La valanga del “calcio d’élite” ha deciso di accelerare, ma erano chiare da un pezzo sia la direzione che l’irreversibilità.
Quando ha preso forma, la valanga? Quando ha cominciato a precipitare? Ai mondiali messicani del 1986, secondo quanto sosteneva Gianni Mura: i primi in cui le zanne di sponsor e tv hanno cominciato a mordere con gusto una preda così grande e nobile.
La valanga ha cominciato a rotolare senza più fermarsi, ma non ha smesso di farsi guardare, perché la devastazione si è sempre accompagnata allo spettacolo della natura; che proprio i mondiali del peccato originale avessero portato in dote il gol del secolo, sembrava quasi una dichiarazione d’intenti.
Non era facile smettere di guardare, perché mentre le appartenenze sbiadivano e i giocatori cominciavano a diventare professionisti in mano ai procuratori, giocava pur sempre Baggio; mentre comparivano i nomi sulle maglie, s’infittivano gli sponsor e qualcuno iniziava a portare sulle spalle il numero 34, o 99, o 46, mentre i prezzi dei cartellini si gonfiavano perdendo ogni equilibrio e le società si trasformavano in finanziarie, il risultato visivo finale era comunque Ronaldo; quando lo stesso Florentino Perez che oggi è il principale fautore del golf club credeva adatto affastellare un campionissimo sull’altro facendo leva unicamente sui soldi e sul prestigio del club (non ancora “marchio”), era pur sempre Zidane quello che svolazzava per il campo.
Molti altri detriti si sono saldati alla valanga, aumentando la mole e la velocità del crollo: le partite disposte in ogni angolo del giorno e della notte, come morfina per dipendenti terminali; la forbice sempre più ampia tra forti e deboli, forse per segnalare una volta di più l’aderenza del calcio alla realtà; il florilegio di magliette, seconde, terze, quarte magliette, a volte grottesche, e sempre diverse ogni anno, per essere nuovamente acquistate; terzini e medianacci pagati somme faraoniche, magari per giustificare una plusvalenza e gonfiare la bolla ancora un po’.
La valanga ha accelerato in modo ancora più triste quando, dopo giornali e mezzibusti, hanno cominciato a disquisire di plusvalenze, conti e debiti gli stessi, poveri appassionati: li vedevi, al bar o in piazza, che computavano quanto potesse fruttare la vendita di un giovanissimo attaccante appena sbocciato, venderlo per poi comprare a poco un altro giovane, e poi vendere quello per comprare altri giovani, da rivendere, in una spirale impazzita dove il gioco in sé – e lo stesso, legittimo desiderio di veder migliorare la propria squadra – era già in dissolvenza sullo sfondo, e la centralità del trading li aveva trasformati in bizzarri ragionieri al servizio di entità astratte; ma nel frattempo continuavano a splendere Messi e Totti.
Finita l’era dei vecchi presidenti scialacquatori, che mettevano le pezze ai debiti di tasca propria, coi soldi del petrolio, delle automobili o delle televisioni, le squadre sono andate in pasto a colossi internazionali senza un volto definito, ma con alcune buone idee, per lo più incentrate sull’ampliare il proprio mercato e macinare soldi.
Lo stesso grande Barcellona, che si cresceva i fuoriclasse in casa, e batteva con la forza dell’identità i campionissimi ammucchiati dal Real(ity) di Perez, e s’inorgogliva della maglia blaugrana ancora senza scritte, ha via via accettato lo sponsor, ha dovuto pagare i suoi campioni tanto quanto quelli del Madrid, e oggi si ritrova con un miliardo di debiti.
Debiti, sì: il golf club lo stanno mettendo in piedi, supportate da dollaroni americani, società giganti indebitate fino al collo. Come se una grande banca in dissesto, anziché ridefinirsi con una ristrutturazione sensata (che nel calcio potrebbe equivalere a un tetto salariale, un abbassamento del costo dei cartellini, una redistribuzione dei soldi dei diritti tv), optasse per la follia di distanziarsi sempre di più dai clienti, fino a truffarli apertamente, e amplificasse il delirio di onnipotenza, espandendo la bolla fino all’inevitabile esplosione. Ah, giusto: succede quasi sempre così.
E la banca in dissesto che il calcio è diventato, non ha cuore di capire nemmeno una regola aurea, quella dell’eccezionalità: Inter-Milan, Real Madrid-Barcellona, Liverpool-City hanno senso proprio perché accadono due volte all’anno, e perché prima si è giocato col Benevento, l’Eibar, il Fulham.
Sarà giusto che sparisca, potrà magari ricrearsi: come ebbe a dire Borges, ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio. E il calcio vero, per fortuna, non sarà mai – con rispetto – come il golf.