Le estati non erano così calde come ora quando ero bambino. Non c’erano l’afa a quaranta gradi e le torme di zanzare a mangiarti vivo. A quei tempi si stava bene. A pranzo, alla casa al mare prendevamo da mangiare in rosticceria, perché né la mamma né le nonne, quando venivano a trovarci, avevano voglia di cucinare e lavare. Usavamo anche i piatti di plastica. Solo le posate e i bicchieri erano quelli soliti. Su quelli non si transigeva. Dopo pranzo si abbassavano le tapparelle e si spegneva la televisione, la casa diventava ombrosa e silenziosa. Tutti si davano alla pennichella pomeridiana. Tutti tranne me. Io preferivo stare in giardino a sparare alle formiche con la pistola ad acqua, accarezzare i gatti sonnacchiosi, infrattarmi nell’orto a mangiare i pomodori a morsi. Ero restio a dormire. Ma i miei genitori volevano farmi fare il sonnellino, vai a sapere perché. Quando c’era il nonno mio babbo gli diceva di raccontarmi qualche favola per vedere se mi addormentavo. Non so come gli fosse venuto in mente. Nonno favole non ne conosceva. Però aveva fatto la guerra. E allora mi raccontava di sbarchi in Albania e battaglie sulle montagne della Grecia, di pallottole che sfondavano corpi e partigiani che mozzavano teste a roncolate. Aveva una lunga cicatrice sul braccio sinistro e non riusciva a tenerlo diritto. Gli avevano sparato gli inglesi il giorno del suo compleanno. Figurarsi se dormivo. Rimanevo a bocca aperta ad ascoltarlo. Almeno fino a che rimaneva sveglio. Perché dopo un po’ era il nonno a cadere preda del sonno, cullato dai ricordi. Io allora uscivo dalla stanza e bussavo a quella dei miei. Il nonno l’ho addormentato, dicevo. Vado a mangiare un pomodoro.
Mario guardò la civetta e guardò suo fratello. Ci vide, ossuti, occhi grandi, naso in fuori, un certa somiglianza. Gli venne da ridere. Ti somiglia, gli disse. Stai zitto cretino, gli rispose il fratello senza girarsi. Continuava a guardare la civetta, che se ne stava arroccata in un angolo del casolare abbandonato. Impaurita, avrebbe detto Massimo. Ma è cucciola? Chiese al fratello, che era un po’ dietro di lui. Non si dice cucciola degli uccelli, gli rispose Mario. Mario era più grande di un tre anni. Aveva già finito le elementari. Ma ora era estate e la scuola non c’era. C’era l’estate, appunto, e il caldo, e il fiume per pescare e fare i bagni, e la campagna per girare e esplorare gli anfratti e i casolari. Come si dice allora, chiese Massimo. Mario scosse il capo, come a dire non lo so. Però no, non è cucciola. Ma i gufi sono più grossi, disse Massimo. È una cucciola. O forse è una femmina. O non sono più piccole, le femmine. Mario scosse il capo di nuovo. Mica sempre, rispose. E poi non è un gufo, sai. È una civetta. Massimo spalancò la bocca. Quelle che di notte fanno paura, fanno quei versi come dei morti, da cimitero, disse. Non ci avrebbe creduto se glielo avessero detto che quel versaccio veniva da un uccellino piccolo, impaurito, con gli occhioni. È ferita? Chiese al fratello. Sì, non lo vedi. Ha un’ala rotta, rispose. Il fratellino lo guardò, come per sapere cosa fare. La civetta li guardava dall’angolo, con l’ala rotta che le toccava terra. Bisogna prenderla e portarla da babbo, disse Mario. Babbo sa raccomodare le civette, chiese Massimo. Babbo sa fare ogni cosa, rispose il fratello.
Il babbo era un bidello, un contadino, un cacciatore. Il babbo si alzava alle cinque e andava alla scuola in bicicletta e riempiva a badilate di carbone una stufa larga come una parete e alta come due uomini, una stufa che bruciava come il demonio e scaldava tutta la scuola. Se a qualcuno pendeva un dente il babbo ti ci legava una lenza e ne fissava l’estremità alla porta e dava una portata. Te non sentivi nulla e ti trovavi il dente in mano, e potevi portarlo a farlo vedere ai tuoi, conservarlo in tasca come un porta fortuna fino a che non marciva. Il babbo aveva un fucile sovrapposto e prendeva cinghiali, tordi e beccacce. Ma alle volpi non gli sparava. E se trovava un uccello con le ali rotte o le zampe spezzate lo portava a casa e lo rimetteva in sesto, poi gli dava la via. Il babbo ogni tanto giocava a carte, e non vinceva quasi mai. Sapeva le stagioni, e i tempi delle coltivazioni. Il babbo aveva fatto la guerra, e ogni tanto la raccontava, e ci pensava più spesso di quanto la raccontasse. Ogni tanto, si accendeva una sigaretta e guardava da qualche parte poco sopra di sé e cantava piano, quasi sottovoce. Allora sapevi che pensava alla guerra.
Si avvicinò alla civetta. Attento ti becca, disse il fratello saltando all’indietro. Ma no, stai buono, gli disse Mario. Tirò fuori di tasca un fazzoletto blu scuro. La mamma glielo aveva dato pulito quella mattina. Pazienza. Che fai, chiese Massimo, un po’ impaurito. Mario si avvicinò piano, col fazzoletto disteso, e con delicatezza lo mise sulla testa del rapace. Aspettò e lo prese con delicatezza. Se lo copri dorme, disse al fratello. Come quando prendi la testa dei polli e gliela metti sotto l’ala. Massimo annuì, rise. Uscirono dal casolare, misero la civetta incappucciata nel cestino della bici e pedalarono verso casa, Mario davanti e massimo dietro stretto al fratello. Arrivarono a casa e posarono la bicicletta al muretto, con la cura che hanno i ragazzi per le cose a cui tengono e infilarono di soppiatto nella stalla. C’erano delle gabbie vuote che il nonno usava per portare i polli da vendere al mercato. Avevano polli e conigli e a volte maiali. Abitavano in campagna, appena fuori dal paese. Al nonno davano del voi, se no erano guai grossi. Aveva mani come pale, il nonno, e una schiena che ci avresti potuto attaccare l’aratro, e baffoni biondi e spioventi, e occhi azzurri che mandavano lampi venati di sangue quando si arrabbiava, e si arrabbiava spesso, e si arrabbiava tanto, e allora i bambini scappavano e abbassavano la testa, ma anche i grandi stavano zitti fino a che non era passata la buriana. Misero la civetta in una gabbia dei polli. E se si mette a urlare la notte, disse Massimo. Mario non rispose. Se il nonno veniva a sapere che avevano portato un rapace in casa li prendeva a fucilate, minimo, loro e il rapace. Non lo so, disse alla fine, e scosse la testa. Andiamo dal babbo, disse. Lasciarono il fazzoletto sulla testa della civetta, che tanto era giorno e aveva da dormire. Il babbo era a farsi la barba nell’aia, davanti a una bacinella di acqua tiepida e un pezzo di specchio. Luglio, cantava, col bene che ti voglio, non ci speravo più. Si misero lì accanto a lui senza disturbarlo. Gli piaceva guardare il babbo farsi la barba. Era una cosa da uomini, una cosa da imparare. Il babbo si sciacquò via il sapone bianco e pulì il rasoio, lo affilò sulla coramella di cuoio e lo chiuse nell’astuccio sempre di cuoio. Il babbo piegava male il braccio, perché aveva fatto la guerra e gli avevano sparato. Gli avevano sparato gli inglesi il giorno del suo compleanno. Anche al nonno avevano sparato, in un una gamba, ma nella guerra prima. Il babbo si lavò il viso e li guardò e sorrise. Che avete fatto, chiese loro. Aveva gli occhi scuri e ridenti, il babbo. Lui si arrabbiava di rado, sorrideva, e cantava. La rabbia del nonno bastava per tutti. Massimo lo prese per la mano, vieni, gli disse, e lo trascinò alla stalla, con Mario dietro. Entrarono e gli fecero vedere la civetta. È rotta, disse Massimo. Cioè, si corresse, è rotta in un’ala. Mario stava zitto. È un bel guaio, disse il babbo, se la vede vostro nonno. Andate in casa e prendetemi uno staccio pulito, alcool e legnetti, disse ai bambini, che corsero via.
Si svegliò di soprassalto. Era il diciassette dicembre, il giorno del suo compleanno. Il caporale lo stava scuotendo. Ricognizione. Si stropicciò gli occhi e bevve dalla fiaschetta di grappa. Una sorsata, poi un’altra. Fece una smorfia e si alzò. Fuori tirava un vento che levava i pensieri. Suo babbo ci aveva provato a spiegarglielo. Non sono le fucilate, non solo. È il freddo. Sono i pidocchi. È la fame nera che ti prende mentre aspetti i rifornimenti. Il sonno. Il sonno che ti porti sempre addosso, il sonno che non ti passa mai e che poi dormiresti anche all’addiaccio e senza aver mangiato. Anche mentre ti sparano. In Grecia era anche più freddo che sul Carso. Ci aveva provato il babbo. Ma certe cose non si spiegano. Si tirò su, si calò l’elmetto sul cappello di lana e prese il moschetto, poi uscì nella neve.
Pensi alla guerra, gli chiesi. Il nonno fumava, e guardava lontano. Io non capivo come si poteva fare a guardare lontano, perché il giardino era piccolo e circondato di siepi, ma il nonno guardava lontano. Fumava sigarette senza filtro, con un pacchetto verde brillante con sopra disegnato un veliero. Il nonno sorrise e mi carezzò la testa con delle mani grandi e callose, mani da campi e da pala, no, mi disse, non pensavo a niente, a niente di particolare, si tirò su con un po’ di fatica e si sgranchì, si massaggiò il braccio invalido e spense la sigaretta. Non penso mica sempre alla guerra, disse a voce bassa, come se parlasse con sé stesso. Mi tirò su con il braccio buono, vieni mi disse, andiamo a fare un sonnellino. Va bene risposi, però mettimi a terra. Ci vengo da solo. Ormai sono grande. Ho quasi cinque anni. Entrammo nella casa con gli scuri abbassati, il nonno davanti con il passo pesante, e io dietro, trottando. Il nonno canticchiava a voce bassa. Luglio, col bene che ti voglio, canticchiava. Non ci speravo più.
Metaxas, il duce greco, aveva fatto sbarcare le truppe inglesi. Gli inglesi avevano tute bianche e rivestite, e gli italiani le mimetiche verdi. Gli italiani potevano solo sparare a casaccio e sperare di darci. Gli inglesi sparavano al verde, e colpo colpo, piccione piccione. Ma se strisciavi abbastanza profondo nella neve ogni tanto con una botta di culo qualche inglese, o greco, sempre in tuta bianca erano, potevi arrivare a vederlo. Con un cannocchiale montato nel moschetto. Ottica, la chiamava il tenente. A lui gliene avevano data una, perché al centro addestramento sparava bene. Troppo facile. Stava in campagna, e andava a caccia fin da bambino. Ma non ai cristiani, dio bono. Sparare ai cristiani, non in combattimento, ma dal cannocchiale, imboscato, nascosto, gli faceva venire un groppo in gola. In fondo al cannocchiale gli inglesi, o i greci, erano uguali a loro. Carponi nella neve, con un babbo e una mamma e fratelli e sorelle, e fidanzate, a aspettarli da qualche parte lontano, sotto le bombe, anche loro. Camminarono bassi bassi, lungo un sentiero, con il vento a segargli la faccia, lui e il caporale. Si fermarono dietro una roccia, il caporale col binocolo e lui col cannocchiale del moschetto, a scrutare in fondo alla burrasca di là dal burrone. Non si vede una sega, disse il caporale. Poi una fucilata gli arrivò sopra la testa, e si buttarono giù al volo, con la faccia nella neve.
I bambini portarono l’occorrente, e il babbo fasciò l’ala alla civetta. Li guardava impaurita, con gli occhi sbarrati. Non sembrava troppo diversa dai sasselli e dai bottacci che il babbo e il nonno usavano come richiami. Aveva la stessa pancia tonda a pallini. Ma la testa quella sì, era diversa, più grande con gli occhioni. Senza collo. Era buffa. Il babbo si accorse che la guardavano incantati. È un predatore, gli disse. Mangia i topi e gli uccellini. I pipistrelli, anche. Al tramonto si sveglia, e va in ricognizione. Appena vede una preda vola giù in picchiata a ali chiuse e torna sull’albero con la preda tra gli artigli. L’ammazza a beccate e la mangia. I bambini lo guardavano. Il babbo sorrise. È vero che porta male, gli chiese Massimo. Che la notte chiama i morti. Ma no, rispose il babbo. Queste sono zinganette.
Si appoggiò al cuscino appallottolato. Per non addormentarsi, diceva. Mi misi seduto sul letto, con un Topolino ingiallito. Non sapevo leggere. Guardavo le figure, immaginavo. Non serviva. Mettiti giù, mi disse il nonno. Mi racconti della guerra, gli chiesi. Mi piaceva quando raccontava della guerra. Faceva i cerchi con le mani quando raccontava. Era bella la guerra. No, disse, ti racconto un’altra cosa. Sai che cos’è una civetta, mi chiese. Ci pensai un po’ su. È un uccello, dissi. Come un gufo, ma più piccolo. Sta sveglio la notte e mangia gli uccellini, come quelli che il babbo tiene in gabbia per andare a caccia. I tordi. Le lodole. Allodole, mi disse il nonno. Sì, mi disse, è come hai detto te. Te lo ha detto il babbo, mi chiese. Annuii. Il nonno sorrise.
Non dite nulla in casa, gli disse il babbo. Infilò la civetta in una gabbia per tordi. Ci stava un po’ stretta. Non dite nulla, che se la trova vostro nonno la fa allo spiedo coi fagioli, gli disse. Lo sappiamo, gli disse Mario. Il babbo si appoggiò l’indice alle labbra spesse. Shhh, fece. Capito, gli disse, questo è un segreto. Non dovete dire nulla ai nonni e nemmeno alla nonna. E nemmeno alla mamma, e a vostra sorella. Lo sapete tenere un segreto, gli chiese. I bambini annuirono. Il babbo li fece uscire dalla stalla e si chiuse la porta alle spalle.
Lo hai visto, gli disse il caporale. Sputò via la neve. Macché, rispose. Tu lo hai visto, gli chiese. Ho visto che mi è andata bene, dio cristo, rispose il caporale. Se ti affacci ti stacca la testa, gli disse. Non c’era verso di uscirne. Se si muovevano il cecchino li fulminava. Se stavano fermi crepavano di freddo. Di fame. D’inedia. Non c’era verso. Il cielo era bianco. La neve cadeva a folate. Il caporale prese un rametto e lo tirò su. Una fucilata lo spezzò in due. Lo sparo rimbombò nella vallata. Ma lui ci vede, gli disse. Se lui ci vede lo vediamo anche noi. Il caporale scosse la testa. Stai basso, capito, gli disse. Basso.
Ma dal vivo scommetto che una civetta non l’hai mai vista, disse il nonno. Scossi la testa. Non l’avevo mai vista. Ero figlio del cemento e dei cartoni animati. Stavo in paese, a due passi dalla campagna. Anni luce. L’ho vista in foto, dissi. A scuola. Il nonno annuì. Aprì un poco la finestra, per far entrare l’aria, si accese una sigaretta. Il fumo disegnò un raggio di luce attraverso la stanza, come quelli dei cartoni animati. Sai che alla tua scuola io ero il custode? Mi chiese. Non all’asilo però. Alle elementari. A quei tempi erano attaccate. Tutte nel solito edificio. Lo guardai un po’ storto. All’asilo le custodi erano vecchie stronze e manesche, ci rincorrevano cercando di prenderci a calci in culo. E poi erano tutte donne. Non lo sapevo, gli dissi. Dimmi della civetta. Il nonno soffiò un’altra boccata di fumo, e anche quella si tramutò in raggio laser davanti alla finestra. Rimasi a bocca aperta a guardarlo, fino a che non scomparve. Sì, disse il nonno.
Basso, era come dire bello che morto. I morti stanno bassi, sotto terra. E lui aveva da campare. Fammi fare, disse al caporale. Fammi provare. Te sei tutto scemo, gli rispose. T’è venuto a noia vivere? Siamo morti uguale, gli disse lui allora. Morti per morti, fammi provare. Il caporale stava zitto. Con gli occhi chiusi. Forse pregava. Muoveva le labbra, come se recitasse un rosario. Ma forse tremava e basta. Va bene, gli disse alla fine. Che ti devo dire? Fai come ti pare. L’altro si distese completamente per terra, e provò a mettere fuori la testa.
Il nonno era seduto a capotavola. Prese il cocomero con tutte e due le mani, ma avrebbe potuto farlo anche con una sola, e lo appoggiò sul tavolo di legno spesso della cucina. Lo fece rotolare col palmo delle mani e poi lo fermò in un punto, come ispirato. Prese dalla madia dietro a lui coltello grande come una sciabola e lo conficcò nel cocomero fino all’elsa, come per ucciderlo. Dette uno strattone e il cocomero cadde diviso in due pezzi. Si tenne una metà per sé, e dette l’altra ai familiari, perché se la spartissero. I bambini lo guardavano, e pensavano la stessa cosa. La civetta l’avrebbe potuta ingoiare in un boccone solo. Poi la mamma gli porse due fette di cocomero. Le mangiarono quasi più veloce del nonno, e poi ebbero il permesso per alzarsi dal tavolo. Corsero di soppiatto nella stalla, per far mangiare la civetta. Gli davano il becchime per polli, ma quella non si degnava, era un predatore. Coi bachi da sego, quelli che poi diventavano mosche, andava un po’ meglio. Tirava giù la testa di colpo e li ingoiava in una botta sola, non come i tordi. Era spaurita e arruffata, ma mangiava in modo feroce. Il babbo gli aveva detto di non farci la bocca, di non affezionarsi troppo. Appena guarita l’avrebbero liberata. Se non la beccava prima il nonno, ovviamente.
Mise fuori la testa, piano, come una tartaruga, sporgendosi il meno possibile. Il fucile stretto alla gamba, in mano il binocolo. Se lo portò agli occhi, e li vide. Erano due anche loro. Uno col fucile e uno col binocolo. Sembrava di guardare in uno specchio. Tirò su il fucile lungo il corpo infradiciato, se lo portò alla spalla, e prese la mira. Mirò a quello col fucile. L’ottica era più precisa del binocolo. Quello col fucile era biondo, un ragazzino. Probabilmente non si faceva nemmeno la barba. Metti l’elmetto in un ramo, disse al caporale. Quando te lo dico io tiralo su. Il caporale raccattò un ramo e ci fissò l’elmetto. Vai gli disse, e il caporale lo sporse in alto oltre la roccia. Quando vide la vampata dello sparo sparò anche lui.
Ma non la trova mica la civetta, quel nonno cattivo, vero, gli chiesi. Ero in apprensione. Non era mica cattivo, sai, mi rispose. Era un patriarca. Un patriarca contadino. Di quelli di una volta. Io lo guardavo e non capivo. Una volta, mi disse mio nonno, e cercò le parole esatte per spiegarmelo. Rimase assorto, non le trovò. Una volta era diverso, concluse. Ma non era cattivo, davvero. Io annuii. La civetta, gli dissi. La trova, poi alla fine? Il nonno continuò.
Quello cadde. Ne era sicuro, anche con la divisa bianca nella neve. Rotolò di nuovo dietro la roccia, in tempo per sentire il botto di due spari di risposta coprire le bestemmie del caporale. Intorno volavano schegge di sasso. Anche l’altro bestemmiava, anche se non lo capiva. Non serve intendere la lingua per capire se uno bestemmia. Bestemmiava e sparava, intervallando. Lo hai preso, gli chiese il caporale. Penso di sì. Si, rispose. Lo aveva preso, sicuro. Il fuoco in risposta era un fucile solo. Ora c’era da sganciarsi. Quello che sparava non era un tiratore scelto. Tirava furioso, urlando, a raffiche brevi. Il tiratore era a terra. Ti copro, gli disse il caporale. Si affacciò e rispose al fuoco. Si alzò di scatto e fece qualche metro, si buttò a terra dietro un tronco d’albero e prese la mira. Sparò nella stessa direzione di prima. Il caporale gli venne dietro e si buttò in terra anche lui. Pronto, gli disse. No aspetta, rispose. Lo vedo. Qualcosa lo pungeva in un fianco. Si tirò su di lato, con un gomito, poi vide una fiammata, sentì caldo all’improvviso, e poi fu tutto buio.
La civetta era quasi guarita. Non mancava tanto a dargli la via. Muoveva l’ala che era stata ferita, le apriva entrambe, come per sgranchirsi. Poi il nonno la trovò. Lo sentirono urlare da dentro casa. La nonna si fece il segno della croce. La mamma guardò il babbo. Anche Mario lo guardò. Massimo guardò il babbo e suo fratello, e scoppiò a piangere. Il babbo si alzò e si precipitò fuori, coi bambini dietro. Il nonno avanzava verso di loro a passi pesanti e lenti, la faccia rossa, le vene del collo come tubi di stufa. Sbuffava e bestemmiava. Avete rallevato una civetta, gli urlò contro. Agitava i pugni in aria, come per abbattere tutte le civette del mondo. I bambini si misero dietro al babbo. Babbo state calmo per piacere, disse quello rivolto a suo padre. I vostri nipoti l’hanno trovata ferita, la volevano salvare. Il nonno continuò a urlare bestemmie e improperi, fino a che si fermò a riprendere fiato. Falla fori te, disse al babbo. Se no lo faccio io. Massimo aveva la faccia rigata di lacrime. Mario cercava di trattenere il pianto. Non ci riuscì. Lo faccio io, disse il babbo.
Si risvegliò in un ospedale da campo. Aveva il braccio sinistro rotto e squarciato, fasciato di bende intrise di sangue. Si sedette sul letto e aspettò che il giramento di testa passasse. Uscì, chiese una sigaretta e la fumò guardandosi intorno. Ambulanze, barellieri, lamenti. Feriti che inzuppavano le divise nei barili di petrolio per uccidere i pidocchi. Lo avevano preso mentre si girava. Se non ci fosse stato quel sasso a bucarlo sul fianco la fucilata invece che il braccio gli avrebbe aperto il cuore. Il caporale, venne a sapere, gli aveva fermato il braccio con la cintura, se l’era caricato in spalla e lo aveva riportato al campo. Il cecchino non aveva sparato. Di lì a poco lo avrebbero imbarcato in una grande nave con un croce rossa su un lato, e congedato con una medaglia, e rimandato a casa. Il caporale non lo vide mai più. Il cecchino biondo, invece, continuò a vederlo per tutta la vita, nei sogni. Anche le fitte al braccio se le portò nella tomba.
Il babbo tornò in casa e uscì col sovrapposto. I bambini continuarono a piangere. Zitti disgraziati, gli urlò contro il nonno. Quelli piansero più forte. Il babbo prese la gabbia con la civetta, infilò la mano e la tirò fuori. Distese il braccio buono come per sospingerla, e quella si librò in aria, in un volo contorto, stordita dalla luce del giorno. Spara! Che aspetti! Urlava il nonno. Il babbo prese la mira. I bambini continuavano a piangere. Il babbo sparò, il botto della fucilata rimbombò per la campagna. Il babbo abbassò il fucile. I bambini si tolsero in fretta le lacrime dagli occhi e guardarono per aria. La civetta volò in cerchio e si infilò nel fitto degli alberi. Il nonno urlò qualcosa che non capirono, qualcosa sui santi e sui diavoli, agitò il pugno in faccia a suo figlio che fece un passo indietro, poi andò verso la casa, prese una zappa e si diresse verso i campi imprecando. Le bestemmie fitte, in lontananza, sembravano una cantilena. La zappa brillava nel sole, come la falce di Kronos. I bambini guardarono il babbo. Il babbo gli fece l’occhiolino.
Erano il babbo e lo zio, quei due bambini della civetta, dissi a mio nonno. Mio nonno sorrise, e annuì. Rimasi zitto, a fantasticare. Senti, gli chiesi, ma tu l’hai fatto apposta, vero? A non ammazzare la civetta. Mio nonno mi carezzò la testa e mi fece l’occhiolino, e di lì a poco si addormentò. Respirava pesante. Chissà cosa sognava. Io sgattaiolai fuori dalla stanza, dissi allo spiraglio della porta dei miei che il nonno dormiva e corsi fuori. Entrai dentro l’orto, colsi un pomodoro, lo pulii nella maglietta e mi misi a mangiarlo al meriggio, mentre mi immaginavo la civetta volare.
Filippo Rigli
(Montevarchi, 1979)
Ha pubblicato racconti per le riviste letterarie Stanza 251, Flanerì, La tela Nera, L’Indiscreto, Il lavoro culturale, oltre che per il “Corriere della sera”.
Nel 2008 è stato tra gli autori del racconto collettivo “Alba di piombo”, nel progetto di Scrittura Industriale Collettiva (SIC), ideata da Vanni Santoni e Gregorio Magini.
Nel 2013 è stato tra gli autori di In territorio nemico, primo romanzo composto col metodo SIC.
Nello stesso anno ha pubblicato alcuni racconti nell’antologia Decameron 2013 curata da Marco Vichi, per Felici Editore.
Nel 2019 è uscito un suo racconto nell’antologia La scia nera, sempre a cura di Marco Vichi, per Tea edizioni.
Vive e lavora a Firenze.
