vengono in mente due nomi della letteratura che si sono avvicinati a questo obiettivo: il primo è Vitaliano Trevisan, che nel suo monumentale Works ha raccontato in maniera capillare la sua vita attraverso la lente di ogni singolo lavoro svolto. Il secondo è Francesco Pecoraro. Pecoraro – intervistato su questo blog pochi mesi fa – è un autore essenziale della narrativa italiana contemporanea. Dopo una lunga attività come architetto e urbanista, diventa scrittore di professione in una seconda vita, iniziata ufficialmente nel 2007, quando Mondadori pubblica la sua prima raccolta di racconti Dove credi andare. Nel 2008 pubblica Questa e altre preistorie (Le Lettere), un’opera di prose a metà tra saggistica e narrativa, che raccoglie gli appunti sparsi tra la scrivania e il blog personale e che anticipa i temi dei suoi successivi due pluripremiati romanzi, La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) e Lo stradone (Ponte alle Grazie, 2019). È ora in uscita, sempre per Ponte alle Grazie, Camere e stanze, una raccolta di racconti composta di tre parti: la prima è la riproposizione integrale della prima opera, Dove credi di andare; la seconda parte consiste in un solo racconto lungo inedito, Tecnica mista; nella terza, dal titolo Altre forme, troviamo altri quattordici racconti, scritti in un periodo più recente, anch’essi inediti.

Franz Krauspenhaar, recensendo nel 2007 la prima opera di Pecoraro, Dove credi di andare, scrisse che “La letteratura è l’espressione artistica di un pensiero rilevante sulla vita, di una vera rilevante visione. E per arrivare a questo ci vogliono spesso anni e anni, bisogna essere andati a combattere sulla “strada”, bisogna aver vissuto sul serio. Pecoraro parla di ciò che meglio sa, è evidente. Il mondo dei professionisti si capisce che lo conosce molto bene, che lo ha vissuto e lo vive dall’interno, che lo fuma, lo beve, lo mangia, lo smaltisce”.
I racconti della prima parte di Camere e stanze, in cui l’universo professionale e le sue dinamiche sono centrali, trattano disfunzioni relazionali e sociali che negli episodi di maggiore realismo ricordano la produzione in forma (più) breve di Calvino (La speculazione edilizia), e in quelli più surreali, e a volte angosciosi, si avvicinano – con ambientazioni metropolitane al posto degli scenari fiabeschi, ma in presenza di simili evocazioni oniriche – al Buzzati dei Sessanta racconti.
Nel caso di Francesco Pecoraro, però, la prossimità tra punti cardinali della sua professione e della sua letteratura, se c’è, è più profonda e riguarda elementi portanti, costitutivi, originari, cioè l’interesse per le forma, la concezione di spazio, l’importanza della struttura, la precisione, l’osservazione, un’osservazione della realtà così minuziosa e esatta da sembrare capace di trasmettersi, per osmosi, al lettore stesso; ma forse, più di tutto, questa prossimità riguarda la progettualità e l’organicità – una vera rilevante visione. Tutta la produzione di Francesco Pecoraro è organica per stile, temi, visione d’insieme, e in Camere e stanze se ne trova conferma.
Anche qui, il suo stile non prevede virtuosismi ombelicali gratuiti né descrizioni ridondanti, e si serve di un’ironia amara e tagliente, che sa fermarsi prima di diventare cinica. Anche qui si scrive non ostante, e se un personaggio è un pò coglione viene definito un pò coglione, e si possono trovare pezzi del genere: “Mi suicido perché le stelle sono così lontane che ogni volta che ci penso sto male. Mi suicido perché quando le vedo non riesco mai a trovare la stella polare. Mi suicido perché ho scaricato l’apposita applicazione Stellarium per iPhone, ma non so usarla. Mi suicido perché sto sempre lì, con l’iPhone in mano, come uno stronzo qualsiasi. Mi suicido perché sono uno stronzo qualsiasi. Mi suicido perché non ho letto e mai leggerò Guerra e Pace. In particolare mi suicido perché mi blocco sempre sulla pagina dove un nobile dissoluto beve vodka in piedi sul davanzale di un palazzo di Pietroburgo.” Anche qui i personaggi fanno i conti con una continua narrazione e rielaborazione di aree cognitive, che possono riguardare le compromissioni politiche, la corruzione e la conseguente emarginazione per non aver acconsentito (Vivi nascosto), la sorprendente reazione a uno scippo (Farsi un rolex), un aperitivo che si trasforma in un incubo (Happy hour), la deviazione autolesionista dal flusso del conformismo (Uno bravo), il rapporto col Mare, con Padre e con Madre (Non so perché), gli ansiolitici, l’attrazione e l’incomprensione verso l’altro sesso (Cormorani) – e sono costretti a riflettere sulla loro formazione e sul loro sviluppo, sui desideri che producono, e come li inseguono, e cosa diventano se invece qualcosa non funziona, se tutto fallisce.
Anche qui quasi tutti i personaggi sono maschi, quasi tutti più che affini tra loro – Guido in Non so perché e Stefano in North American P-51 Mustang, proprio come Ivo Brandani in La vita in tempo di pace, sono bambini o ragazzini che hanno di fronte la stessa minacciosa e decisiva entità: Padre – , eppure sempre leggermente diversi.
Anche qui riflettono su quanto e come l’espressione di sé – che può essere artistica, professionale, relazionale; riuscita o mancata; felice o fallimentare; e spesso è fallimentare – abbia inciso sulla propria vita, e con quali conseguenze; personaggi che fanno i conti con quale sia il pensiero rilevante sulla vita che ognuno di loro si costruisce ed è in grado o meno di portare avanti.
Il racconto in questo senso più emblematico, posizionato come l’ago di una bilancia al centro dell’intera raccolta, è Tecnica mista: non è l’unico a mettere al centro la meditazione sull’arte, o l’ossessione per l’arte; già Il match e Rosso Mafai seguivano questa traccia. Ma qui il protagonista Bilal, libanese trapiantato a Londra, narra in forma epistolare la sua intera vita – il rapporto con l’arte e la pittura, vissute come una totalizzante ragione di vita, in seguito il senso di smarrimento e esclusione (esclusione dalla possibilità di vivere del proprio talento; da una comunità in cui non si riconosce), infine la deviazione verso la radicalizzazione fondamentalista – creando un affresco totale in cui si mischiano riflessioni cruciali su emigrazione, sradicamento, appartenenza, individuazione di uno scopo vitale per sé stessi.
Nella terza e ultima parte di Camere e stanze, la tecnica epistolare torna anche in Mi suicido per via dei miliardi di anni, dove un suicida lascia uno scritto con enumerate una per una – in maniera minuziosa, eccezionale – le radici del suo gesto.
La morte, l’adolescenza, la trasformazione, con Roma che ritorna a essere il più frequente sfondo geografico e sociale, sono le altre forme di questi ultimi quattordici racconti.
Si racconta la storia di un tredicenne, Stefano (North American P-51 Mustang). Il suo corpo, la sua psiche e le sue conoscenze sono al primo stadio della vertiginosa mutazione adolescenziale, e deve fare i conti con tutto ciò che ne consegue: Padre autoritario e distante, Madre protettiva, il corpo goffo e incontrollabile, i rapporti di forza regolati in base al grado di prevaricazione, esperienza o ingenuità, l’impaccio e l’attrazione verso una ragazza più grande, i primi ragionamenti consapevoli su alcune incongruenze di base dell’educazione cattolica. Un giorno Stefano torna a casa da scuola e non trova nessuno: la sua famiglia non c’è più, ha traslocato. “Come mai stai qua? Non sei annato via con gli altri? Pensavo che eravate annati tutti via…”, gli dice il portinaio. La casa è vuota, piena di polvere, dei mobili sono rimaste solo le impronte, ma in camera sua tutto è stato lasciato com’era: la scrivania, la lampada, gli abiti, le infradito gialle, il letto rifatto con la coperta a fiori. Sul comodino c’è ancora la sua versione ridotta di Moby Dick.
Si racconta, con un feroce, esilarante registro grottesco, un episodio che dovrebbe sconvolgere la deprimente cornice quotidiana di un convitto del centro storico (Nosferatu); si raccontano gli allenamenti adolescenziali nei campi scuola di una città in piena espansione edilizia, e i primi soccombenti (Il Fregno) o emarginati eroi (Il bove), una insostenibile festa di intellettuali su un barcone sul Tevere (Fuori lista), distopie che prefigurano futuri ipotetici per i roboti di domani, per esempio contratti di lavoro di un solo giorno e metropoli dove si paga un pedaggio per camminare sui marciapiedi (La Città Indiscussa), romanissimi pittori alcolizzati che vagano per la città al tempo di Tangentopoli (Lenzuola fresche, improfumate).
Sono forme instabili, destinate a cambiare o a rimpiangere, a non riconoscersi, a fare affidamento in una metamorfosi. Forme anche assenti e ipotetiche, come può esserlo il desiderio di essere altrove, e fare un’altra vita.
“Tutto quello spazio era stato un tempo il teatro naturale, la grande camera marina di molte sue lunghissime estati. Lì aveva costruito e sostanziato alcune aree cognitive del suo cervello: l’area dell’acqua, innanzi tutto, l’area del vento e delle onde, l’area del navigare a vela, l’area del British Seagull e di come (non) si metteva in moto. L’area del partire per mare verso le Isole. L’area mentale dove aveva stipato l’apprendimento del nuoto subacqueo e della pesca. L’area dei polpi. Successivamente l’area della tavola a vela, l’area dei groppi improvvisi di vento e di come si affrontavano. L’area delle grandi libecciate e di come si plana sull’onda. L’area dell’Arco Muto. L’area dei grossi granchi tra i massi delle dighe foranee. Lì aveva appreso e organizzato i primi dati decisivi sulle donne, sul sesso, sull’amicizia. Lì aveva confrontato quello che lui tendeva ad essere con ciò che erano gli altri, i suoi coetanei. E loro non gli piacevano, ma neanche gli piaceva il sé stesso che stava diventando. Lì, quando erano entrambi ragazzi, aveva conosciuto Clara”.