Erano le dieci di sera e mi ero appena alzato, ero tutto scombussolato, avevo la testa piena di sogni, ancora, come dice quel grande di Jim Morrison. Era la sera del martedì grasso, l’ultima di carnevale. Una serata come tutte le altre, per me. I miei amici invece, loro andavano a ballare in maschera. A me non fregava un cazzo delle maschere e delle feste in discoteca, io volevo solo una birra e tornarmene a casa a vedere un film. I costumi erano anche simpatici. Uno era vestito da nano, col cappello a punta e la barba finta. Un altro aveva la cresta da punk. Uno aveva una clava e un tappetino da bagno leopardato, non su una tutina color carne, ma proprio a pelle, e crepava di freddo. Uno contava di vestirsi da fantasma, ma il risultato era più da KKK. Se mi dai cento euro ti faccio il negro al guinzaglio, gli diceva il barista tunisino, e rideva coi denti bianchi sbarrati, impinzato di coca fino al buco del culo. Insomma, scherzavano e se la ridevano, erano tutti in atmosfera pre festa e gli cominciavano a salire le pasticche sciolte nelle birre, e anche io me la ridevo, anche se cominciavo a rompermi le palle e a pregustare il momento in cui sarei rimasto solo a fumare e bere lì fuori sotto la veranda, a contare le rade macchine che tagliavano la piazza, e infine a togliermi dai coglioni tipo cow boy solitario. E manco a dirlo, finalmente, ciao ragazzi buona serata, e se ne andarono. Presi il giornale locale, la bottiglia di birra e mi sedetti fuori. Faceva un bel freddo secco, aria pulita, e le nuvole di fumo della sigaretta salivano fino ai tetti delle case. La piazza era deserta, e sotto i lampioni sembrava un quadro. Mi misi a leggere il giornale. Non me accorsi mica quando arrivò quel tipo. E questo già la dice lunga. Non c’erano macchine in giro, quindi doveva essere arrivato a piedi. Non era vestito da Joker. Era Joker. Il blazer viola, la camicia di seta verde. Non era un costume. I capelli erano sul serio verdi, voglio dire, tinti di verde, non aveva una parrucca, e sul muso aveva davvero delle cicatrici da coltello. Si riconoscono, le cicatrici da coltello. Allora capii che non mi toccava la serata rilassante che mi ero prefissato: no. Perché io sono un Bat maniaco. E non mi faccio fregare. Respirai forte e rientrai al bar. Il Joker stava prendendo il caffè. Conversava col barista e ridevano. Come se fosse una persona normale, no? Mi avvicinai e ordinai una grappa. Mi misi accanto a lui e lo osservai. Bel costume, gli dissi. Molto realistico. Lui ringraziò e sorrise. Poi, come se non mi fossi accorto di nulla, ma lui sapeva che io sapevo, io lo so, mi chiese dove fosse la discoteca dove erano andati i miei amici. Perché era forestiero, disse. Il grappino mi andò di traverso. Ma certo. Prendere in ostaggio i ragazzi che andavano a ballare. Magari fare una strage col gas. O mitragliarli tutti dalla postazione del dj. Una roba classica da Joker, insomma. I miei amici, cazzo. Dovevo fare qualcosa. Non potevo certo aspettare che se ne occupasse il signor Wayne. Non può occuparsi lui di tutto, pensai. E poi, lui è un esempio, anche. Tutti devono fare la propria parte. E neanche c’era tempo per avvisare le autorità. Che poi, figuriamoci. Quegli imbecilli e venduti mi avrebbero riso in faccia. Mi avrebbero preso per pazzo, come tutte le altre volte. Niente. Quel boss del crimine era un problema mio. Ero io la soluzione. Io ero addestrato. Io avevo visto tutti i film. E poi, devo ammetterlo: non vedevo l’ora. Finisci il caffè, gli dissi, che te lo spiego. Il barista continuava a ridere. Aspetta, aspetta disse al Joker. Vieni un secondo dietro con me. Tu no, mi fece. Ti fa male. E rideva. Andarono dietro, li sentii ancora ridere, e tirare su col naso.
Quell’arabo pazzo non sapeva cosa rischiava. Ma almeno mi dava il tempo di riflettere. Tornarono dal retro, si salutarono e si dettero la mano. Bene, fece il Joker rivolto a me. Allora, dicevamo, la discoteca? Sì, certo, gli risposi. Vieni, usciamo. Aprii la porta e lo feci uscire per primo. La prudenza non è mai troppa, con questa gente. Lo dice sempre anche il Maestro. Ho la macchina qua dietro, disse, non sapevo se la piazza era aperta al traffico. Mi limitai a sorridere. Certo, come no. Non lo sapeva. Bella prova, delinquente. Allora, gli dissi, e gli indicai la strada. Appena si girò lo centrai di sinistro alla mascella e lo misi giù. Pensavo fossi più forte, Joker, gli urlai, mentre lo prendevo a calci. Anche lui urlava, che cazzo fai, mi diceva, cosa sei impazzito. Sempre questa storia, oh. No, io non sono pazzo. Il barista venne fuori richiamato dalle urla e mi saltò addosso, cercando di trattenermi. Allora, mi diceva, ti sei di nuovo fatto le canne sulle medicine. Lo sai che poi dai di fuori. E mentre quell’imbecille mi ostacolava il criminale si era alzato e si frugava la giacca. Sono finito, pensai. Ora tira fuori il ferro e ci spara a tutti e due, a me e a questo rincoglionito. Ma il Joker invece tirò fuori un cellulare e fece qualche passo indietro. Te sei sclerato, mi disse quando fu a distanza. Io ti faccio arrestare. Io non ci credevo. Lui, e solo lui poteva avere una faccia tosta simile. Ma non lo vedi che quello è un detonatore, dissi al barista. Ma davvero non capisci? Farà saltare la discoteca! Quella dove sono i ragazzi! Ma il barista non intendeva. Mi aveva cinturato con le braccia e non mi mollava. E era bello grosso. Devi piantarla di fare casino, mi diceva. Poi passi dei guai. Ma non ci pensi alla tua mamma, mi diceva. E allora io feci quello che dovevo fare. Feci dei bei respiri profondi, come mi diceva sempre il dottore, e mi calmai davvero. Ma mica perché avevano ragione loro. Perché per fare le cose serve la calma. Intanto il barista si era messo a parlare col Joker. Stai bene, tu, gli chiedeva. E quello alzava la voce. Bene un cazzo, urlava, siete tutti matti scocciati in questo paesino. Io vi mando in galera, urlava, e agitava le braccia, quel figlio di puttana. Sono calmo, dissi al barista. Davvero, mi chiese lui. Annuii. Mi fece sedere dentro il bar. Stai dentro però, mi disse, ci parlo io coi carabinieri. Ma intanto continuava a parlare col Joker, gli chiedeva di avere pazienza, che non c’ero tutto. Io intanto avevo allungato la mano dietro il bancone e mi ero nascosto il coltello a punta, quello per tagliare i limoni, nella manica. Con te non ho finito neanche per il cazzo, mi dicevo a voce bassa. Ma dicevo al Joker. Poi arrivarono i carabinieri, con le luci accese, senza neanche la sirena. Il capo del crimine di Gotham, e neanche la sirena. Non c’è speranza, mi dicevo. Cioè, certo che c’è. Una sola. Ma non erano loro. Scesero di macchina, il Joker urlava e smanacciava, loro annuivano, il barista parlava, lo sanno anche loro, gli diceva, non è cattivo, e allora colsi l’occasione al volo e tirai fuori il coltello e uscii urlando, e quel criminale prese a scappare urlando anche lui, e gli sbirri dietro a me e il barista dietro a loro, fermo, sbraitavano, non fare cazzate. Il Joker entrò in un vicolo cieco, povero fesso, e io dietro col coltello, avevamo distanziato gli sbirri e il barista, ma ora la corsa era finita e il Joker era spalle al muro. Ma mentre stavo per beccarlo gli sbirri mi saltarono addosso e mi ammanettarono, maledetti. Dovete arrestare lui, imbecilli, gli urlavo, non me, e loro mi dicevano stai fermo, stavolta ti facciamo rinchiudere, e il barista ansimava appoggiato a un lampione, e il Joker seduto per terra faceva finta di piangere. Ma quelli non ci sentivano. Maledetta polizia corrotta. Mi tirarono su, e continuavano a urlare, e davvero non potevo fare niente, ‘ché ero ammanettato dietro, neanche fossi io il delinquente. Farà saltare la discoteca, gli urlavo. Te vieni con noi in ospedale, mi dicevano. Ma non ci andai, in ospedale. Una luce proveniente dai tetti ci abbagliò tutti. Mi divincolai dalla presa, ma non ci vedevo, e picchiai contro il muro. Allora una corda mi avvolse le braccia, e qualcosa prese a tirarmi su. La vista cominciò a riabituarsi mentre continuavo a salire, e oltre i tetti vidi una figura oscura, ammantata, che mi tendeva la mano, in un turbinio di pipistrelli.
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