Circa due anni fa, in circostanze che adesso sono quasi inimmaginabili, la città di Prato mise in piedi un evento da sogno: in piazza Duomo avrebbero suonato, nella stessa serata, Blonde Redhead, dEUS, Einstürzende Neubauten.
D’accordo, per i fan – poniamo – di Ligabue, o D’Alessio, o Luca Barbarossa, non era un evento da sogno; come per noi non lo sarebbe stato un concerto loro, neanche se fossero stati tutti insieme, sullo stesso palco, nella stessa, grande serata.
Chi ha un forte legame con la musica, in genere relativizza poco, tende a credere che la musica, le band e i cantanti che adora siano un caposaldo del sistema solare; è raro che si soffermi a pensare, magari fermo in Vespa al semaforo, che dopotutto fa e farà sempre parte di una (esigua) minoranza; che la stragrande maggioranza delle persone non è interessata alle sue passioni, alle sue letture e anche ai suoi ascolti.
Ad ogni buon conto, e malgrado tutto questo, fu tempo di assaporare l’idea che Prato, per una notte, sarebbe stata il perno della galassia.
Molti di noi non conoscevano Prato, se non per l’associazione immediata con i concetti di “lana” e di “Cina”. Molti non sapevano neanche dove fosse Prato, né se avesse effettivamente un centro storico e un Duomo (sono peraltro entrambi molto belli), e chi vi si era avvicinato si era solo perso nei tristi rettilinei della piana tra Capalle e Campi, alla ricerca del Cencio’s in un’epoca senza gps e cellulari, o al massimo aveva cercato di capire se per passare da una parte all’altra del centro esistesse un modo diverso dal percorrere il fiume Bisenzio in tutta la sua lunghezza per poi tornare indietro.
Quando una grande manifestazione di musica si impossessa di un luogo inconsueto o marginale, può accadere qualcosa di prodigioso. Cos’era diventata Arezzo per venti estati? E il paesino di Pelago, come poteva ogni anno a luglio trasformarsi in un allucinante carrozzone fiabesco? Per non parlare di quello che succedeva a Melendugno, prima che il fenomeno-Taranta fosse schiacciato dalla sua stessa moda; del Rototom Sunsplash, nato a Gaio di Spilimbergo (?!) e cresciuto fino a essere uno dei raduni reggae più importanti d’Europa; di Barga o Perugia e delle loro luminose rassegne jazz; di Vasto per il Siren Fest; e degli Appennini ogni volta che qualche buon diavolo tirava su un festival psych o electro di prim’ordine.
La lista sarebbe infinita, e serve solo a dire che Blonde Redhead, dEUS e Einstürzende Neubauten insieme, sullo stesso palco, nella stessa serata, era un programma degno di Milano, Londra o Berlino, e invece succedeva a Prato, ed era disorientante e bellissimo.
Corsi ad acquistare il biglietto con la leggera sensazione paranoica che potesse trattarsi di un grandioso scherzo organizzato nei minimi dettagli, anche per via telematica. Quando l’impiegata del Box Office, anziché prodursi in una reazione scomposta (“Cosa? Blonde Redhead, dEUS, Einstürzende a Prato? Ahahahahaha”) stampò il tagliando senza battere ciglio, lo misi in tasca e camminai nel tremendo agosto fiorentino sentendomi come Mark Renton appena riemerso in trionfo dal peggior cesso della Scozia con in mano le supposte miracolose.
Settembre arrivò in fretta. Prato era attraversata da un fiume di persone. I Blonde Redhead salirono sul palco che era ancora giorno. Kazu Makino era vestita di bianco. Avevo assistito al mio primo concerto dei Blonde Redhead nello stesso periodo in cui Silvio Berlusconi faceva recapitare a casa il convertitore elettronico che avrebbe consentito agli italiani di accertare con precisione infallibile il corretto passaggio dei prezzi dalla lira all’euro. Molte cose erano cambiate in quasi vent’anni: al posto di Bush jr c’era Trump (una rivoluzione!), Al Qaeda si era trasformata in un circolo del tennis, Vladimir Putin era stato sostituito prima da Dmitrij Medvedev e poi da Vladimir Putin, un papa piuttosto di cattivo umore era stato sostituito da un altro abbastanza di buon umore, in Italia c’era wi-fi per tutti e il benessere psichico della popolazione era schizzato alle stelle. Era cambiato tutto anche nelle mie percezioni, e la voce stessa di Kazu Makino, che al tempo mi aveva trascinato in una sorta di dolcissima ipnosi, ora mi sembrava simile ai tormenti di un soriano giapponese in preda a una colica renale.
Pensavamo che gli Einstürzende Neubauten avrebbero chiuso la serata, invece salirono sul palco per secondi. Sapevo della loro aura quasi leggendaria, e dell’ascendente che avevano avuto su molti musicisti a cui volevo bene praticamente da sempre, ma mi preparai a seguire quello che sarebbe stato un concerto indimenticabile senza mai averli visti prima, e conoscendo pochissimo del loro repertorio. Blixa Bargeld si piazzò immobile al centro della scena e cominciò a recitare come un mantra “you will find me if you want me in the garden, unless it’s pouring down with rain”. Alexander Hacke aveva i baffi spioventi e scuoteva a tempo la chioma. Dal suo basso veniva una nota curva, sempre uguale. In mezzo a loro Rudolf Moser percuoteva un bidone azzurro. Seguì una specie di coro rumoristico da officina industriale. Sul palco, oltre al bidone azzurro, venivano suonate frese, mole e altri utensili da lavoro trasformati in strumenti musicali. La calma scura della prima canzone e il cantiere impazzito della seconda avevano già portato il pubblico dentro un leggero stato di trance. Bargeld salutò e disse “ricordate che abbiamo già suonato a Prato? Al Museo Contemporaneo Luigi Pecci…”
E perché me lo ero perso?
“…era il 1988”.
Ecco.
Il gigantesco telone dietro di loro si illuminò di blu. Il basso cominciò un pattern ritmico minimale e melodico, accompagnato solo da un organo. La melodia del pezzo colpiva al cuore, sembrava uscita da un film di Wenders o Herzog, un film che doveva ancora uscire, forse il loro più bello, forse il più triste. Insieme alle note e a un incomprensibile testo in tedesco, spiccavano due parole bizzarre, scandite a ripetizione come un ordine: Nagorny Karabakh.
Senza smettere di guardare verso il palco a occhi spalancati, cominciai a vagare col pensiero. Da chi avevo già sentito pronunciare la parola “Karabakh”, o qualcosa di simile? Ma certo: da Walter Mazzarri. Mazzarri era stato l’allenatore dell’Inter in uno dei periodi più bui della storia della squadra. Era un bravo mestierante, Mazzarri, ma veniva deriso spesso, era accusato di essere un provinciale permaloso e vittimista, in breve tempo era diventato una caricatura. Si era cacciato in un affare troppo grande per lui, e ne sarebbe uscito con le ossa rotte. Per l’Inter, in quel periodo, era un successo persino giocarsi i gironi di Europa League contro squadre bielorusse, finlandesi o lituane. Era finita a giocare anche in Azerbaigian, contro il Qarabag, e Mazzarri aveva detto qualcosa tipo “il calcio azero è in crescita, il Qarabag è una grande squadra, i ragazzi dovranno restare concentrati dal primo all’ultimo minuto”.
Continuai ad ascoltare la canzone, la melodia circolare, bellissima del basso, la base di tastiere e il canto quasi parlato di Blixa Bargeld. Al termine di ogni strofa lo ripeteva: “Nagorny Karabakh”. Scartai la prima ipotesi (Blixa Bargeld che citava Walter Mazzarri) e mi concentrai sulla seconda: Qarabag, o Karabach, doveva essere una città, uno spazio, una zona speciale, reale o immaginaria. Da lì dovevano essere venute la suggestione e la canzone.
Dal giorno dopo, cominciando a cercare, avrei scoperto un’incredibile storia, contorta e drammatica: a partire da un’intervista in cui Blixa Bargeld diceva che “è tutto diretto, in quel brano: l’io narrante sono io, il testo è semplice. Non sono mai stato, peraltro, in Nagorno Karabach, così come non sono mai stato in Armenia: sono luoghi della mia mente”.
Diceva poi di essersi ispirato a Ryszard Kapuscinski, il grande scrittore e reporter che aveva percorso in lungo e in largo l’Unione Sovietica in vari periodi, dagli anni delle purghe staliniane fino alla dissoluzione del regime e al primo governo Eltsin. I suoi viaggi dalla cortina di ferro baltica fino ai confini del Pacifico, compiuti spesso in circostanze assurde e molto pericolose, avevano scaturito il capolavoro “Imperium”, uno dei più profondi e compositi mosaici di riflessioni e testimonianze dirette sull’Urss.
In quel libro raccontava di tutto: il deserto di ghiaccio e fango della Kolyma, all’estremità della Siberia, con i suoi milioni di cadaveri; il lago d’Aral portato alla morte per irrigare infiniti campi di cotone; Samarcanda e l’Uzbekistan; i giacimenti di diamanti di Jakutsk; la ricchezza improvvisa di Baku e Tbilisi; le migliaia di chilometri di filo spinato (che doveva essere continuamente sostituito a causa del gelo) che recintava l’immenso Arcipelago Gulag; la filosofia russa, secondo la quale i crimini del potere vanno accettati come le disgrazie naturali, le inondazioni e i terremoti.
Raccontava anche il suo tentativo, appena prima del crollo dell’Urss (1990), di spacciarsi per il pilota di un aereo russo, rischiando il gulag se fosse stato scoperto, per arrivare dove non sarebbero mai stati neanche Gorbaciov e Eltsin: a Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabach.
“chi partiva e chi no, lo decideva la mancia sganciata a una delle varie mafie. Era una delle situazioni che fanno smarrire tanti occidentali, inclini a prendere la realtà per quello che sembra: trasparente, logica e comprensibile. L’occidentale gettato allo sbaraglio nel mondo sovietico sente continuamente il terreno sfuggirgli sotto i piedi, finché non gli viene spiegato che la realtà che vede non solo non è l’unica, ma probabilmente neanche la principale. Qui esiste tutta una serie delle più svariate realtà, intrecciate in un groviglio mostruoso e inestricabile, caratterizzato dalla molteplicità logica”.
Il trucco di Kapuscinski riesce. Sale a bordo dell’aereo. Il piccolo jet impiega tre ore a portarlo da Erevan, capitale armena, a Stepanakert. Vola sopra la propaggine orientale del Caucaso, sopra le colline che digradano verso la valle del fiume Kura. Lo scrittore paragona la terra che vede dall’alto alla Svizzera: greggi di pecore al pascolo, torrentelli, prati, foreste.
Se per descrivere il gioco del calcio Gary Lineker disse che è “uno sport dove si gioca in undici contro undici e alla fine vince la Germania”, per definire la geopolitica del Caucaso potremmo dire che è “un complicato gioco strategico tra Russia e Turchia e alla fine viene oppressa l’Armenia”.
Il Nagorno Karabakh è, riassumendo al massimo, una sorta di enclave armena compresa però nel territorio azerbaigiano: ma le due etnie (nemiche anche per religione: cristiani gli armeni, islamici gli azeri) erano state lasciate un secolo fa a fronteggiarsi come cani da combattimento, in un territorio ignoto al mondo, mossi come marionette secondo gli interessi di scacchiera delle due potenze regine.
Si fa risalire l’origine dei mali al 1920, quando l’esercito turco, non pago del genocidio appena compiuto, falcidiò anche gli armeni che abitavano sulla frontiera col Nagorno Karabach. Si salvò chi si nascose sui monti. La fascia di terra senza più abitanti armeni fu occupata dagli azeri.
Un anno dopo, il governo centrale russo trasferì l’amministrazione della regione, storicamente a maggioranza armena, all’Azerbaigian. L’odio era pronto a mettere radici.
Dice un testimone a Kapuscinski, nel 1990:
“gli armeni non si sono mai rassegnati alla perdita del Nagorno Karabakh. Malgrado le crudeltà di Stalin e le repressioni di Breznev, in Armenia sono sempre scoppiate insurrezioni e sommosse a questo riguardo. Nel 1988 era stabilita l’annessione del Nagorno Karabakh all’Armenia. Baku rifiutò. Mosca prende sempre le parti del più forte, e l’Azerbaigian è molto più forte di noi. Per ora stiamo sotto l’occupazione di Mosca, ma appena Mosca se ne va ci troveremo sotto l’occupazione di Baku”.
Kapuscinski commenta: “per gli armeni è un alleato chi considera che il Nagorno Karabakh sia un problema. Tutti gli altri sono nemici. Per l’azero è un alleato chi pensa che il Nagorno Karabakh non sia un problema. Tutti gli altri sono nemici. Sarebbe impensabile tenere a Erevan o Baku un discorso del genere: ‘sentite: decenni fa (quanti di noi sono sopravvissuti? Quanti se ne ricordano?) un pascià turco e il non meno brutale Stalin hanno gettato questo terribile uovo di cuculo nel nostro nido caucasico. Da allora non facciamo che scannarci e torturarci a vicenda, mentre quei due si rivoltano nella tomba dal gran ridere. Perché, invece di restare nella miseria, nell’arretratezza e nella sporcizia, non ci mettiamo d’accordo e cerchiamo di costruire qualcosa?’
Il malcapitato moralista o negoziatore che si azzardasse a dire una cosa del genere non arriverebbe neanche a metà: le parti avverse lo lincerebbero all’istante”.
Anche per Kapuscinsky, come per Bargeld, la bellezza oggettiva del luogo si mischia con la proiezione mentale nata prima di vederlo: “mi trovavo in uno dei posti più belli del mondo: era come stare nelle Alpi, nei Pirenei, nel Rodope e in Andorra tutti insieme. Sole, sole dappertutto. Caldo, ma con un’aria fresca, d’alta montagna. Dovunque un azzurro intenso e trasparente. Un’aria pura, cristallina. Alte, in lontananza, le montagne coperte di neve. Un po’ più vicino, altre montagne ma rivestite di verde, di verde compatto, di funghi, d’erba, di prati, di strie luminose”.
“Solidarizzerei col Nagorno Karabakh, se solo sapessi dov’è”, si rideva in Occidente quando nell’Urss agonizzante esplose la prima faida etnica. Nel mondo è cambiato tutto – valute, organizzazioni terroristiche, papi e anche la voce di Kazu Makino – ma tre cose sono rimaste uguali a trent’anni fa:
l’odio tra armeni e azeri (la cui guerra “a bassa tensione” ha comunque causato dal 1994 a oggi trentamila morti);
le trame di Sultani e Zar sulla regione (la Turchia, neanche a dirlo, vuol punire chi sostiene “la furfante Armenia”; la Russia si dichiara sostanzialmente neutrale, ma storce il naso per le interferenze turche in una terra di antico dominio sovietico);
e l’indifferenza globale.
Gli azeri sono più ricchi, più armati, più forti degli armeni. Gli armeni sono abituati a lottare contro nemici più ricchi, più armati, più forti. Intanto, nel silenzio generale, la guerra è ricominciata.
Blixa Bargeld ora cantava ‘Dead Friends (around the corner)’. La sua band alternava, con una padronanza impossibile per quasi tutti, esplosioni di violenza degne delle officine Breda anni ’70 a melodie raffinate e aperture cameristiche. Rudolf Moser, il mago polistrumentista, vestito di pelle nera e somigliante a un piccolo Elvis, si divideva tra una rudimentale batteria, le frese elettriche, uno xilofono ricavato da una pressa e una specie di enorme tritacarne da cui uscivano suoni metafisici. Fra noi giocavamo a scommettere su chi, fra Kraftwerk, Neu ed Einstürzende Neubauten, avrebbe vinto il premio produzione in una fonderia di Francoforte nel 1984.
Notammo che accanto al campanile romanico del Duomo si ergeva una specie di antenna molto simile alla torre di Alexander Platz in versione ridotta: tutto tornava.
Partì a quel punto un sottofondo di armonium, spinto avanti dalla pulsazione scarna e regolare della cassa: ‘Unvollstandigkeit’ (in italiano: incompletezza, insufficienza). La parte vocale era un parlato. Bargeld, geniale, sostituì al parlato del brano altre parole, recitate come un racconto, in cui spiegava al pubblico perché erano saliti sul palco per secondi, e non per ultimi: i dEUS si erano persi in Austria. Erano arrivati a Prato con dieci ore di ritardo.
L’altro polistrumentista, N. R. Unruh, da un cassone posto a quattro metri di altezza fece cadere su una lastra argentata una pioggia di tubi di alluminio. Poi, a poco a poco, dal frastuono tornarono ad avvicinarsi al silenzio, nell’ennesimo esempio di gestione illuminata delle dinamiche.
Lo xilofono spaziale, che produceva un suono a metà tra un didgeridoo elettronico e gli armonici di basso e chitarra, introdusse ‘Youme e Meyou’ e l’attraversò fino in fondo. il concerto si chiuse con il macello industrial di ‘Let’s do it a Dada’, un pezzo che ricordava un cantiere navale lanciato da qualche parte a tutta velocità, e che sarebbe piaciuto a Boccioni o Depero (nel testo venivano addirittura ironicamente citati in italiano “i signori Russolo e Marinetti di ritorno dall’Abissinia”). Non ci fu più molto da dire. La magia di ciò che si sentiva e si vedeva non era riproducibile su alcun supporto tecnico. Due anni dopo, in un’estate senza concerti all’aperto, sarebbe stato ancora più chiaro, ma non potevamo saperlo.
Il centro della città traboccava di persone, e ci trattenemmo fin quasi all’alba.
Il borsino dei popoli oppressi in grado di destare la simpatia e l’interesse dell’Occidente aveva sempre seguito rotte imperscrutabili. I siriani più dei sudanesi, i palestinesi forse alla pari dei tibetani, i cambogiani certamente indietro rispetto ai curdi. Sulla strada per riprendere le nostre macchine, pensammo che Blixa Bargeld aveva illuminato un luogo segreto, dove era stata segreta anche la guerra, e dove la guerra sarebbe presto ricominciata, con o senza il nostro interesse.
Ripartimmo mentre dai monti sopra la città spuntavano le prime luci.
Adesso avevamo mappe online e gps a profusione, ma fu presto chiaro a tutti che l’unico modo per uscire da Prato era guidare lungo tutto il corso del Bisenzio, e poi tornare indietro.