Prendete in considerazione per qualche minuto questa fotografia di Witkin. Provate a osservarla, senza giudicarla.
Due teste di anziani, due teste mozzate di vecchi uomini, sorrette da brandelli marci di pelle, rimasugli di cartilagine, muscoli e vene in secca, come stracci sporchi gettati in un angolo.
Il fatto che possa ripugnarvi (l’autore o la sua opera), farvi incazzare o semplicemente infastidirvi, non mi interessa.
Non è il punto della questione, l’inutile “mi piace”.
“Non mi piace”.
E idiozie del genere.
Serve?
A me, questa fotografia, serve.
La guardo con insistenza, la studio e la interrogo fino a farle spurgare anche il più piccolo significato o suggestione.
A tratti questi volti pallidi sembrano appartenere allo stesso individuo, replicato due volte, in un gioco disturbante di specchi, dove lo specchio non è realtà tangibile, ma una presenza vaga, un’intuizione. I due crani ingrigiti, leggermente inclinati, si offrono, l’uno all’altro, con una passione e una dolcezza indiscutibili, che ci mettono a disagio. Non credo che Joel-Peter Witkin, maestro maledetto di gotici tableau putrefatti, avesse altra intenzione se non quella di generare in noi, un tempo fragili (The Kiss è stata assemblata nel 1982) e oggi perlopiù anestetizzati osservatori, un senso di imbarazzo e di fastidio.
È la sua cifra stilistica, la poetica che lo contraddistingue.
Come nella favola della rana e dello scorpione, perché mai dovrebbe tradire la sua natura?
Dolce e terribile
Più la guardiamo questa immagine, quel buio infetto intorno, quei teli neri a formare onde e increspature dentro un mare arido, che non bagna, ma con la risacca graffia e mena fendenti di pugnale. I pochi capelli sporchi e disordinati, gli scogli aspri di quel naso rapace, di quel mento pronunciato. Più la guardiamo questa tenerezza complice e più ci sembra sconfinata e terribile.
Mi viene in mente Roberto Bolaño, in uno dei suoi romanzi più assurdi e visionari, La letteratura nazista in America, antologia completamente inventata, che va a scavare nel male oscuro dell’Europa durante il secondo conflitto mondiale, immaginandolo trapiantato in Sudamerica.
Scrisse per esempio una poesia nella quale Leni Riefensthal faceva l’amore con Ernst Jünger. Un centenario e una nonagenaria. Uno sbatacchiare di ossa e tessuti morti. Santo cielo, diceva Rory nella sua grande biblioteca puzzolente, il vecchio Ernst la sta montando senza pietà e quella zoccola di una tedesca ne vuole ancora, ancora, ancora. Una bella poesia: gli occhi della vecchia coppia si accendono di una luminosità invidiabile, si slinguano fino a slogarsi le vecchie mandibole, e con la coda dell’occhio guardano il lettore cui danno impercettibilmente una lezione. Una lezione chiara come il sole.
Roberto Bolaño, La letteratura nazista in America
La lezione di cui parla l’immenso scrittore cileno, trattandosi di fanta-letteratura americana filo-nazista, è una lezione infame sulla longevità della razza pura. Ma trattandosi di Bolaño, sarebbe un delitto fermarsi al senso letterale di questo discorso: la descrizione di due vecchi nazisti decrepiti mentre si fanno la loro ultima, emblematica, scopata, lasciandoci con l’identico carico di disagio sulle spalle, che ci ha regalato la finzione del fotografo di Brooklyn.Essendo Bolaño la voce narrante, dentro a questo rigurgito maleodorante, intravedo un altro genere di lezione, che spicca assurda ed eroica, come un fiore variopinto, in mezzo a un deposito di lamiere arrugginite: l’attaccamento rabbioso e tenace alla vita, la sua celebrazione, anche quando i minuti sono contati, anche ad un passo dalla soglia.
Vinti
E questo vale per generi diversi di confine, dove sembriamo per sempre perduti, alla deriva, ma la nostra vera essenza viene fuori ostinata, ogni volta inaspettatamente rigenerata e chiede altre sorsate generose di vita. Che siano gli splendidi relitti del Café Lehmitz ad Amburgo, di Anders Petersen: la grande, rumorosa, famiglia allargata di drogati, prostitute, alcolizzati che per tre anni (dal 1967) hanno contribuito a definire lo sguardo e la sensibilità del fotografo di Stoccolma. Il suo amore viscerale per i “vinti”, gli “ultimi”, quei margini dell’esistenza dove la vita sembra pulsare con più convinzione.
O i senza tetto, i veri poveri della Kharkiv post-comunista, raccontati da Boris Mikhailov senza alcuna intenzione di indorare la pillola, visti così come lui li vedeva, con uno sguardo che sembra spietato, che sembra crudele e compiaciuto, ma al contrario è carico di un’empatia e comprensione enormi: non ruba momenti come un cecchino e non resta a debita distanza, entra dentro, instaura un dialogo onesto, volutamente sgradevole per il carico di realtà sconcertante che si porta dietro. Ma quel fastidio siamo noi, che cerchiamo di restare sempre al sicuro dietro l’angolo, che cerchiamo di non sporcarci le mani o le scarpe (torna sempre utile il mantra deandreiano anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti).
Sala d’aspetto
O ancora, i vecchi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, la celebre serie fotografica di Mario Giacomelli su quell’enorme, inquietante, sala d’aspetto per anime che è l’ospizio, dove crediamo di parcheggiare involucri ormai vuoti senza più intenzione. Dove nascondiamo quello che non vogliamo vedere del nostro inevitabile domani. E gli scatti del fotografo di Senigallia, complice il contrasto assassino (violento, implacabile, noncurante di regole e armonia), che incendia i bianchi e inghiotte i grigi in un buco nero da cui non si esce, ci ricorda il nostro futuro prossimo, col brusco tradimento del rinculo di una pistola.
Eppure in queste tre diverse concezioni di soglia, di mondo alla fine del mondo, non è il sapore crudo degli scatti a superare ogni nostra resistenza emotiva, piuttosto l’impressione di un desiderio, che sia languido, tenero o disperato, di ritrovarsi ancora, di avere ancora qualcosa da dirsi, il bisogno di toccarsi, di sentirsi con i sensi, di riscoprirsi di nuovo (come ogni volta per la prima volta), quando la logica ci fa pensare che è ormai davvero troppo tardi, per essere felici.
Il piacere della rivincita
Mi perdo ancora dentro questi scatti, faccio quello che di solito non si dovrebbe fare, vado oltre le serie fotografiche a cui appartengono, oltre il taglio reportagistico, il motivo, artistico o sociale, per cui sono state prodotte (le eccezioni servono a confermare che le regole esistono per capire quando ignorarle) e penso a Edoardo Sanguineti, a una poesia che adoro dalla raccolta Il gatto lupesco: il punto più alto e al contempo più basso della passione fisica, la rivincita del desiderio al di fuori di ogni schema, età, salute, censura e illusione volgare di decoro, dettata dalla società ipocrita. La società che li vorrebbe tutti altrove, che vorrebbe altrove anche noi, nel caso perdessimo potenza, velocità ed efficienza e cominciassimo a costituire fonte d’imbarazzo.
Ricordo il mio futuro come un incubo: non so prefigurarmi il mio passato:/
Edoardo Sanguineti, Il gatto lupesco
oggi, che non mi vedo e che mi vedo, ti vedo, credo, e non ti vedo più:/
sdatato/ (sdato e sdentato), chiudo nella mia bocca la tua lingua, spremo tra le mie dita/ le tue dita:/
e me le sbatto tra le mie grame ginocchia, tra le mie cosce flosce
(sopra le mie noci insaccate bacate, sopra la mia frigida anguilla marinata):/
sono nelle tue mani (buone mani) e ci tremo, e ci godo:/ (e ci sbandolo e ci sbrodolo):
e così siamo, noi, due anime disgiunte e un corpo solo
Un ultimo morso
Nel 2010, Tom Ford, regista, stilista e fotografo, confeziona per il numero di Dicembre di Vogue Paris, (con il ruolo di guest editor) un servizio fotografico particolarmente interessante (Forever Love) per il discorso che stiamo affrontando. Lo styling è curato da Benjamin Bruno, l’atmosfera è quella tipica delle grandi riviste patinate, gli atteggiamenti sono passionali, ben studiati e l’ambiente lentamente, foto dopo foto, va scaldandosi.
Quello che colpisce è l’età di Clarissa & Doug, i modelli scelti per questa sessione fotografica. Ford mette in scena uno scambio acceso di effusioni, fra due amanti maturi, dandogli la forza, la vitalità seducente, di due giovani smaniosi di divorarsi. La carica di eccitazione è travolgente, a guardarli l’età scompare, resta il piglio frenetico, il gesto, l’intensità del pretendere l’altro. Ed è qui che torna Bolaño, la parte buona della lezione atroce dei due vecchi nazisti, l’intensità fiammeggiante di quello sguardo che la coppia si butta addosso, si restituisce, nel mezzo di quella centrifuga convulsa. Il fatto che sia invidiabile, che sia qualcosa che il più delle volte non riusciamo ad avere, nell’economia di una vita intera.
La soglia
Quando Theodore Gericault dipinse La zattera della Medusa, cronaca del naufragio di un’imbarcazione che portava il nome della gorgone greca (avvenuto nel 1816), ma probabilmente metafora dello sconforto dei francesi per la complicata fase storica appena passata, inserì come asse portante della sua tela più famosa, un concetto universale terribilmente umano, il bisogno di lottare, contro ogni previsione sconfortante, di non perdere la speranza.
Quella capitata ai passeggeri della Medusa, è una sventura orribile: in quello spazio minuscolo, fra corpi ammassati, privi di vita e altri allo stremo delle forze (immagine di un’attualità disarmante per quanto riguarda il nostro Mediterraneo), si sono consumati episodi di cannibalismo, i superstiti hanno visto i proprio compagni di sventura consumarsi lentamente, spegnersi a poco a poco, con lo sguardo sempre rivolto al mare aperto, all’orizzonte sempre uguale e ogni istante differente.
Nel mezzo di questa piramide di corpi, fra le assi marce che puzzano di alghe e incrostazioni saline, ha rappresentato il senso più compiuto di quello che intendo per soglia: La zattera della Medusa è quel confine invisibile dove convivono sullo stesso piano la vita e la morte, l’abbandono e lo slancio, quel posto dove ci giochiamo l’ultima carta prima di abbandonare il tavolo o ci lasciamo andare leggeri godendoci l’ultimo giro di giostra. È il filo sottile che tiene tutto in piedi, che ci fa guardare con convinzione in direzione della nave che potrebbe apparire all’orizzonte e non, dentro al buio cupo, appena oltre le nostre spalle, dove i cadaveri stanno cominciando a decomporsi: è un po’ la ragione di tutto, una ragione senza logica, senza futuro né passato, ma travolgente come una mandria di elefanti fuori controllo.
Si chiama resistenza.