Me la ricordo vecchissima, che a malapena parlava, una specie di cantilena intonata senza denti, borbottii privi di senso e scampoli di latino ecclesiastico. Ma faccio molta fatica a distinguere i ricordi reali da quello che invece mi hanno raccontato in seguito. Ero molto piccolo infatti. Non dovevo avere più di tre anni. Non era propriamente la mia bisnonna. Mia nonna infatti, che la chiamava zia, aveva perso entrambi i genitori molto giovane, addirittura bambina, e dalla zia era stata allevata, insieme a suo fratello minore, che a mia volta ho sempre chiamato zio.
Un bell’uomo, magro, dritto e elegante, ma che dietro l’apparenza austera sfoggiava il sorriso beffardo del giovane teppista che era stato, e che dentro sicuramente era ancora. Certe cose non passano. Ma comunque, anche se zia, o meglio zia della nonna, per me, per il poco tempo che l’ho vista, e dopo, ogni volta che l’ho rammentata, per me è sempre stata nonna anche lei. E nonna comunque la chiamava mia madre, almeno quando parlava con me. Era ultracentenaria quando morì, se così si può dire, nel letto che di lì a poco avrei ereditato.
O meglio, nella stanza. Era quasi del tutto cieca, e quasi completamente sorda. Chiedeva di continuo il prete per confessarsi. Voleva farlo tutti i giorni. In cosa mai potesse aver mancato a Dio, mentre era inchiodata nel letto, decrepita, solo lei poteva saperlo. Ma, sono più che sicuro, la sua era solamente devozione. Era donna d’altri tempi.
Per non disturbare il parroco mio padre si metteva una giacca nera, un berretto, e dopo aver aperto una bibbia sciorinava un po’ di latino avanzato dalle medie. Alla nonna tanto bastava, bisbigliava una lista di peccati che per fortuna nessuno capiva, e mio padre l’assolveva. La vecchia, ignara, si quietava.
Il giorno dopo si era da capo, e mio padre di nuovo indossava i panni del curato, e via di nuovo con gli ora pro nobis e gli ego te absolvo.
Aveva cucito le divise ai garibaldini, diceva spesso mia nonna. A me, pensandoci in seguito, pareva un palese anacronismo.
Ma forse erano i garibaldini di Ricciotti, il figlio, che accorsero a combattere a fianco della Grecia contro i turchi, a inizio novecento. Detestava invece gli anarchici, perché erano nemici di Dio e della Chiesa.
Chi mangia i preti gli rimangono indigesti, mi hanno raccontato che diceva da giovane. E se le ricordavano che qualche buona ragione dovevano pur avercela, scuoteva la chioma già bianca ma sempre fitta e agghindata con la crocchia.
Ci si tiene tanto letame in corpo, possiamo tenerci qualche parola, chiudeva la discussione, lapidaria. Eppure l’intransigenza non chiudeva totalmente il cuore alla comprensione, giacché siamo tutti figli di Dio, pure i senza Dio, a quanto pare. Ho conosciuto anche brave persone, diceva ogni tanto, pure tra gli anarchici. E non
chiese patenti di santità, né d’anarchia, quando anni dopo imboscava i fuggiaschi. Chi scappa, scappa, diceva. Anche Gesù, diceva, erano andati a cercarlo, spade alla mano, nell’orto degli ulivi, e maledetti quelli che non lo avevano nascosto. Non so molto altro della sua vita, a parte queste frasi, questi aneddoti carpiti in casa. È poco, si capisce, per una vita che ha attraversato triplici intese e alleanze tradite, guerre mondiali e guerre fredde, assalti ai palazzi d’inverno e capitali divise dai muri, repubbliche e monarchie, sbarchi sulla luna e naufragi del Titanic.
Niente altro rimane, a parte foto in bianco e nero sbiadite e mangiucchiate agli angoli. Ma il giorno che se ne andò, che lasciò questo mondo, me lo ricordo bene. E come potrei non ricordarmene. Si sentiva che era arrivata alla fine, arrancava tra i colpi di tosse più incomprensibile del solito, e c’era il prete, quello vero, ‘ché il babbo non era abilitato per le estreme unzioni.
C’era il medico anche, che l’auscultava con lo stetoscopio e scuoteva la testa, ansioso di scaricare il barile al parroco per chiudere la pratica. C’era lo zio, il fratello di mia nonna, allampanato e austero, che mi diceva di non aver paura, che di lì a poco la nonna sarebbe volata in cielo, e mi strizzava l’occhio. Ma io non avevo paura, io ero impressionato da tutti quegli adulti che parlavano piano, quasi a sussurri, e non avevano tempo per sorrisi e nemmeno rimproveri, a parte lo zio, si capisce.
Ero invisibile, era come guardarli da dietro una serratura, da lontano, e a me piaceva la gravità del momento, lo capivo anche con la mia testa di bambino che era un momento importante, che stava per succedere qualcosa che non capitava tutti i giorni. E infine infatti ci fu come una specie di tirare il fiato collettivo, il dottore guardò il prete e annui, il prete si avvicinò e sciorinò una litania, per istam sanctam unctionem indulgeat tibi Dominus quidquid deliquisti, Amen, e passò il pollice sulla fronte alla nonna che aveva smesso di bisbigliare e sgranare colpi tosse arrochiti.
Poi il prete si pulì le mani, la mamma aveva gli occhi pieni di lacrime e la nonna la stringeva col braccio. Gli uomini parlavano piano, il babbo e il prete e il dottore, poi il prete fece coraggio alla mamma ma scoppiò in lacrime anche la nonna. Lo zio non parlava, era seduto in un angolo, si premeva le dita sugli occhi, forse pregava, pensai. Poi si alzò e aprì la finestra e spalancò le persiane, e il sole riempì la stanza.
Il letto lentamente si sollevò dal suolo, prima in modo impercettibile e via via tremando come un terremoto, e si diresse verso la finestra, dalla quale passava appena, uscì nel vuoto del terzo piano e stazionò qualche attimo come sospeso.
La vecchia ci salutò con la mano, e poi il letto prese il volo nella luce fulgente che spaccava le nuvole. Io avevo le mani sulla bocca per lo stupore, e guardavo gli adulti, che non dicevano niente, come se non si fossero accorti del prodigio. Da ultimo guardai lo zio, che mi strizzò l’occhio.
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