La domanda di rito
L’11 settembre 2001, nel primo pomeriggio, prima di ricominciare a preparare un esame di storia, me ne stavo sul letto con la mia fidanzata quando ricevetti una telefonata. La voce dall’altra parte – non ricordo chi fosse – mi diceva di accendere immediatamente la televisione. Subito trovai le immagini, trasmesse anche in Italia a reti quasi unificate, dell’aereo – il volo 11 dell’American Airlines – che si era appena schiantato contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Le sequenze erano inequivocabili ma le notizie ancora confuse, e servì il secondo attacco contro la Torre Sud, e poi quello sul Pentagono, per avere la certezza che si stesse trattando di una serie di attentati.
Da quel giorno sono passati vent’anni, ma ricordo perfettamente la sensazione che si faceva largo, scena dopo scena: sentivamo di essere, anche per via della concitazione di reporter e annunciatori, testimoni di un evento che avrebbe determinato il futuro.
Gli attacchi alle Twin Towers hanno segnato l’inizio di un nuova Storia dopo la Fine di quella precedente, conclusasi insieme alla guerra sorda fra gli Stati Uniti e il blocco comunista.
Le immagini delle due torri ferite e fumanti sono state al centro di una rivoluzione che ha sconvolto e ridefinito, oltre alla geopolitica, anche il sistema informativo globale. Questo, nonostante internet fosse diffuso ancora poco o male, almeno in Italia, e spesso solo attraverso le frizzanti connessioni a 56k.
L’11 settembre a 56k
In Italia l’ADSL esiste proprio dal 2001, ma nei primi anni Zero la sua diffusione procedeva a singhiozzo. Nel 2005 il Ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi emanò un Decreto cosiddetto anti-digital divide che doveva favorire le connessioni wi-fi, ma il Ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu ne frenò l’attuazione con un altro decreto, che permetteva l’accesso alle reti “aperte” solo previa identificazione dell’utente. La preoccupazione principale, dopo i fatti dell’11 settembre, era che la Rete, vista come una spelonca buia e pericolosa come quelle dove era nascosto Bin Laden, favorisse le comunicazioni e il coordinamento dei terroristi islamici.
Nel frattempo gli operatori offrivano connessioni a banda sempre più larga con tariffe flat e così, negli anni successivi, tutti cominciammo a scaricare di tutto, principalmente via eMule e, più tardi, via BitTorrent. Una volta faticosamente ottenuti i file durante sessioni nottambule al chiaro di schermo – imboscando i porno agganciati ovviamente “per sbaglio” – la routine consisteva nel masterizzarli su cd o dvd che poi venivano scambiati e, in poco tempo, consumati.
Un bit dopo l’altro arrivò dunque il 2006, quando gli Americani avevano già bello che giustiziato l’Asso di picche e dopo che l’invasione dell’Iraq, giustificata con la presenza nel paese di armi di distruzione di massa e con il suo essere un componente dell’“Asse del male” – copyright di George W. Bush –, ossia uno Stato canaglia che sosteneva e ospitava il terrorismo islamico internazionale, si era già dimostrata la balla colossale che sembrava in partenza.
Proprio nel 2006, oltre a Tool, Black Keys, Beck, Amy Winehouse e discografie intere dei Doors, scaricai un po’ per caso un documentario cupo e catturante, dove si suggeriva che la versione ufficiale degli attacchi alle Twin Towers, il casus belli a monte di quel macello che sarebbe fermentato nel collasso di Iraq e Siria e nella nascita del Daesh, fosse tutta una bufala governativa. Il titolo era Loose Change.
Loose Change: il qanone cospirazionista
Loose Change non doveva essere un documentario, ma una sorta di pop-corn movie estivo in cui tre studenti scoprono che dietro l’11 settembre c’è la mano del governo americano. Il ventunenne Dylan Avery, regista, sceneggiatore e produttore, cominciò a cercare materiali per realizzare il film ma subito si convinse che i suoi dubbi sull’accaduto fossero legittimi, tanto da decidere di farne un documentario.
La scia era quella di Fahrenheit 9/11, l’autorevole docu-film di Michael Moore che gettava luci – e ombre – sui rapporti tra la famiglia Bush e i Bin Laden. Moore insinuava, ma in definitiva sosteneva, che il Governo degli Stati Uniti conoscesse in anticipo i piani di Al Qaida, ma che li avesse lasciati attuare così da giustificare le successive campagne militari in Afghanistan e in Iraq.
Con un budget di circa duemila dollari, Avery assemblò in casa propria tutti gli spezzoni di filmati su cui riuscì a mettere le mani, facendoli vagliare dal suo amico e co-produttore Korey Rowe, un diciannovenne che – strano il destino – dopo essersi arruolato nell’agosto del 2001 era finito in missione in Iraq.
La prima versione di Loose Change uscì nell’aprile 2005, e conteneva già alcuni degli elementi che avrebbero fatto presa nell’immaginario cospirazionista: l’improvviso crollo dell’edificio 7, la facciata del Pentagono che appariva troppo poco danneggiata per essere stata colpita da un volo di linea, l’aereo caduto in Pennsylvania che sembrava aver prodotto troppi pochi detriti e, ovviamente, le due torri, i cui collassi gemelli ricordavano le demolizioni controllate degli edifici.
La prima edizione di Loose Change riscosse un buon successo ma venne giudicata troppo grezza dai suoi stessi autori, che decisero di mettersi subito al lavoro per farne una versione rivista e integrata. La squadra venne ampliata includendo un terzo elemento, Jason Bermas, e nel novembre del 2005 la seconda edizione del documentario era già pronta.
Pubblicizzato soltanto su internet, Loose Change: 2nd Edition era ordinabile attraverso il sito web dedicato e il dvd veniva spedito per posta, in quantità che secondo gli autori raggiunsero anche le cento unità al giorno. YouTube era appena nato e a spadroneggiare era Google Video, piattaforma dove i fan del documentario cominciarono a caricare quotidianamente nuove versioni tradotte in spagnolo, francese, arabo, italiano. Il successo fu inatteso e inaudito, forse il primo caso di contenuto davvero virale.
L’anno successivo Loose Change fece il botto, raggiungendo le 10 milioni di visualizzazioni e diffondendosi ulteriormente, in maniera sotterranea ma efficacissima, via eMule e BitTorrent (proprio la strada attraverso cui la 2nd Edition arrivò al sottoscritto).
Il movimento dei cosiddetti Truthers, i teorici della cospirazione che chiedevano la verità sull’11 settembre, crebbe fino a lambire il mainstream: diverse personalità del cinema, come Martin Sheen, Woody Harrelson e Mark Ruffalo, e financo della politica, come l’avvocato Van Jones, membro dell’Amministrazione Obama costretto alle dimissioni, nel 2009, proprio per le sue idee sull’11 settembre, presero pubblicamente posizione continuando a esprimere dubbi per anni.
Nel frattempo Avery, Rowe e Bermas pianificarono una terza edizione di Loose Change, sostenuta da un nuovo nucleo di produttori esecutivi tra cui spiccava Alex Jones, che in anni più recenti si è distinto come grande diffusore di teorie della cospirazione, dal Pizzagate antesignano e costola di QAnon, al negazionismo poi ritrattato del Massacro di Sandy Hook. Si parlò addirittura di un interessamento di Charlie Sheen come voce narrante e del miliardario Mark Cuban in veste di distributore, che però alla fine non presero parte al progetto.
Loose Change: Final Cut andò comunque in porto: uscito nel novembre del 2007, raggiunse istantaneamente la vetta di Google Video ma non ottenne il successo commerciale sperato benché, alcuni anni dopo, fosse disponibile persino su Netflix. Tuttavia il seme era gettato: il documentario cospirazionista aveva un canone di riferimento, dal montaggio alla colonna sonora (particolarmente azzeccato l’uso dei synth), ma, soprattutto, era sdoganata l’idea che facendo “ricerca” da casa propria si potessero svelare e diffondere le Verità che i Poteri forti tengono nascoste al Popolo.
Teorie che funzionano: vent’anni di 11 settembre
“Believing 9/11 was a conspiracy wasn’t about liberal versus conservative or Republican versus Democrat. It was about people who believed what they were told and people who were skeptical of the government.”
John McDermott, A Comprehensive History of “Loose Change” and the Seeds It Planted in Our Politics, Esquire, 10 settembre 2020.
Nel suo recente La Q di Qomplotto, Wu Ming 1 rintraccia proprio nel movimento dei Truthers, e nei big spreader di notizie false come Alex Jones (grande amico di Trump), alcuni dei prodromi e precursori di QAnon. Senza scendere nel merito delle questioni tecniche, Wu Ming 1 evidenzia i limiti più clamorosi che accomunano le teorie cospirazioniste sull’11 settembre a QAnon: su tutti il numero impossibile di soggetti che dovrebbero esservi coinvolti, oltre all’inspiegabile silenzio dei servizi di intelligence dei paesi rivali – Cina e Russia in primis – che avrebbero avuto tutto l’interesse a denunciare piani come quelli imputati al Governo americano, tanto per l’11 settembre quanto per le allucinazioni pedosataniste di QAnon.
C’è una parola pigliatutto, e in quanto tale abusata, che si sente correntemente nell’ambito dell’editing visivo e testuale, a proposito di una grafica o un copy: “funziona”. “Funziona” significa che il giudizio sul valore intrinseco del singolo elemento è sospeso, e che la valutazione ultima della sua bontà è data dall’integrazione con il contesto e dall’atmosfera che contribuisce a creare.
Le teorie cospirazioniste raramente possono essere valutate in termini di verità, poiché mancano i dati oppure non si è realmente in grado di comprenderli, e dunque le si abbracciano o ripudiano in base a come esse li legano – in base a quanto funzionano – nel contesto delle proprie idee e valori.
A proposito di teorie della cospirazione e di visioni paranoiche della politica, negli anni Zero ancora non si parlava di analfabetismo funzionale, e il fatto che figure accademiche credibili avessero idee cospirazioniste sull’11 settembre non suonava eclatante quanto, per esempio, le odierne prese di posizione di Luc Montagnier su Sars-Cov-2 e vaccini.
Sebbene le spiegazioni dei crolli delle Twin Towers abbiano impegnato fisici e ingegneri per diversi anni, poiché si tratta di problemi complessi – non meno di quelli posti dalla pandemia – tuttavia la questione sostanziale rientrava nel dominio della geopolitica, un campo dove le opinioni possono viaggiare più liberamente rispetto alla microbiologia.
Loose Change convinceva qualcuno, altri rimanevano agnostici, ma i dubbi che suscitava trovavano terreno fertile nella cultura di sinistra. Questo perché, da sinistra, si era ben consapevoli di complotti e false flag reali (dal Protocolli dei Savi di Sion, bibbia dell’antisemitismo moderno, all’incidente del Golfo del Tonchino, che di fatto dette il via alla Guerra del Vietnam), nonché delle violente ingerenze americane in tutto il mondo (vedi, per dirne una, il primo 11 settembre, quello cileno). E il fatto che gli attentati fossero un pretesto per giustificare l’invasione dell’Afghanistan, ma soprattutto quella successiva dell’Iraq – basata, com’è noto, su informazioni false – a posteriori contribuì a rafforzare la teoria di una macchinazione governativa. Per questo, a prescindere da quanto fosse credibile, l’idea di un attentato organizzato, oppure lasciato correre per convenienza, dall’establishment americano, “funzionava”.
Viralità senza anticorpi
Nell’ultimo anno e mezzo, per l’urgenza scomposta di “fare qualcosa” contro la Covid-19, è stato fatto tutto e il suo contrario (vedi il balletto sul vaccino AstraZeneca, appositamente ribrandizzato Vaxzevria), minando la credibilità delle istituzioni politiche (semmai ce ne fosse bisogno), e soprattutto di quelle scientifiche. Ma a fronte di una crisi sanitaria innegabile, salvo disturbi cognitivi o psichiatrici, le misure emergenziali intraprese sono state figlie della politica e come tali suscettibili di critica.
Quando si ha a che fare con le “fantasie di complotto”, la cosa peggiore è constatare come la loro diffusione pregiudichi la nascita di una coscienza critica concreta ed efficace. Tutte le panzane che costellano quella galassia che si definisce sbrigativamente come no-vax – dai negazionisti della pandemia agli scettici sui vaccini –, per esempio, hanno avuto un grave effetto collaterale: hanno spinto anche le voci più critiche e scientificamente autorevoli ad assumere posizioni oltranziste o supine nei confronti delle misure più assurde prese dai governi pandemici, passati e presenti. Alcuni esempi: fare gli occhi dolci alle imprese garantendo la continuità produttiva sotto lockdown tramite la lotteria dei codici ATECO, per cui un’azienda di cosmetici è considerata strategica; agire con pugno duro contro runner e movida, laddove tutti sanno che le attività all’aperto e previo distanziamento presentano rischi quasi nulli di contagio (o comunque non peggiori del recarsi in fabbrica con l’autobus); trattare le Big Tech (Amazon, Google, Apple ecc.) come paladine dei cittadini in lockdown, lasciandole arricchire senza chiedere loro un euro di tasse (è ancora da vedere cosa accadrà con la Global Minimum Tax approvata dall’UE nel luglio 2021). E l’elenco sarebbe lungo.
Il risultato è che le uniche voci critiche realmente udibili sono rimaste quelle di chi, mosso dalla paura e sommerso da informazioni aliene a ogni forma di sapere strutturato, scegliendo inconsapevolmente il “socialismo degli imbecilli” crede di combattere nemici e complotti immaginari, trascurando quelli reali.
Per opporsi al progetto criminale che l’amministrazione Bush aveva sul Medio Oriente, non serviva sostenere che l’11 settembre fosse il frutto di una cospirazione governativa, anzi: farlo ha avuto l’effetto di delegittimare l’opposizione a quelle guerre infami. Ed è questo il problema principale con l’11 settembre, QAnon e i microchip di Bill Gates, come avverte Wu Ming 1 già nel sottotitolo del suo libro: in un modo o nell’altro, “le fantasie di complotto difendono il sistema”.