La casa non era così male. Era grande, più grande dell’appartamento in città. Poi, pur essendo abbastanza vecchia era tenuta piuttosto bene, e aveva finestre grandi dalle quali entrava un sacco di luce. La luce era importante, no, si diceva. Doveva averlo letto da qualche parte, non ricordava dove, forse una di quelle riviste vecchie e stupide, dal parrucchiere, o dal dentista. Aveva pure un parco molto bello a due passi, poteva vederlo dalla finestra. Dentro il parco c’era un laghetto. Era, la villetta, in una piccola piazza alberata alla fine del paese. Doveva essere stata una bella botta per suo figlio, nato e cresciuto in città. Per fortuna il suo ometto era proprio serio. Appena arrivato aveva preso gli scatoloni e si era messo a organizzare la cameretta. Aveva messo i vestiti nell’armadio, i libri e i fumetti nello scaffale, in ordine alfabetico. Aveva sistemato la scrivania vicino alla finestra e collegato il computer. Poi le aveva chiesto se avesse bisogno di aiuto, e quando lei le aveva risposto di no si era messo a leggere il suo libro sul divano. Dopo cena aveva preparato i libri per la scuola e era tornato in camera. Aveva letto un altro po’ e si era addormentato. Entrò in camera sua, gli rimboccò le coperte, lo baciò in fronte. Il bambino gemette nel sonno. Lei gli dette un altro bacio e uscì. Andò in bagno e trovò il rubinetto aperto. Sorrise, pensando che forse neppure il suo piccolo principe era perfetto, per fortuna, e andò a letto anche lei.
I primi giorni del nuovo lavoro filarono lisci, i colleghi erano socievoli e disponibili. E pensare che aveva pure creduto che potessero avere pregiudizi verso una madre separata con un bambino. Che stupida, si sorprese a dirsi, eri tu che avevi pregiudizi. Anche i giorni di scuola di suo figlio erano andati bene, ma su questo era più che sicura. Era una mamma fortunata, il piccolo era fin troppo serio e studioso. Gli insegnanti erano sempre soddisfatti del suo ometto, che poteva, al limite avere problemi di socializzazione. Non era molto incline a stare con gli altri bambini. Preferiva leggere o giocare da solo, e lei temeva che questo potesse renderlo antipatico ai coetanei più espansivi. Ma non voleva forzarlo. Lui era così, e così andava benissimo, e così aveva tutto il diritto di rimanere. In ogni caso mai era aggressivo o maleducato. E se occorreva sapeva reagire, e anche farsi rispettare, anche coi ragazzi più grandi. Con gli insegnanti, pure. E proprio per via della sua personalità fu piuttosto contrariato quando sua madre pensò di chiamare una baby sitter. La guardava incredulo. Le chiese se pensasse sul serio che non fosse in grado di badare a sé stesso mentre lei era al lavoro. Che credeva che combinasse, a parte fare i compiti, leggere, guardare qualche cartone animato, certo, lo sapeva, mai prima di aver finito i compiti. La mamma lo rassicurò che era solo per qualche giorno, che non sapevano bene che gente girava, che la ragazza era simpatica. Il bambino abbozzò la venata polemica, ma sua madre ebbe l’impressione che non l’avesse proprio mandata giù, che il suo piccolo adulto fosse ferito nell’orgoglio. Cambiò idea, le parve, appena la vide. La ragazza era oltre che simpatica, proprio carina, con la coda di cavallo e gli occhiali. Lui la salutò dando la mano, lei ricambiò e sorrise, lui arrossì un poco, si riprese, sorrise anche lui. È davvero un piccolo adulto, pensò sua madre.
Pioveva che Dio la mandava. Tuoni come cannonate, lampi che illuminavano a giorno, vetri appannati dal rullo dell’acqua fredda. La temperatura, che era mite, calò di colpo. Chiese a suo figlio se aveva paura. No, non ne aveva. Si domandò se accendere il riscaldamento, suo figlio la riprese che un paio di coperte in più sarebbero bastate. Poi le chiese, ridacchiando, se non fosse lei ad aver paura. Lo spedì a letto, quel piccolo insolente. Ma era vero. Non aveva mai potuto soffrire i temporali, fin da bambina. Quella specie di punizione divina risvegliava in lei un terrore atavico, e si ritrovava nel cuore della notte con gli occhi sbarrati, tremante con la testa sotto le coperte, e di dormire non c’era verso. Si alzò di colpo strappando via le coperte, decisa a reagire, o perlomeno a prendere un bicchier d’acqua. Magari un’aspirina, visto che con quel casino infernale le era pure venuto il mal di testa. Attraversò il corridoio in penombra e per poco non le venne un colpo quando sentì sbattere la porta. Soffocò un urlo, vento del cazzo, pensò. Mamma, non si dicono le parolacce, pensò. Passò davanti alla porta del figlio, sicura che nessun temporale potesse turbare il sonno del piccolo adulto. Aprì un poco la porta, e per poco non le venne un altro colpo. Suo figlio era in piedi rivolto in un angolo, e bisbigliava. Deglutì e si avvicinò, senza accendere la luce. Il bambino aveva gli occhi chiusi. Gli si rivolse con dolcezza, temeva di svegliarlo, e sapeva che i sonnambuli non vanno svegliati. Quello che non sapeva, fino a quella sera, era che suo figlio fosse un sonnambulo. Appena gli rivolse la parola quello smise di bisbigliare. Sua madre lo cinse delicatamente con le braccia, lo sollevò e lo rimise a letto. Lo coprì e lo baciò sulla fronte. Ma chissà con chi parlavi, disse piano. Col mio amico, rispose il figlio.
La mattina dopo il bambino non ricordava niente. Fece qualche ricerca su internet riguardo al sonnambulismo infantile, poi decise di smettere di fare la giovane mamma ansiosa e tornò alla routine quotidiana.
Lontano dalla vista delle persone perbene, dalle villette a schiera, distante dai parchi e dai laghetti, dalle scuole ordinate e dagli uffici con l’aria condizionata, in un vecchio campo da calcio in disuso, anni prima un vecchio sindaco solerte aveva posizionato un campo nomadi. I successori del sindaco solerte avevano provveduto ad allacciare acqua e luce elettrica, a tenere pulito, e il campo nomadi era diventato un gioiello. Avrebbe potuto sembrare un campeggio turistico, con le roulotte agghindate e i camper belli puliti, con tanto di verande davanti alla porta. Lontano dalla vista delle roulotte dignitose, isolata nel retro del campo, c’era una roulotte decrepita, circondata da erba alta, carica di anni e di crepe. Davanti alla roulotte decrepita una vecchia zingara, senza denti, coperta di rughe, lercia e maleodorante, stava bevendo del caffè bollito su un fornelletto a gas. Accanto a lei un cane vecchio e spelacchiato, vagamente lupoide, stava accucciato col muso a terra. La vecchia zingara finì il suo caffè bollito e rovesciò la tazza sbreccata su un piattino sporco. Si mise a scrutare i fondi strizzando gli occhi, poi borbottò qualcosa e scosse la testa fasciata in un turbante che doveva essere stato blu, qualche decina di anni prima. Il cane uggiolò, e si coprì la testa con le zampe.
Ma tu sei religiosa, le chiese il figlio incuriosito. Non lo sapevo, disse. La baby sitter trattenne a stento una risata, però sorrise, e il bambino le rimandò un sorriso a sua volta. Be’, no… tentennò sua madre. Però a te piace imparare cose nuove, dico bene, disse. Guardò la baby-sitter. E la catechista sarebbe Chiara, dico bene, aggiunse rivolta alla ragazza. Quella annuì, continuando a sorridere. A catechismo si studia la Bibbia, chiese lui a bruciapelo, rivolto a entrambe. Chiara, la baby sitter, annuì. Era stata lei a proporre di portarlo a catechismo. Quel bambino era un fenomeno, un gran dritto, ma era poco socievole, e lei credeva che l’ambiente dell’oratorio, le lezioni di catechismo, ma anche solo tirare due calci a un pallone con gli altri gli avrebbe fatto un gran bene. Lo avrebbe un po’ sciolto, pensava. Ma lui non sembrava affatto convinto. Devo rispondere subito, chiese, tutto serio. Vorrei qualche giorno per pensarci un po’ su, aggiunse. Sua madre sarebbe stata contenta, e Chiara le piaceva molto. Ma non voleva forzarlo. Va bene, acconsentì la madre, fai le tue valutazioni e poi ci saprai dire. Chiara annuì, baciò il bambino sulla fronte e uscì dalla porta.
L’ufficio di Don Claudio era sobrio. Sulla scrivania aveva solo il vecchio computer e un crocefisso di bronzo, pesante e stinto, recuperato anni prima dal fango di un’alluvione. Davanti alla scrivania c’erano due sedie da ufficio. Alle pareti solo una stampa di una natività medievale, qualche libro in uno scaffale. Testi religiosi, qualche romanzo. Avanti, disse Don Claudio, quando sentì bussare alla porta socchiusa. Chiara fece capolino. Posso, disse. Il prete, un uomo distinto, un clergyman, piccolo e ossuto, si tolse gli occhiali e fece cenno di entrare. Chiara entrò, si sedette, e si accorse che il parroco doveva essersi fumato una sigaretta, con la finestra aperta, come faceva di solito. Il prete guardò la ragazza, contrita, che non trovava le parole. Allora, le fece il prete, spazientito. Che volevi dirmi. Chiara respirò forte. Hai presente il bambino, quello che ho portato a catechismo. Quello che si è trasferito da poco, con la madre. Il prete annuì. Chiara voltò un poco la testa di lato, come se prendesse la rincorsa, e cominciò a raccontare.
Francesco aprì gli occhi. Il suo amico lo stava chiamando. Quando gli parlava, lo vedeva come in negativo, scuro su una vaga luce bianca. Le prime volte credeva di sognare. Poi fu sicuro di essere sveglio. Non ebbe mai paura. Il suo amico voleva giocare, raccontava belle storie, si sentiva solo, in quel posto. Gli spiegava le cose, anche. Lo metteva in guardia. Non ti devi fidare delle ragazze, gli diceva. Specialmente di quella smorfiosa con gli occhiali. Vuole portarti a catechismo, a imparare quelle stronzate, gli disse una sera. Francesco replicò che non si dicono le parolacce, mamma non voleva, non stava bene. Non sei mica obbligato a dare retta a tua mamma, rispose l’amico. Sei grande, sei intelligente, ormai sei un uomo. E neanche a quella stronza smorfiosa. Con tutti i suoi sorrisetti, disse. Poi arrivò la mamma a sussurrare, l’amico si nascose, e Francesco tornò a letto.
Chiara presentò Francesco alla classe di catechismo. I compagni di classe erano bendisposti, ma il nuovo bambino sembrava un po’ incupito. Si alzò e porse la mano agli altri bambini. Loro risero di tanta formalità, ma gliela strinsero di buon grado. Anche Chiara rise. Francesco si sedette in prima fila, sul lato, come faceva sempre a scuola, e dispose la Bibbia, le penne e un quaderno a quadretti per gli appunti sul banco. Guarda che non siamo a scuola, gli disse il bambino accanto, smaliziato. Francesco lo guardò storto. Quei bambini gli sembravano dei pressapochisti, e a lui i pressapochisti non piacevano. Questi sono un branco di stronzi, gli parve di sentire all’orecchio. Scosse la testa. Chiara doveva spiegare la Genesi, e per rendere l’idea aveva comperato un sacchetto di mele rosse. Le distribuì ai bambini e prese a spiegare. Raccontò di Adamo e Eva, del serpente e dell’albero, e di un Dio punitore che faceva pagare caro uno sgarro alle persone. Anche il loro Dio è uno stronzo, disse una vocina all’orecchio di Francesco. Francesco scosse la testa di nuovo. Chiara disse che era il momento di fare una pausa, e di mangiarsi le mele. I bambini applaudirono e strepitarono come selvaggi. Francesco li guardò perplesso. I bambini addentarono le mele, Francesco chiese un coltello per sbucciarla, gli altri bambini risero, mordila, gli dissero. Chiara gli spiegò che non poteva dare coltelli ai bambini. No, neanche quelli con la punta tonda e la lama seghettata. Francesco si rassegnò e addentò la mela anche lui. Guardava gli altri bambini, che bisbigliavano tra loro, lo guardavano, e ridevano. Sentì montare il nervoso, ma respirò forte. Ma che cazzo hanno da ridere, chiese una voce all’orecchio. Basta, stai zitto, per favore, disse a voce alta. I bambini si zittirono e lo guardarono con gli occhi sbarrati, scoppiarono a ridere. Pure da solo parla, questo, disse uno. Chiara cercò di riportare l’ordine. Uno dei bambini, più alto e grosso degli altri, col labbro sporco di muco e succo di mela si alzò e fece due passi verso Francesco. A Francesco sembrò che avesse la testa troppo grossa. Oppure stavi dicendo a me, disse il bambino con aria truce. La voce stavolta dall’orecchio passò alla bocca. Ma chi ti si incula, ritardato, gli disse Francesco. Si stupì. Lo aveva detto davvero? L’altro bambino lo spinse. Francesco incassò la spinta e lo colpì sotto il labbro, di scatto, così forte da spingerlo all’indietro contro un banco. Il bambino lo guardava stupefatto, con la mano sul labbro spaccato. Nessuno aveva mai reagito così. Di lui avevano sempre tutti paura. Chiara urlò qualcosa con una voce in falsetto e si precipitò verso Francesco. Ma cosa fai, le disse. Francesco tirò fuori un fazzoletto e si pulì la mano dalla mela e dal muco, e dal sangue. Buttò il fazzoletto in terra. Che schifo, disse. Ti… ti meriteresti uno schiaffo, disse Chiara. Francesco fece un passo indietro verso il banco, prese la mela. Si girò verso gli altri bambini, che si erano ammassati in un angolo, ammutoliti, e rise. Ma cosa ridi, gli urlò contro Chiara. Ti raccontano che il casino è partito da una donna per via di una mela, e mandano una donna con una mela a spiegartelo, si sentì rimbombare in testa. Guardò Chiara e le tirò contro la mela.
Non si era mai comportato così, disse Chiara a Don Claudio. Mi sembrava un bambino così dolce, a casa sua. Magari è poco abituato a interagire coi coetanei, sta sempre da solo, aggiunse. Don Claudio la guardò. Ti ha fatto male, con la mela, le chiese. La ragazza annuì, poi negò. Non è che mi ha fatto male, disse, è che me l’ha tirata per farmi male. Stavolta fu il prete a annuire. Aveva un brutto presentimento. Vai a casa, le disse. Io vado a parlare con la madre.
Vuoi dirmi che ti è preso, chiese Sara. Era la terza volta che lo ripeteva. Suo figlio continuava a stare seduto sul divano e mangiare la sua merendina, guardava nel vuoto, non pareva neanche l’ascoltasse. Non si era mai comportato così. Chiara le aveva detto che aveva scatenato una rissa, lei stentava a crederlo, le aveva risposto che doveva essere stato provocato. Ma ora lo guardava, e cominciava a crederci. Lui masticava senza neanche guardarla. Ma mi stai ascoltando, urlò lei esasperata. Piantala di masticare, urlò, e guardami. Suo figlio si girò a guardarla, e sputò un boccone sul pavimento.
Il prete arrivò sulla soglia della casa, gli venne in mente la scena dell’Esorcista e ci rise su. Poi si vergognò di aver riso e ripensò a quella volta in Ecuador, in un villaggio sulle montagne, un esorcismo durato gironi, era giovanissimo. Sentì addosso le piogge monsoniche, rabbrividì. Scacciò i ricordi e varcò la soglia. Inciampò su un gradino e per poco non cadde. Bussò alla porta e Sara aprì. Le parve molto turbata. Lo fece entrare e si scusò, don Claudio la tranquillizzò. Sara chiese se poteva offrirgli un caffè, il prete accettò e si sedette al tavolo nel soggiorno. Prima di sedersi sbirciò oltre la porta socchiusa del salotto, vide un bambino col caschetto castano seduto a leggere un grosso libro, assorto. Il bambino si girò e lo guardò, poi si reimmerse nella lettura. Arrivò Sara col caffè, lo versò e si sedette. Non ho parole, disse la donna. Questo comportamento non è da lui, aggiunse. Il prete ascoltava. La lasciò finire, poi le chiese se avesse notato comportamenti insoliti nel bambino, o fatti strani in casa. Sara negò con forza. Don Claudio la guardò. Sara si morse il labbro, e disse che ultimamente suo figlio parlava nel sonno, o da solo, con un amico immaginario. Il prete tolse gli occhiali, Posso parlare con suo figlio, chiese.
Sara annuì. Don Claudio si alzò e passò in salotto. Il bambino non smise di leggere. Ciao, gli disse il prete, posso sedermi? Il bambino fece spallucce, senza girarsi. Come ti chiami, gli chiese don Claudio. Il bambino chiuse il libro e guardò il prete. Lo sai, come mi chiamo. Te lo ha detto Chiara, e anche mia mamma. Il prete sorrise. Quindi non vuoi dirmi il tuo nome, disse. Il bambino cambiò espressione. Che hai da ridere, chiese al prete a muso duro. Scusa, rispose don Claudio, non volevo prenderti in giro. Non rispondergli, si sentì dire Francesco all’orecchio. Mandalo via, gli disse ancora una voce. Comunque, continuò il prete, hai ragione, lo so come ti chiami. Ti chiami Francesco, come uno dei santi più importanti della Chiesa, gli disse. Il bambino strizzò gli occhi. Non ascoltarlo, si sentì dire. Era un uomo pieno di luce, disse il prete. Pensa, continuò, il diavolo lo tentava e lo assaliva di continuo, ma lui era forte nella fede, e non riuscì mai a farlo cadere. Ma tu per poco non sei caduto, invece, prima, sulla soglia, rispose il bambino con una smorfia. E anche prima, da giovane, in Ecuador, continuò. Anche allora sei caduto. Stavolta fu il prete a ritrarsi. Si alzò, e tornò dalla madre del bambino, nell’altra stanza. Sara lo guardò in cerca di risposte. Non lo porti da un dottore, gli disse il prete. Devo parlare con il mio vescovo. Tornerò appena posso. Sia prudente, e discreta anche. Ma non lo perda d’occhio. Sara annuì, e guardò il prete uscire sul vialetto, dalla finestra della cucina.
Quella sera Sara permise al figlio di vedere un film fino a tardi. Lo teneva abbracciato sul divano, gli lisciava i capelli con la mano e lui neanche si divincolava come faceva di solito. Quando si addormentò lo sollevò con un po’ di fatica e lo portò in camera sua, lo mise a letto senza cambiarlo, non lo voleva svegliare. Dormiva come un sasso, doveva essere stanco morto. Si sistemò accanto a lui e spense la luce. Si addormentò anche lei. Nel cuore della notte si svegliò. Il figlio accanto a lei piangeva sommesso, nel sonno, e bisbigliava. Fece per abbracciarlo ma lui la respinse. No, gli disse rabbioso, digrignando i denti. Non vuole, disse. Sara si girò d’istinto verso la stanza e le parve di vedere una figura alta quasi due metri, scura come un’ombra, in piedi davanti al letto. Scattò all’indietro contro la spalliera, soffocando un urlo e accese la luce. Nella stanza non c’era niente. Spegni la luce, facci dormire, disse suo figlio nel sonno. Sara la lasciò accesa, e non chiuse occhio fino al mattino.
Prima quella stupida, e ora il prete, gli disse l’amico. Francesco era in piedi, rivolto verso l’angolo. Tu non devi dare retta a nessuno. Nemmeno al prete. Il prete è un bugiardo, gli disse il suo amico. Vuole solo farti obbedire. Tu non devi obbedire. Tu puoi fare quello che ti pare. Ormai sei grande, gli disse. Io devo dare retta alla mamma, rispose Francesco. La mamma è buona. La mamma mi vuole bene. Il suo amico si arrabbiò. Francesco aveva un po’ di paura, quando il suo amico si arrabbiava. Cambiava voce, diventava più profonda. No, gli disse. È stata tua mamma a chiamare il prete, a mandarti al catechismo. Tu sei bravo, e lei ti manda da quei bugiardi. Non devi dare retta a nessuno, neanche a tua mamma. Le mamme sono cattive, gli disse. Francesco annuì. Sua madre era nell’altra stanza, non chiudeva occhio da giorni, aveva preso delle ferie a lavoro, occhiaie scure le solcavano il viso.
Sara si alzò per andare a bere e a controllare suo figlio. Arrivò davanti alla porta socchiusa, fece in tempo a vedere suo figlio in piedi in un angolo, la porta si chiuse con uno schianto, come dopo un colpo di vento, per poco non la prese in faccia. Si avventò sulla maniglia, riuscì a aprirla con grande sforzo, entrò nella stanza e accese la luce. Suo figlio era a letto. Si svegliò intontito, che c’è mamma, le disse.
Don Claudio pregò a lungo la notte prima. Il vescovo non lo sopportava, e lui non sopportava il vescovo, un grasso prelato mondano, più impegnato a farsi scattare foto con politici e personaggi del mondo culturale che a fare il pastore. Solo per avere un appuntamento dovette stare quasi un’ora al telefono con un pretino stizzito che gli faceva da segretario. Il giorno seguente, dopo almeno un paio d’ore di anticamera, fu ricevuto. Il vescovo gli porse l’anello. Gli mise subito fretta, non aveva molto tempo, disse. Don Claudio gli espose il caso, cercò di pesare le parole, ben sapendo che si sarebbe scontrato contro un muro. Il vescovo negò, disse che certe cose medievali non avrebbero messo in ombra il buon nome della diocesi che aveva faticosamente costruito. Faticosamente e nonostante certi preti reazionari che remavano contro, aggiunse, pur avendo tutt’altro che la coscienza pulita. Don Claudio incassò, ma insistette. Chiese almeno il parere di un esorcista autorizzato. Il vescovo cominciò ad adombrarsi, e gli ricordò senza mezze parole, cos’era successo quella volta in Sudamerica, l’ultima volta che aveva richiesto l’intervento di un esorcista. Per una povera ragazza indigena, una povera pazza che nel rituale barbarico ci aveva quasi lasciato la pelle. Una povera ragazza analfabeta, forse, disse il vescovo, impazzita proprio perché concupita da un certo giovane prete, che aveva rischiato di finire allo stato laicale, e che era stato graziato solo per la virtù teologale del Perdono. Don Claudio fece uno sforzo immenso per non ricordare al suo superiore quanti preti imputati di cose ben peggiori avesse coperto e trasferito ai sui tempi. Ma solo per evitare ulteriori scandali e sofferenze, questo era lampante. Chiese perdono a Maria per i suoi pensieri, baciò l’anello e uscì con un groppo in gola.
Don Claudio deglutì. Era stato missionario in centro America e Africa, da giovane, e ne aveva viste, di cose poco belle da raccontare. Ma la sofferenza di una giovane madre lo prendeva sempre alla gola come una mano nera. E quella in piedi davanti a lui era a pezzi, a pezzi e basta. E ora lui doveva dirle che no, il vescovo non voleva. Non ci credeva. Non pensava fosse il caso. Strinse i pugni. Glielo disse. Le disse che il vescovo, quel vescovo, non avrebbe mai autorizzato un esorcismo. Le disse che probabilmente era colpa sua, che c’erano vecchie ruggini, che il vescovo non lo teneva in grande considerazione. Sara chiese di farlo lui. Don Claudio sospirò e rispose che non poteva assolutamente agire fuori dalla volontà della Chiesa, che rischiava di fare più male che bene, che i padri esorcisti sono degli uomini retti, di fede salda, prossimi alla santità. Le disse che lui era solo un povero prete peccatore. La giovane madre prese a singhiozzare. Deve farlo lei, implorò, ancora. Don Claudio scosse la testa, guardando in basso. Poi però guardò Sara negli occhi. Forse c’è un’altra soluzione, le disse. Quella annuì senza smettere di piangere.
Anni prima a un giovane prete piaceva complicarsi la vita e così pensò bene di rifiutare la vita comoda del parroco, pure con buone prospettive di carriera grazie agli agganci dei suoi genitori, e partì alla ventura per portare la sua fede granitica, e certamente anche un po’ di conforto materiale, in un piccolo villaggio dell’Ecuador, in veste di missionario. Il villaggio era funestato dalla fame e dalle carestie, perseguitato dai guerriglieri e dalle operazioni di contro insurrezione dell’esercito regolare, afflitto dalla cronica mancanza di acqua per le scarse coltivazioni, immerso nella desolante miseria dei contadini. Ma per il giovane prete non fu abbastanza, perché pensò bene di innamorarsi della giovane figlia di un contadino. La ragazza, piccola e olivastra con lunghi capelli neri e occhi scuri e fondi non disdegnava le attenzioni del giovane prete. Questi si dibatteva e si rodeva nel pentimento, ma la carne è debole, lo dicono le scritture, e la carne di un giovane prete non fa eccezione. Si incontravano di notte, in mezzo ai campi, rischiando la carriera di lui e il bando di lei, e la vita di entrambi, giacché si esponevano alle incursioni, ma a loro non pareva importare. La situazione precipitò quando la giovane cominciò a cambiare, a dare in escandescenze in pubblico, a parlare in strane lingue. Il dottore più vicino era a chilometri di distanza, ma il prete decano della missione non ebbe dubbi. Percorse i chilometri fino alla città nella valle protetto da una scorta armata e avvolto dalla pioggia. Ma non era sceso per cercare un dottore. Tornò su con un anziano prete spagnolo, con la faccia severa, resa ancora più appuntita da un pizzo bianco. Un padre esorcista, mandato dalla diocesi. L’esorcismo durò settimane. Il decano affiancava l’esorcista spagnolo, che vietò la presenza del giovane prete dopo un paio di sedute. Una sera, dopo le preghiere di liberazione, l’esorcista spagnolo convocò il giovane prete. Non proferì parola, si limitò a schiaffeggiarlo, come si faceva allora con i bambini disobbedienti. Terminato l’esorcismo parlò con il decano e dopo qualche giorno il giovane prete fu sommariamente espulso dalla missione e rispedito al suo paese d’origine. Non salutò mai la giovane contadina.
C’è una donna, le disse Don Claudio. Una donna orribile. Si trattenne, come pensandoci su. Una specie di strega, aggiunse. Ma lei pratica la liberazione, disse. Non quella della Chiesa, ovvio. Ma ogni religione ha i suoi riti, e Dio è uno solo. E lei non ha certo bisogno dell’autorizzazione del vescovo, disse. Un tavolino alla loro destra prese a traballare. La lampada verde sopra al tavolino cadde di schianto, andando in frantumi. Il prete fece il segno della croce. Vado da lei, disse a Sara. Si alzò e fece per uscire, lasciandola in lacrime. Le vie del Signore sono infinite, le disse lei, quand’era già sulla soglia. Il prete annuì. O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua, si ripeteva Don Claudio, mentre guidava di buona lena verso il campo nomadi.
Parcheggiò davanti al vecchio campo da calcio dove era allestito il campo. Aveva collaborato con l’amministrazione municipale nei piani per l’integrazione lavorativa. Gli zingari, molti rientrati da un lavoro part-time come operai comunali o provinciali ausiliari stavano in gruppetti a parlare, bevendo birra in bottiglia. Lo salutarono con un cenno. Don Claudio ricambiò i saluti e tirò diritto. Passò davanti alle roulotte ben tenute, molti bambini gli si fecero incontro. Il prete distribuì carezze e benedizioni, si accertò dei risultati scolastici, poi le donne richiamarono i bambini. Il prete continuò la sua marcia fino alla fine del campo, e si fermò davanti a una roulotte rugginosa e cadente, una specie di residuato bellico. Davanti una zingara che sembrava uscita da un quadro della propaganda nazista lo stava aspettando. Sorrise al prete con una bocca sdentata. Una folata di vento portò un odore nauseabondo, un odore di vecchio, di terra putrida. Il prete rabbrividì. Un bastardino spelacchiato si alzò di scatto e si fece incontro al prete in posizione di attacco, ringhiando. La zingara schioccò le labbra sputacchiando saliva, e il cane si accucciò. Amore mio, disse al prete, alzandosi in piedi con fatica dal suo trono sbreccato. Ti stavo aspettando, disse, e gli fece ceno di avvicinarsi. Il prete obbedì. Lo sapevo che venivi, disse la zingara. Vieni, prendiamoci un caffè.
La zingara mise a bollire un bricco di rame sul fornello da campo. Canticchiava una litania incomprensibile. Preparò due tazze, aveva ospiti, si premurò di lavarle. Il prete stava in silenzio. Rivolgersi alle arti arcane della magia bianca per liberare un posseduto era una cosa che lo turbava nel fondo dell’anima. Ma il vescovo non gli aveva lasciato scelta, e non poteva non fare niente per quel bambino e sua madre. La zingara finì di preparare il caffè alla turca, e anche quello sembrava un rituale, probabilmente lo era. Versò il caffè nelle tazze e le appoggiò al tavolino con le gambe smangiucchiate, fece cenno di aspettare che i fondi si posassero. Ne versò anche un po’ in un piattino e lo poggiò davanti al cane. Il cane si alzò e prese a lappare il caffè. Allora, disse la zingara al prete che intanto si era seduto davanti a lei. Sollevò la tazza e bevve una lunga sorsata. Allora, ripeté. Dimmi del ragazzo. Il prete sospirò. Guardò quella vecchia che sorrideva sdentata. Quanti anni poteva avere? Quante poteva averne passate? Bevve anche lui un sorso di caffè e le raccontò tutto dall’inizio.
Non è come dicono loro, gli disse l’amico. E com’è allora, chiese Francesco. Era in piedi rivolto verso l’angolo della stanza, in camera sua. È solo un posto che c’è dopo. Non è vero che se sei buono vai in un posto bello e se sei cattivo in un posto brutto. È solo un altro posto, rispose. Francesco rimase in silenzio. E tu perché non ci vai, chiese. Io non ci posso andare, rispose l’amico. Non mi fanno entrare, per colpa di mia mamma. Mia mamma era cattiva, e il suo amico era cattivo. Ma loro sono entrati e io devo rimanere qua con te. Perché, non vuoi. Non siamo più amici, chiese. Francesco sentì dei rumori provenire dall’esterno. Arrivò una macchina nel vialetto, il campanello suonò. È di nuovo quel prete, disse l’amico. Ha portato una vecchia, una vecchia schifosa, una strega. Non devi parlare con lei, disse. La porta si aprì e si affacciò Sara. Puoi venire giù un secondo, chiese. Francesco si girò di colpo, guardò la madre pieno di rancore e corse giù per le scale. La madre se lo vide passare davanti e gli andò dietro, gridando di non correre.
Vattene via, urlò Francesco alla zingara. Questa è casa mia, tu qua non ci puoi stare. Partì a passo di carica contro la vecchia, furioso. Quella non fece una piega, appena il bambino fu a tiro lo stese con uno schiaffo in faccia. Sara per poco non svenne, urlò isterica contro la vecchia, il prete dovette dividerle, il bambino era seduto in terra con la mano sulla guancia e lo sguardo pieno di odio. Tieni ferma questa stronza, disse la zingara al prete, altrimenti prendo a schiaffi anche lei. Don Claudio trascinò Sara sul divano, cercò di calmarla, la pregò di lasciar fare la zingara. Sara piangeva, non deve picchiarlo, disse, non si deve permettere. La vecchia imprecò in una lingua incomprensibile, tirò su il bambino per un braccio, vieni con me tu, gli disse, e lo trascinò su per le scale. Quello urlò chiamando la madre, lei si alzò, il prete la trattenne. Ma chi è questa donna, chiese lei tra i singhiozzi, ma chi mi ha portato in casa. Il prete la rassicurò. Ma davvero dobbiamo affidarci a quella donna, chiese Sara quando fu appena più calma. Il mio bambino è al sicuro con lei, chiese. Il prete rispose di sì, senza pensarci.
Il bambino le sfuggì e si chiuse in camera. La zingara spalancò la porta con un calcio. Lo vide in un angolo, lo sguardo torvo, un compasso in mano. Mandala via, disse il piccolo, rivolto alla sua destra. Non posso, rispose la voce nell’orecchio. Se ti avvicini ti buco, disse allora il bambino rivolto alla vecchia, brandendo il compasso. La vecchia guardò alla destra del bambino. Respirò ed espirò, tre volte. Chiuse gli occhi e cantò una litania a mezza voce, quasi sussurrando. Li riaprì, e le pupille erano sparite. La vecchia vedeva la stanza in una luce bianca. La figura del bambino era coperta d’ombra. Accanto a lui c’era un altro bambino, perfettamente illuminato. Doveva essere coetaneo dell’altro. Aguzzò la vista. Il bambino era magro e sporco, aveva i vestiti stracciati. Aveva uno sguardo impaurito e feroce, segni viola sul corpo. Eccoti qua, disse la zingara. Non è questo il tuo posto, gli disse. Devi lasciarlo stare. Non te lo farò prendere, gli disse. Il bambino non rispose. Non puoi prendere questo ragazzo, continuò la zingara. Io posso farti tornare a casa, gli disse. Ma devi lasciare il ragazzo. Il bambino ebbe un singulto, e vomitò un fiotto di acqua nera, melmosa. La zingara chiuse gli occhi, li riaprì, le pupille erano di nuovo al loro posto. Francesco annuì verso destra e si avventò contro la zingara col compasso in mano. La vecchia non fece un passo, la piccola punta del compasso penetro appena nelle vesti spesse. Agguantò il bambino senza stringere troppo, gli tolse il compasso di mano. Gli premette indice e pollice sulle tempie, Francesco ebbe solo il tempo di mugugnare qualcosa. Poi le gambe gli cedettero. Dormi, disse la zingara, e il bambino chiuse gli occhi e cadde in un sonno profondo. La zingara lo prese in braccio, lo sistemò sul letto e gli fece una carezza sulla testa con la mano callosa. Uscì dalla stanza e chiuse la porta. Scese al piano di sotto, don Claudio e Sara la guardarono, apprensivi. Non è Legione, disse rivolta al prete. Quello parve sollevato, ma la zingara fece no con la testa. Sara li guardava. È un dibbuk, disse. Il prete tolse gli occhiali, si fece il segno della croce. Nella tradizione demonologica ebraica è lo spirito di un morto, disse alla giovane madre. Un’anima sospesa, senza pace, che cerca di reincarnarsi in un vivente. Sara si girò verso la zingara. Vuole tuo figlio, le disse quella. E se non gli diamo pace se lo prenderà. Sara prese a singhiozzare. La zingara si guardò intorno. Esaminò il mobilio, notò una vecchia credenza. È tuo questo, chiese a Sara. Cosa, rispose la donna, senza capire. No, disse, era già qua. La zingara aprì i cassetti e prese a frugare. Sara guardò il prete, che allargò le braccia. La zingara sfilò i cassetti e li rovesciò per terra. Si chinò con fatica e raccolse una foto, una vecchia polaroid sbiadita. Doveva avere almeno vent’anni. Nella foto c’erano una donna con un bambino. La zingara ripose la foto nelle vesti. Prepara l’olio santo, disse al prete. Preparane tanto. Il prete annuì. Uscirono, dicendo che sarebbero tornati di lì a poco.
Il bambino è sotto un sortilegio del sonno, le disse la zingara appena lei e il prete furono tornati. Là lo spirito non può prenderlo. Ma non possiamo lasciarcelo in eterno. Sara guardava alternativamente la vecchia e il prete, che annuiva. Devo farmi dire dallo spirito perché non è in pace, disse la zingara. E non lo farà facilmente, aggiunse. Prese le scale con grande fatica. Sara guardava don Claudio. Sa quello che fa, le disse il prete. È un’esperta occultista. Tra la sua gente ha il rango di una nobile, e fama di strega. Ma serve il bene. Sara non rispose. Prete, urlò quella dal piano di sopra, affacciandosi. Benedici le porte e gli specchi con l’olio santo, urlò quando don Claudio alzò lo sguardo. Il prete prese l’olio e cominciò a tracciare croci sulle superfici. Si faceva il segno della croce e sgranava il rosario, pregando. Anche la zingara prese a intonare una cantilena. Poi entrò nella stanza di Francesco e bruciò zolfo, salvia e incenso. Bene, disse, e chiuse gli occhi.
Li riaprì, le pupille erano sparite. La stanza era bianca, come un film in negativo. Il bambino era seduto sul letto, in chiaro. La guardava carico d’odio. Che cosa hai fatto al mio amico, disse. Lui è mio, brutta strega. I mobili presero a tremare. La zingara distese le braccia e alzò le mani, aperte. Disse alcune parole e i mobili si fermarono. Lui non è tuo, disse. Il bambino scattò in piedi. Voglio stare io qui, disse. Questa è casa mia. Io voglio la sua mamma. La mia non ce l’ho più, disse. La mia era cattiva. La zingara si morse il labbro. Io posso darti pace, disse al bambino. Posso farti passare di là. Ma tu dovrai raccontarmi che ti hanno fatto, e dove ti trovi. Io da qui non mi muovo, rispose il piccolo, sempre più arrabbiato. Questa è casa mia, ripeté. Questa non è casa tua, gli disse la zingara. Tu non hai una casa. Non puoi prendere il suo posto. Il bambino urlò, la zingara indietreggiò, i mobili ripresero a tremare. Una lampada cadde a terra, il bambino si avvicinò. Ridammi il mio amico, strega, disse. Al piano di sotto sembrava ci fosse un terremoto. Sara aveva paura. Sentivano il rumore di mobili che si spostavano, di lampade che si rompevano. La donna guardava il prete. Ha detto di non intervenire fino a che non ha finito, le disse quello. Anche lui aveva paura, Sara glielo lesse in faccia. Fece per alzarsi, don Claudio la trattenne. Al piano di sopra la zingara si sentì le gambe cedere. Una forza che sembrava aumentare secondo dopo secondo la schiacciava contro il muro. Il bambino si avvicinava. La zingara continuò a salmodiare, sempre più stanca. Intorno le suppellettili si alzavano e cadevano. Il bambino le fu addosso, la zingara lo agguantò, lo cinse in un abbraccio. Il bambino urlò. La zingara si alzò qualche centimetro da terra, salmodiò più forte. Era sospesa in aria. Appoggiò la mano sulla testa del bambino. Fammi vedere, gli disse. Quello smise di urlare. La zingara vide immagini sgranate, poi sempre più vivide. Qualcosa come vent’anni prima un’altra giovane madre sola con il suo bambino era approdata in quella casa. Contrariamente a Sara era in fuga. Alle spalle aveva fantasmi, vita di strada, aghi nelle vene, ferme decisioni di cambiare vita sempre abbandonate. Una gravidanza non voluta da un uomo che se l’era svignata quasi subito la mise con le spalle al muro. Ma se la gravidanza la salvò da una fine precoce non fu abbastanza per distrarla dalla via che si era scelta. Ringraziò Iddio e i medici che il figlio nacque sano, ma poco dopo il parto rispose di nuovo alla chiamata. I servizi sociali gli toglievano il bambino, lei si ripuliva e se lo riprendeva, poi tornava a farsi e glielo toglievano di nuovo. Il bambino da parte sua soffriva da matti ogni volta che lo separavano dalla madre, e ogni volta che lei tornava a riprenderlo lui l’abbracciava più forte, la guardava con occhi adoranti. I primi anni di vita del piccolo passarono così, fino a che dopo una lunga degenza in una comunità di recupero sembrò esserne uscita davvero, in maniera definitiva, per mai più ricascarci, e finalmente affrontare a tempo pieno il suo destino di madre. Fu più o meno allora che conobbe un altro uomo. Un uomo solido, con un lavoro solido, con due solidi matrimoni alle spalle, ma niente figli. A lei sembrava una roccia, e credeva davvero di aver trovato una figura paterna per suo figlio. Un punto di equilibrio, finalmente.
Non tardò ad accorgersi del perché i suoi precedenti matrimoni erano finiti. Il brav’uomo beveva, era violento. Lei a volte avrebbe voluto lasciarlo, ma non riusciva a staccarsi, e non solo per i soldi che lui le elargiva. Era combattuta, e il risultato della battaglia campale tra sentimenti contrapposti fu che lei a un certo punto riprese a farsi. Lui prese a bere di più, a metterle più spesso le mani addosso, a prenderla anche quando lei non voleva. Suo figlio assisteva, sbigottito, impotente, sempre più assente. Per la prima volta sperò che tornassero gli assistenti sociali. Ma anche lui era combattuto. Non voleva lasciare da sola la mamma con quell’uomo. Ma se lui la guardava ancora con occhi adoranti, lei bruciava tra i due fuochi di quell’uomo violento e della dipendenza. Lei non lo vedeva. Lui col bambino non se l’era mai presa. Almeno questo, pensava lei talvolta, cercando di giustificarlo, mentre si curava le ferite delle botte e degli aghi. Una sera lui era più ubriaco del solito, e lei si contorceva per l’astinenza.
Prese a picchiarla. Il bambino non disse una parola e si avviò tranquillo verso la cucina. Scelse il coltello più grande, da carne. Scelse con calma. Tornò nell’altra stanza. Le urla gli arrivavano alle orecchie come ovattate, a malapena le sentiva. Arrivò alle spalle dell’uomo mentre questo cominciava a stringere le mani al collo della madre. Portò la mano sopra la testa e sferrò la coltellata. La punta penetrò alla base della schiena dell’uomo. Non arrivò granché in fondo, l’uomo era molto robusto. Ma bastò per farlo urlare di dolore e lasciare la presa dal collo della donna. Si girò di scatto e colpì il bambino in faccia con la mano aperta. Il coltello cadde per terra, il bambino volò contro il muro, poi cadde anche lui. Sul muro lasciò una macchia di sangue. Il sangue sgorgava dalla nuca. La donna si lanciò contro l’uomo, urlando, lo graffiò in faccia. L’uomo colpì anche lei, anche lei cadde. Dobbiamo portarlo in ospedale, piagnucolò quella. Il bambino intanto stava cercando di rialzarsi. Tentava di arrivare al coltello. L’uomo fu più svelto, allontanò il coltello con un calcio. Poi prese a calci il bambino.
La zingara, in un angolo, guardava. Ne aveva viste migliaia, di scene turpi. Ma aveva il cuore stretto.
Quando l’uomo si fermò aveva il fiatone. Il bambino non si muoveva. La madre era in lacrime, terrorizzata. Tremava. Lo hai ucciso, disse piano. Hai ucciso il mio bambino. L’uomo la guardò, la mente gli si era snebbiata. Prese a tremare anche lui. Dobbiamo farlo sparire, disse.
La zingara cadde a terra, il bambino si liberò. Che cosa mi hai fatto, urlò contro la vecchia. Le pareti della stanza presero a incrinarsi. Nella stanza soffiava un vento di bufera. La zingara si trascinò contro il muro. Il bambino si avvicinò. La zingara alzò la mano, il bambino si bloccò, la testa inclinata all’indietro.
L’uomo costrinse la madre a pulire la stanza. Mise il figlio in un sacco di plastica nera. Finiremo in galera tutti e due, gli disse. Tutti e due. Ergastolo. La madre piangeva. L’uomo le prese l’eroina, in un cassetto. La madre si fece. Zavorrarono il cadavere che si inabissò nel lago. Scapparono dal piccolo paese, sparirono in una grande città. La madre fu ritrovata in overdose in un vicolo un paio di settimane dopo. L’uomo morì in galera, appeso alle sbarre, qualche anno dopo. Era in galera per altri motivi. Le autorità smisero di cercare il bambino dopo qualche mese. Tutti dimenticarono la faccenda.
La zingara non riusciva a respirare. Vedeva la superficie increspata sopra la testa, e intuiva il cielo nero. Il bambino la stava tirando a fondo. Cercò di spingerlo via, di nuotare verso l’alto, verso l’aria. Ma lei era vecchia e stanca, e il bambino era forte, e l’acqua era sempre più fredda.
Sara guardava il prete, poi guardava le scale, poi guardava di nuovo il prete. Va bene, disse quello, saliamo. Presero le scale. Proprio quando arrivarono davanti alla camera la porta si aprì con un cigolio. La zingara distese una mano fuori dalla soglia. Don Claudio spalancò la porta, la zingara era bluastra, sembrava in ipotermia. La stanza era perfettamente in ordine. Francesco dormiva nel suo letto. Chiama un’ambulanza, disse il prete a Sara. Quella si precipitò al telefono chiamare i soccorsi, il prete praticò un massaggio cardiaco alla vecchia. Non smise fino all’arrivo dei paramedici. Quando quelli erano già in casa la vecchia spalancò gli occhi e sputò un fiotto di acqua putrida. La caricarono sulla barella e la intubarono. Don Claudio fece per salire sul mezzo, i paramedici lo fermarono, gli dissero di venire in ospedale. La vecchia si strappò il tubo di bocca, tirò il prete a sé per la giacca. È in fondo al lago, gli disse. I paramedici la intubarono di nuovo e partirono verso il pronto soccorso a sirene spiegate.
È il parroco, disse l’appuntato, affacciandosi all’ufficio del maresciallo. Questo fece una smorfia e si smanacciò la patta dei pantaloni, sotto la scrivania. Fallo salire, rispose. Poco dopo il prete bussava alla porta. Il maresciallo lo fece sedere. Il prete saltò i convenevoli e sciorinò una storia assurda. Diceva che in fondo al lago c’era il cadavere di un bambino scomparso anni prima. Il maresciallo chiese se poteva sapere come aveva avuto l’informazione, il prete rispose che no, non poteva, segreto confessionale, anzi, lui e la sua fonte dovevano in ogni modo restare fuori da quella storia. Chi gli aveva passato l’informazione era estraneo ai fatti, i colpevoli erano tutti passati a miglior vita. Il ritrovamento, spiegò, doveva sembrare casuale, e a lui sarebbe andato tutto il merito. Al maresciallo non piacevano i preti. Quel prete, poi, gli era sempre sembrato piuttosto bislacco. Ora era quasi sicuro che fosse un mitomane. Lei non è sempre stato un semplice carabiniere, gli chiese quello. Lei era nel nucleo sommozzatori, disse, indicando un gagliardetto appeso alla parete. Il maresciallo annuì. Un ex sommozzatore potrebbe fare un ritrovamento casuale nel corso di un’immersione, no, chiese il prete, allungando una busta gialla al maresciallo. Quello aprì la busta. C’erano diverse banconote, di piccolo taglio. Farò tutto il possibile, rispose il maresciallo, infilando la busta nella tasca della giacca. Il prete si congedò, si alzò e fece per uscire. Dica, padre, gli chiese il maresciallo mentre era già sulla soglia. È vero quello che si dice di lei. Il prete lo guardò. Ovvero, chiese. Il maresciallo distese le gambe. Che da giovane, quando era in Perù, era un simpatizzante dei guerriglieri. Il prete rise. Non so chi le abbia raccontato queste storie, disse, io non sono mai stato in Perù. Salutò ed uscì. Salud, compañero, rispose il maresciallo. Quando il prete fu uscito dalla caserma si fece portare un caffè e si mise al computer a controllare l’archivio. Quella storia era vera, quel bambino era davvero scomparso dal paese, anni prima. Telefonò a sua moglie e si fece preparare l’attrezzatura da sub.
E quindi è stato tutto frutto del caso, chiese il giornalista spostando il cellulare da sotto la sua bocca a quella del maresciallo. Assolutamente, rispose quello. Lei era in forze al nucleo sommozzatori dell’Arma, continuò il giornalista, non è un semplice carabiniere. L’altro rise da dietro i baffi. Non ci sono carabinieri semplici, disse. I militi dell’arma sono tutti eccezionali, rispose. Il giornalista rise anche lui, e annuì. Ci racconti brevemente come è andata, continuò. Il maresciallo tornò serio. Ero semplicemente a fare un’immersione nel laghetto. Ormai lo faccio solo come hobby, chiaro, me lo porto dietro dai tempi del servizio. Avevo appena staccato, e ne ho approfittato per immergermi. L’intenzione era quella di passare un pomeriggio rilassante. Ma ho notato subito qualcosa che non andava. Sono tornato a riva e ho allertato i vigili del fuoco. Da sott’acqua non mi rendevo bene conto di cosa fosse, e mai davvero avrei immaginato, disse. Scosse la testa, rammaricato. Ci sono notizie riguardo al cadavere, chiese il giornalista dopo una breve pausa. Ci stiamo lavorando, rispose il maresciallo. Si presume che si tratti del bambino scomparso anni fa, ormai è noto, ma non tralasciamo nessuna ipotesi.
L’autopsia fu veloce. Non ci fu modo di scoprire se i resti appartenevano o meno al bambino scomparso, nessun parente era in vita o reperibile. La giustizia terrena se la sbrigò in ventiquattr’ore, conferì un encomio al maresciallo, e affidò quel che rimaneva del bambino del lago alla pietà divina. Don Claudio officiò un funerale a una piccola bara bianca, anonima, di mattina, con la chiesa in penombra, quasi vuota. C’erano solo Sara e il maresciallo, poco dietro. Fuori dal portone era seduta la zingara, con un cestino davanti. Finita la funzione don Claudio tolse i paramenti e uscì con i due. Il maresciallo notò la vecchia, vuole che la faccia mandare via, chiese al prete. Il prete rispose di no, il maresciallo si congedò e se ne tornò in caserma. L’hanno dimessa, chiese Sara al prete, piano. Ci sotterra tutti, quella, ripose don Claudio, a mezza voce. Sara e il prete si avvicinarono alla vecchia, che si alzò con meno fatica del solito. Sta bene, chiese quella a Sara. La giovane madre annuì. Si è svegliato, disse. Non ricorda nulla. La zingara annuì. Lei come sta, le chiese Sara. Io vi seppellisco tutti, rispose quella. Sara guardò don Claudio. Ho un buon udito, aggiunse la zingara. Io non so come ringraziarla, le disse Sara. Non mi devi ringraziare, rispose la vecchia. Ci pensa lui a pagare il debito, disse, indicando il prete. Don Claudio deglutì. Non fare finta di non ricordartelo, disse ancora la vecchia, e si incamminò verso la fermata dell’autobus. Arrivò il mezzo, lei salì senza pagare il biglietto, e l’autista, che non voleva problemi, lasciò correre. La vecchia scese davanti al campo e arrivò davanti alla roulotte. Il cane doveva essere in giro a far danno. Invece c’era un bambino, col caschetto castano, in piedi davanti alla porta. Il bambino la salutò e gli sorrise. Lei gli fece cenno di andare, e quello sparì.
Don Claudio arrivò dal retro, come gli aveva detto la zingara. Spense la macchina a distanza di sicurezza e si incamminò. Si sentì cedere le gambe, si appoggiò a un albero. Mormorò alcune litanie, strinse il rosario, si fece coraggio e proseguì. Arrivò alla roulotte e bussò. La vecchia aprì. Vieni, amore mio, gli disse. Si era cambiata vestito, e non succedeva da eoni. Una lunga veste di raso, azzurra. Aveva i capelli sciolti, una massa grigia lunga fino in vita. La roulotte era illuminata da candele profumate, che non riuscivano a coprire l’odore della vecchia. Bruceremo vivi, pensò. Poi pensò che forse sarebbe stato un bene. La zingara lo fece sedere, gli offrì un bicchiere di liquore forte, il prete lo buttò giù d’un fiato. La zingara si mise dietro alla sedia, prese a massaggiargli i capelli. Non avere paura, gli sussurrò all’orecchio. Il prete allungò la mano, prese la bottiglia, ci si attaccò. Basta bere, disse la zingara. In piedi, ora devi fare l’uomo. Il prete si alzò e si girò. La zingara lo baciò sulla bocca. Sapeva di marcio, di cipolla stantia. Il prete si fece indietro, riuscì a stento a trattenere un urto di vomito. La zingara si slacciò il vestito, che cadde a terra. Il prete chiuse gli occhi. La zingara si chinò e gli slacciò i pantaloni. Gli prese in bocca il membro e cominciò a succhiare con la sua bocca sdentata. Il prete si morse il labbro fino a farlo sanguinare. Poi, ebbe un’erezione. La zingara continuò a succhiare fino quasi a farlo venire. Il prete fece per accasciarsi. Aprì gli occhi, scemo, disse la zingara. Il prete li tenne chiusi. Por favor, abre los ojos, mi amor, disse. Non era la sua voce. Il prete aprì gli occhi. Davanti a lui c’era una giovane contadina india, neanche ventenne. I lunghi capelli neri le coprivano i seni. Tutto intorno le candele illuminavano mura bianche di calce. Tu… balbettò don Claudio. Come… come è possibile. La giovane india fece cenno di tacere, lo prese per i polsi e lo tirò verso di lei. Il prete si tolse la giacca e la camicia.
Don Claudio si risvegliò nel letto lurido della roulotte. Si rivestì e uscì. La zingara stava preparando il caffè nella veranda. Lo vide uscire, sorrise. Il cane, accucciato accanto a lei, scodinzolò. Vieni, disse lei, prenditi una tazza di caffè. Stanotte ti sei dato parecchio da fare. Piantala, le disse il prete. Si sedette e prese la tazza di caffè che le porgeva. Lo sorbì. Era buono. Stavano in silenzio. Il prete finì il caffè. Devo ringraziarti, disse il prete. La zingara sorrise. No, amore mio, rispose. Io, ti devo ringraziare. Il prete arrossì. La zingara si fece seria. Lei è felice, disse. È sposata, ha tanti figli, tanti nipoti. È sempre al villaggio. Tutti la amano. Il prete non rispose. La guardava. Si ricorda ancora di te, disse la zingara. Ogni tanto ti pensa. Stanotte, stanotte ti ha sognato, disse. Il prete sorrise. Non vuoi che ti dica cosa ha sognato, chiese la zingara, sorridendo di nuovo. Don Claudio fece no con la testa e abbracciò la vecchia, a lungo. Poi si avviò verso la macchina, a passo lento.