Gennaio
Complicato ricordarsi come eravamo a gennaio 2020. Tendenzialmente un groviglio di corpi sovrapposti, indifferenti agli assembramenti, alieni al sistema di delazioni tra pianerottoli e nemici giurati del jogging. Nessuno con guinzagli tesi in albe siberiane e un numero tutto sommato esiguo di individui portati per la cottura a fuoco lento.
Complicato ricordarsi come eravamo, però restano tracce indelebili di quanto è stato in musica durante questa età dell’oro prepandemica che oggi, con il doloroso senno di poi, non faticheremo a definire l’Ultima del Rock con Velleità Fisiche. L’ultima dei concerti programmabili sapendo che mai ci andremo davvero, nonché l’ultima priva di band in costante diretta Zoom a promuovere qualsiasi associazione benefica vanti bambini biondi tra le pagine dei flyer promozionali.
E pensare che l’inizio è stato ottimo. Mind Hive degli Wire (Unrepentant è uno dei brani migliori dell’anno pure per chi giustamente rinneghi categorie del genere) al pari di Hotspot dei Pet Shop Boys e Countless Branches, rentrée di Bill Fay che mica poteva immaginarlo avrebbe accompagnato l’arrivo della fine (extra del mese: risalgono a gennaio anche gli Annihilator di Ballistic, Sadistic e, a sapere del lockdown, avrei concesso un giro in lavatrice alla t-shirt con scritto Schizos Are Never Alone. Comunque, amen. La reclusione ha avuto pari dignità in pigiama a unicorni.)
Febbraio
Caribou di Suddenly e Ozzy nelle ultime docce in vista delle ultime spedizioni in trattoria, quindi l’antica passione Isobel Campbell (There Is No Other) di cui avevo perso le tracce ai tempi di Amorino, crudelmente identica alle serate in cui passeggiavamo tra i parchi di Glasgow ridacchiando su Sylvia Plath. Voci riguardo pericolose nubi purpuree all’orizzonte, poi l’accoppiata Nada Surf/Tame Impala, lavori – ma mica è detto sia un brutto segno – dei quali non ricordo una nota al netto dello sforzo (extra del mese: risalgono a febbraio anche i Sepultura di Quadra, disco senza troppe pretese ma da salutare con entusiasmo: il clima incerto lo impone. «Scatta la serratura, tesoro. Ci siamo.» Un lampo. Refuse. Resist.)
Marzo
Allorché la natura ci gioca il più crudele degli scherzi e chi meglio dei Pearl Jam può accompagnare la transizione? Forti di una tra le copertine più brutte della storia, Gigaton è il lavoro che maggiormente mi convince dai tempi di Binaural sebbene lo scombussolamento faciliti la benevolenza. Stupisce la combo Peter Buck/Luke Haines (Beat Poetry for Survival) e Stephen Malkmus di Traditional Techniques: inizio trionfante, sezione centrale un po’ inceppata ma chiusura con il botto (vedi Signal Western e Amberjack) anche se dai balconi continuano a suonare meglio i Pavement, così complementari all’inno di Mameli.
Aprile
Compio gli anni. Mi festeggiano in remoto. Esce il disco che avrei ascoltato in modo ossessivo negli otto mesi successivi (BC Camplight, Shortly After Takeoff) e confesso agli affetti più cari che ci sono cascato con tutte le gambe: ho ceduto alla Fiona Apple di Fetch the Bolt Cutters. Viceversa, tolto un paio di brani (per dire, Shangri-La) avanzo a fatica in Earth di Ed O’Brien che dà l’idea di essere un esercizio troppo lungo e disomogeneo nelle proprie sezioni, alcune stilisticamente impeccabili, per essere del tutto godibile (extra del mese: risalgono ad aprile anche i Testament di Titans of Creations. Non sarà Legacy epperò a loro va perdonato tutto per il fatto di Legacy. Questo 1987 in noi che resiste indefesso, da proteggere.)
Maggio
Un pomeriggio a Berlino ho incrociato Blixa Bargeld che lavava l’automobile; stava impugnano una grossa spugna arancione con lo slancio protettivo di mamma ippopotamo. Del resto, in Alles in Allem degli Einstürzende Neubauten la capitale tedesca un po’ ci incastra – anzi si sente tra queste tracce in misura maggiore rispetto ai dischi precedenti – e gli sono grato di avere anteposto (come già in Alles Wieder Offen) la melodia al rumorismo. Ché fuori dalla finestra inizia a intravedersi il sole dopo i lampi, l’estate si presenterà anche quest’anno travagliato con il proprio carico di spensieratezza e cosa mai potrà andare storto? Se ciò abbia o meno una relazione con Future Teenage Cave Artists dei Deerhoof lo ignoro, ma ci spero ardentemente.
Giugno
O sull’eterogeneità. I Coriky sono Ian MacKaye e Joe Lally dei Fugazi insieme ad Amy Farina. Trio i cui nomi già dovrebbero bastare per convincere chiunque della bontà dell’opera però, grazie a dio, la natura del disco fuga qualsiasi dubbio di partigianeria.
I fossati valoriali tra liriche e arrangiamenti – vincono le prime – del Dylan di Rough And Rowdy Ways, e gli incensati Run The Jewels che ascolto con un sospetto non giustificato da un genere, il rap, vissuto da sempre come poco personale (stessa cosa con Alfredo, produzione congiunta tra Freddie Gibbs e The Alchemist. Dovrò ormai farci i conti.) Extra del mese: i Behold the Arctopus di Hapeleptic Overtrove. C’è chi li ha definiti sperimental-metal e può avere un senso. Tenero il lancio: «la peggiore band del mondo ritorna con musica senza compromessi per il Ventunesimo secolo.» D’altronde, avvicinandosi a grandi passi verso l’ecatombe, tutto si tiene.
Luglio
Tre uscite buone lasciate a sedimentare – PJ Harvey, Dry: The Demos, Flower of Devotion dei Dehd e Paul Weller, On Sunset – dopodiché la doccia fredda: tocca allinearsi alla hype diffusa perché A Hero’s Death dei Fontains DC piace al netto dell’evidente matrice modaiola. Idem Made of Rain degli Psychedelic Furs con menzione speciale per The Boy That Invented Rock & Roll, Don’t Believe e You’ll Be Mine. Colpiscono meno i Protomartyr di Ultimate Success Today al netto dei cori incensanti verso i quali spesso cedo.
Su quanto rimane, complice la Serie A da concludersi, l’oblio è totale (extra del mese: risalgono a luglio anche gli Imperial Triumphant di Alphaville. L’avantgarde del black metal che magnificamente si sposa con le pinne, il fucile, gli occhiali.)
Agosto
In uno slancio di furbizia comprendo quanto il reale pregio di Down In The Weeds, where the world one was – ultima fatica targata Bright Eyes – sia di spingermi a tornare su Digital Ash in a Digital Urn, sempre di Bright Eyes ma del 2005. Superficialmente concedo un giro ai Guided By Voices di Mirrored Aztec mentre mi sciolgo con 1978. The Year the UK Turned Day-Glo, raccolta colma di perle preziose: Sham 69, Boomtown Rats, Vibrators e altri Ogni nota una rivelazione. Commovente, malinconico, pittoresco, necessario. Alto rischio di passatismo ma sono i momenti come questi – tra nuvole che tornano sulle colline e spifferi – quelli migliori per guardarsi indietro come rincoglioniti e ignorare quanto stia disvelandosi oltre il vetro della finestra.
Settembre
O dell’intimismo in vista della seconda chiamata alla responsabilità civica. Per questo evito con cura Marilyn Manson (sport nel quale eccello da venticinque anni), i Fleet Foxes di Shore e la raccolta dei Fleetwood Mac, concentrandomi sui Flaming Lips e The Ascension, opera di Sufjan Stevens che stavolta ha pregio di spingermi a tornare su Illinois di Sufjan Stevens del 2005 (ormai un vizio.)
Che poi è noto, i primi freddi invitano a coccolarsi – Napalm Death: Throes of Joy in the Jaws of Defeatism – e al calciomercato che ha scelto di estendersi sfilando linfa vitale al resto delle banalità umane (extra del mese: risalgono a settembre anche gli Imperial Triumphant di Alphaville. Data l’antica affezione, ne sono ammaliato. Note di merito per i brani Rotted Futures e Atomic Age, casomai qualcuno abbia interesse ad approfondire l’antica arte della voce roca.)
Ottobre
Forever del Bianconi magari avrebbe avuto un senso più compiuto fosse stato un EP di tre/quattro pezzi (Il Bene, L’Abisso, Andante e Certi Uomini) al pari di Serpentine Prison di Matt Berninger. Despicable dei Carcass e i Mr. Bungle di The Raging Wrath of the Easter Bunny Demo. Divertente dieci minuti poi stop poiché, per il sottoscritto, i Bungle nascono e muoiono nell’omonimo del 1991 e in qualche spunto di Disco Volante del 1995.
Novembre
Al pari di ottobre, altro mese caratterizzato da un benaugurante senso di rinascita con infornate di nuove leve che nel futuro si faranno: Cabaret Voltaire, AC/DC e Smashing Pumpkins (di rado si ascoltano album tanto dolorosi come gli ultime due.)
Però, pure qui, la baracca la salva una miscellanea: Strum & Thrum. The American Jangle Underground 1983-1987, summa di complessi dal relativo successo – area R.E.M., Rain Parade, Dream Syndicate – a ronzare attorno l’etichetta Captured Tracks. Indie di meritevole fattura in un contesto come quello dell’underground USA al tempo dominato dall’hardcore. Lacrime e foto sbiadite. Ennesimo passatismo ma, viste le feste in arrivo tra ammonimenti e restrizioni, sorvolare con carità sembra proprio il minimo.