Versan le vene le fummifere acque
Lo spazio fisico e geografico del poema dantesco si estende dalle Colonne d’Ercole a ovest, sino alla foce dell’Indo, nell’estremo Levante, oltre i cui limiti si aprono solo immensi oceani, proiettandosi in quello che potremmo definire come l’universo morale del poeta e del suo tempo, in linea con le conoscenze e le convinzioni proprie del cristianesimo medievale. La sua geografia del reale, così come le sue ultraterrene vie, si basa quindi su una serie di fondamenti dibattuti e studiati al suo tempo e ritenuti scientificamente validi, disegnati con forti tinte simboliche, morali e religiose, i quali, sebbene possano restituire a noi moderni una dimensione del pianeta Terra quantomeno fantastica, al pari di una qualsiasi mitogenia, per Dante e per i suoi contemporanei costituivano la realtà delle cose, il mondo così come si pensava che fosse.
Per una valutazione maggiormente ordinata della concezione del mondo dantesca, già profondamente radicata nella tradizione, occorre però rifarsi alla sua ultima opera in lingua latina, ovvero la Quaestio de aqua et terra, risalente all’anno precedente la sua morte. Il 20 gennaio 1320 una folla numerosa assiste nella chiesa di Sant’Elena in Verona alla determinatio pubblica dantesca, nella quale il poeta presumibilmente chiarì – esistono tuttora dubbi sulla paternità dell’opera – la sua posizione in merito alle terre emerse e alla concezione concentrica dell’Universo. Cardine della Quaestio è l’identificazione del centro del Tutto con il centro della Terra. Attorno si disporrebbero gli elementi terra, acqua, aria e fuoco, con l’acqua pertanto a ricoprire la Terra in ogni sua parte, in ovvio contrasto con l’esperienza e l’osservazione diretta delle terre emerse e dei mari. Laddove ciò non avviene, sta appunto l’argomento principe del testo. Accordandosi con Aristotele, Dante descrive una sorta di gibbosità della Terra in alcune sue parti, ammettendo l’esistenza di terre emerse, e rendendo di fatto possibile anche l’esistenza di corpi complessi, tra i quali l’uomo. Imbrigliato, potremmo immaginare, dall’impossibilità di dimostrare le sue tesi, l’Alighieri fa riferimento dunque alla necessità di una maggiore umiltà da parte dell’uomo nei confronti del divino e della sua ovvia superiorità. Il mondo di Dante è così circoscritto a un preciso schema, a leggi fisicodivine cementificate dal tempo, sulle quali egli ricama il suo poema e dalle quali prende le mosse con sicumera, “tum veritatis amore, tum etiam odio falsitatis”.
Dante accenna peraltro ai vapori che la Terra contiene, e che spingerebbero in alto le acque sotterranee, quando in Io son venuto al punto de la rota scrive: “Versan le vene le fummifere acque / per li vapor che la terra ha nel ventre, / che d’abisso li tira suso in alto”; dimostrando così, attraverso la sua diretta osservazione dei territori in questione, come alcuni fenomeni inspiegabili possano verificarsi.
A supporto della sua idea del mondo Dante distribuì nei suoi testi innumerevoli riferimenti geografici e geomorfologici dei luoghi che egli stesso conosceva, giustificando soprattutto nella Commedia la sua concezione dell’Universo e del pianeta Terra. Una sua particolare lucidità la si può ricavare in riferimento alla penisola italiana, quando il poeta arriva ad ammettere nel Convivio che “(…) per le parti alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando sono andato”.
La buona conoscenza di Dante del nostro paese si riflette in dettagliate e puntuali indicazioni orografiche e idrografiche, in particolare delle zone comprese tra Toscana, Emilia Romagna e Veneto, a causa sì dell’esilio che lo portò ad addentrarsi in una lunga serie di spostamenti, ma anche in relazione alla sua biografia precedente, all’infanzia e ai probabili natali materni in Montegemoli. Bella degli Abati infatti fu natia di questo piccolo borgo della Val di Cecina, mentre il padre, Alighiero degli Alighieri, era probabilmente originario di Volterra. Dante ebbe quindi con numerose probabilità modo di conoscere e osservare questi luoghi a fondo, di attraversarli ben prima che “(…) fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno”.
Il legame della Commedia con la Val di Cecina è profondo, nonostante sia appena accennato nei suoi versi. Dante sfrutta la magnificenza terrena di queste lande sulfuree per darvi dimora a Cerbero e alle Arpie, ne elabora i tratti rudi della terra bruciata, lascia entrare la desolazione necessaria a caricare il suo Inferno con lo spessore dell’immaginazione. I suoi scialacquatori fuggono disperati in un territorio arido, crudele, vestito di rocce taglienti e fumi nauseabondi; fuggono inseguiti da cagne nere ruggenti, incespicano e cadono, strappano i rami dolenti dei suicidi, trasformati in lamentosi arbusti contorti, aggiungendo dolore al male e sottraendo agli inerti dannati spiragli di umanità, a ogni loro confuso passaggio. Che Dante avesse tratto ispirazione dalle suggestioni della Valle del Diavolo per l’ambientazione del suo Inferno è cosa nota, ma la stretta relazione che intercorse tra il poeta e i luoghi da lui attraversati, nell’ottica di una trasfigurazione geografica nella letteratura, rimane sorprendente, in virtù dell’attenzione, della precisione che l’Alighieri riversò nella sua opera, oltre che della continuità letteraria di cui questo territorio ha goduto.
Quello che apparve al poeta come un luogo perfetto per i suoi scopi letterari è oggi trasformato dal passato industriale della storia e dalla mano dell’uomo, sebbene a ben guardare si possano ancora riconoscere quegli stessi scorci brutali e dannati che conquistarono Dante e che lo convinsero a eleggere l’alta Val di Cecina ad anticamera dell’inferno e a dimora di Cerbero, “fiera crudele e diversa”.
Un piccolo universo selvaggio e luciferino si intravede ancora negli angoli meno antropizzati della regione, mentre a voltare lo sguardo anche solo di un poco si accoglie in un momento l’innovazione geotermica e le sue immense strutture, anacronistiche piramidi e tubi tentacolari, in una valle che pare muovere da un altro pianeta, atterrando tra noi, senza che quasi ce ne accorgessimo.
Dante è un geografo, inconsapevole forse, ma preparato e attento senz’altro; furbescamente adatta il suo capolavoro ai luoghi che meglio conosce e che meglio può sublimare. La sua attenzione agli aspetti umani e antropici, in relazione agli ambienti naturali e alle loro caratteristiche, ai loro fenomeni, rende Dante un geografo più moderno di quanto non si possa pensare. Il suo poema lo si può ragionare come una sorta di Atlante geografico e storico dell’Italia del tempo, ricco di riferimenti e dati, di rimandi tangibili a fatti realmente accaduti, a persone realmente vissute, capaci di creare un’architettura definita e puntuale delle epoche a lui contemporanee o precedenti. Dante era un profondo conoscitore del territorio italiano e ne sviluppa nella Commedia una veritiera, seppur in funzione narrativa, analisi, attraendo alla finalità letteraria discipline molto diverse tra loro, tra cui, appunto, la geografia. Dante evoca quindi la realtà fisica dei territori, descritti con grande precisione ambientale, per scopi puramente espressivi. Con Dante i luoghi e gli ambienti divengono funzionali alla rappresentazione delle vicende, adattandosi allo stato d’animo e alle vicissitudini dei personaggi che di volta in volta li abitano. Alle infernali attitudini e colpe corrispondono scenari lugubri, sconcertanti, naturalmente e fisicamente allineati all’ambientazione della Commedia. La sua cartografia fisica accompagna perfettamente i concetti filosofici, psicologici e morali dei quali Dante stesso era ambasciatore nella cultura del suo tempo.
La zona di interesse dantesco era già nota da tempo, grazie anche alla celebre Tabula Peutingeriana, la copia di un’antica carta itineraria di realizzazione romana, che ben delineava, sebbene solo in funzione topologica, la presenza, la posizione e la distanza tra alcuni elementi geografici, come città, mari, fiumi, siti termali compresi. Qui trovava rappresentazione, oltre alla città di Roma simboleggiata da una matrona seduta sul suo trono, il sito conosciuto come Bagno al Morbo, definito Aquae Volaterranae, saltuariamente visitato da Lucrezia Tornabuoni, sposa di Piero di Cosimo di Giovanni de’ Medici, e da Lorenzo de’ Medici, che qui ricevette nel 1484 il poeta colligiano Bartolommeo Scala, per farsi consegnare dei versi latini, da questi composti l’anno precedente nella stessa località, frequentata assiduamente a causa della podagra che lo affliggeva. Ancor prima però la presenza di acque calde in questi territori era stata indicata dal poeta greco Licofrone, il quale scrisse dell’esistenza di un fiume, chiamato Lynceus, caratterizzato da acque medicamentose e identificato con l’attuale fiume Cornia, la cui sorgente si trova, non a caso, sul vicino Monte Aia dei Diavoli, in un disegno complessivo che tende a sottolineare una certa continuità toponomastica, a partire dalla Valle del Diavolo, sino al Fosso di Malentrata, passando per Montecerboli, il cui etimo risulta chiaramente vicino al Cerbero mostruoso.
A seguito di Caronte il traghettatore e del giudice Minosse, è quindi Cerbero a comparire come la terza delle figure poste da Virgilio a guardia dell’Averno, così come risultano secondo l’opera dell’illustre guida dantesca, (Eneide, VI, 417-425; VIII, 296-297), elevata, se così possiamo dire, a demonio dal poeta fiorentino. Egli si trova qui a guardia dei golosi, secondo anche una precisa etimologia che lo identifica come il divoratore di carni, χρεοβόρος.
Questo personaggio, profondamente trasformato rispetto alla tradizione classica – compare per la prima volta, da incerte origini, nella Teogonia di Esiodo, figlio di Tifone e di Echidna, e cinquanta sono le sue teste; fu anche citato da Ovidio nelle sue Metamorfosi attraverso il racconto di Orfeo ed Euridice, nel quale Orfeo riesce a placarne la furia con la sua musica, unico di fatto a sconfiggerlo oltre a Ercole – acquisisce tratti maggiormente demoniaci, di una pericolosità superiore e di una importanza letteraria accresciuta, sebbene già nella classicità godesse di varie rappresentazioni e versioni diverse del mito. Dalla sua bava caduta in terra, proprio mentre Ercole lo trascina via fino a Micene, si sarebbe infatti generata la velenosa pianta dell’aconito, presente anche sull’arco alpino e capace di provocare la morte in breve. Presente anche in Apuleio, nel suo L’asino d’oro, Cerbero svolge il ruolo consueto di guardiano infernale in Amore e Psiche quando, affrontato e superato, non viene però nemmeno chiamato per nome, sebbene la sua descrizione sia inequivocabile. Sarà poi lo scrittore Jorge Luis Borges, nel suo Manuale di zoologia fantastica, a ricordarci quanto una figura simile si sia in qualche modo replicata in culture tra loro ben distinte, dimostrando così quanto antica e diffusa possa essere stata; pertanto “nella mitologia scandinava un cane insanguinato, Garmr, sta a guardia della casa dei morti, e verrà a battaglia con gli dèi quando i lupi infernali divoreranno la luna e il sole”. Poco oltre leggiamo: “Il bramanesimo e il buddhismo propongono inferni di cani che, a somiglianza del Cerbero dantesco, sono carnefici delle anime”.
Ma non è solo nell’antichità letteraria che possiamo trovare Cerbero. Nel seicentesco Paradiso perduto di John Milton si parla infatti di un “sozzo branco di molossi infernali”, che dalle loro “cerberee gole” ululano. Persino il premio Nobel portoghese José Saramago troverà spazio per questa creatura, citata, anche se solo di passaggio, come pretesto del suo romanzo La zattera di pietra, al fine di giustificare una inspiegabile vicenda legata ai cani di una zona di confine, tra Francia e Spagna, alla base della narrazione. Proprio nelle prime pagine si legge infatti: “Nel comune di Cerbère, dipartimento dei Pirenei Orientali, in epoche greche e mitologiche, aveva abbaiato un cane a tre teste che, se lo chiamava il barcaiolo Caronte, suo padrone, rispondeva appunto al nome di Cerbère”.
Sarà però Dante il primo, e il più importante, ad accrescere il suo spessore, raccogliendo testimonianze passate e esperienze lontane tra loro, e Cerbero diviene quindi “il gran vermo” (Inferno, canto VI), in assonanza con l’appellativo riservato nientemeno che a Lucifero stesso nel corso del canto XXXIV dell’Inferno. Dante, rispetto al Cerbero virgiliano, non lesina di particolari per descrivere il demonio, soffermandosi sugli occhi, “vermigli”, sui particolari della “barba unta e atra”, sulle mani “unghiate”, restituendo un’immagine della bestia crudele e terrificante insieme, che “graffia li spirti ed iscoia ed isquatra”, allo stesso modo di come essi hanno fatto in vita con il cibo, dominati dal vizio. Proprio grazie al cibo, nell’Eneide, Virgilio supera l’ostacolo di Cerbero facendo gettare nelle sue fauci una focaccia di miele farcita di erbe soporifere, mentre nella visione dantesca questi viene ammansito, sempre grazie all’intervento di Virgilio, con il lancio di terra polverosa nelle sue tre gole, placando così la sua fame terribile, e permettendo in tal modo ai due di aggirarlo per continuare il viaggio. Quella stessa terra, il nudo suolo, con la quale il demonio Cerbero viene identificato sin dall’antichità, poiché ogni cosa che veniva seppellita era divorata, assimilata in poco tempo, fino a scomparire. Cerbero divora il tempo, proprio come lo scrittore del diciottesimo secolo Zachary Grey ci ricorda, grazie alla puntuale iniziativa del già citato Borges e del suo Manuale, nel quale appunto si riporta che “questo cane con tre teste rappresenta il passato, il presente e l’avvenire, che contengono, o come chi dicesse divorano, tutte le cose”. La vittoria di Ercole, dodicesima fatica, su Cerbero, testimonia infatti come le azioni caratterizzate dall’eroismo vincano sul tempo, e possano quindi sopravvivere. Nella visione dantesca le tre teste acquisiscono un ulteriore significato, anche in funzione allegorica, in relazione ai vizi, così importanti nel disegno complessivo della Commedia. La tricefalia del demone infatti indicherebbe la rappresentazione del vizio, inteso per le sue tre applicazioni, relativamente al peccato di gola, quivi difeso e custodito dallo stesso Cerbero nel III cerchio infernale: per quantità, per qualità e per continuo, a seconda quindi che il vizio sia stato perpetrato in misura eccessiva, o caratterizzato da gravità assoluta, o ancora continuativamente nel corso dell’intera esistenza. Il poeta britannico Samuel Butler paragona nel suo poema satirico Hudibras come le tre teste di Cerbero, custode dell’inferno, siano di fatto avvicinabili alle tre corone della tiara del Papa, custode del cielo, sottolineando così una sorta di corrispondenza, presente anche nella Commedia, tra il bene e il male, cielo e inferno. Il vizio della gola, anche iconograficamente legato a Cerbero, è però solo in apparenza oggetto principale del canto, oltre il quale, proseguendo, verranno a emergere peccati ben più gravi, come la superbia, l’invidia e l’avarizia. La gola quindi, viene ad assumere la caratteristica di premessa a vizi peggiori, interconnessi sempre fra loro secondo abitudine dantesca, conseguenti uno all’altro e pertanto maggiormente e più crudelmente punibili; indubbiamente peggiore dal punto della qualità del peccato, è il caso del canto XIII, nel quale sono puniti i violenti contro sé stessi. Dante e Virgilio hanno attraversato il Flegetonte e si avventurano quindi in un bosco oscuro e inaccessibile, nella valle dei suicidi, “non fronda verde, ma di color fosco”; è Dante stesso a indicarci il luogo esatto in cui si trovano, precisamente tra Cecina e Corneto, odierna Maremma, che ospita ed è dimora delle Arpie, “non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che ’n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno”. Il poeta fiorentino si sofferma brevemente su queste terribili bestie, descritte con ali, “colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre”. I loro lamenti giungono striduli dagli “alberi strani”. In tutto il canto, suoni aspri e sibilanti, richiami fonici difficili, riprendono attraverso l’uso della lingua le stesse asperità del territorio e delle creature che lo abitano, in una armonica e crudele sinuosità poetica, drammatica e sublime. Così l’episodio di Pier delle Vigne, anticipato dal suo grido di strazio “perché mi schiante?”, consapevole della sua mostruosa e irreversibile condizione, che prima “uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.
Jorge Luis Borges delle Arpie ne tratteggia le origini, quando nel capitolo del suo Manuale a loro dedicato, scrive: “Sono divinità alate, di lunga e sciolta chioma, più veloci degli uccelli e dei venti, mentre poco oltre sono Furie negli inferni, Arpie sulla terra e Demoni (Dirae) nel cielo”.
Così come dalla ovattata calma della valle esplode d’improvviso il fragoroso sibilo della terra, allo stesso modo Dante costruisce l’episodio successivo, quello degli scialacquatori, scandito da tre fasi; il silenzio, la caccia infernale e il suo spaventoso rumore, silenzio di nuovo. Lo sperpero dei beni di questi dannati attuato in vita, coincide con la dissoluzione del loro corpo, ora lacerato e sbranato dalle terrificanti cagne nere inseguitrici. Puniti e artefici di punizione altrui, essi infatti nella fuga strappano i rami dei suicidi, accrescendo la loro pena, protagonisti dell’artificio letterario della caccia infernale, molto comune nell’epoca medievale, così come anche la vicenda boccaccesca di Nastagio degli Onesti e della donna inseguita da due crudeli mastini, nella pineta fuori Ravenna, può testimoniare. Il Decamerone di Boccaccio dedica inoltre la nona novella del sesto giorno ad alcuni personaggi noti all’epoca come membri della Brigata spendereccia, simbolo della vanità senese, tra i quali precedentemente l’Alighieri scelse Lano, accogliendolo proprio negli scialacquatori del canto XIII. Dodici giovani, conosciuti e descritti anche da uno dei primi commentatori della Commedia dantesca, Benvenuto da Imola, rampolli delle famiglie tra le più facoltose di Siena, che si riunirono nella sede di via Garibaldi, la cosiddetta Casa della Consuma, ancora oggi esistente, a sperperare ogni loro ricchezza, senza considerazione del domani.
Si faceva brace, si risolveva in cenere
Le terre della Val di Cecina attrassero, anche in epoche successive all’Alighieri, alcuni altri autori, tentati e convinti di poter leggere nelle tenebre dei boschi e nel biancore accecante del vapore una sorta di destino letterario. Il britannico David Herbert Lawrence intuì, in particolare nei territori del volterrano da lui visitati nell’aprile del 1927 in compagnia del pittore statunitense Earl Henry Brewster, una sorta di miticità, elevando i percorsi degli antichi etruschi a luoghi di elezione, sebbene all’epoca viziati dal vacuo riecheggiare di energie romane, semplificate nell’imbarazzo per la piccola Italia mussoliniana. Saranno la vitalità e la solennità delle bellezze di Volterra a riconciliare Lawrence con il territorio, del quale emergeva comunque dal baccano fascista un più nobile destino, cristallizzato nelle pietre, negli alabastri, nei boschi e nei colli vicini.
Il destino, sebbene unicamente umano, è anche una componente fondamentale della scrittura del D’Annunzio, che dei moti di spirito dei suoi personaggi ne fa una ragion d’essere, soprattutto se dettati da una vitalità impossibile da reprimere, da un foglio già scritto. Lo scrittore pescarese fu in visita a Larderello e i suoi lagoni il 29 ottobre 1909, soggiornando circa due settimane a Volterra, esattamente un anno prima di dare alle stampe il suo Forse che sì, forse che no, ritrovando qui la stessa dinamicità futurista dell’aviazione appena nata, espediente che dona avvio all’opera, nelle turbine lucenti dei mirabolanti impianti geotermici. Il fragore della terra, tradotto e costretto nelle metalliche ragnatele umane, è il terreno ideale per la trasformazione del suo personaggio tipo, dal classico alter ego dannunziano, esteta e decadente, al borghese classico italiano di inizio secolo, ingenuamente affascinato dalle macchine e dalla novità che esse rappresentano. Abbagliato dalla singolare quanto storica manifestazione di Montichiari del settembre 1909 – alla quale parteciparono, con differenti punti di vista, anche Giacomo Puccini e Franz Kafka, il quale ne raccolse le impressioni nel suo giovanile Gli aeroplani a Brescia, costituendo fondamentalmente la prima descrizione di aeromobili dell’intera letteratura tedesca – il poeta vate acuisce il suo nuovo interesse, foriero di trasformazione personale e letteraria, motore, è il caso di dire, di una nuova discesa agli inferi per i suoi personaggi, una rinnovata catabasi, sino all’orlo della follia, nelle stesse terre antiche che ispirarono Dante. A distanza di secoli l’inferno non si è spostato; ha sì cambiato volto, sebbene solo parzialmente, per mascherarsi da modernità, vestendosi di tecnologia e scienza, ma conservando in sé le medesime attrattive, le sue cupe qualità letterarie, le sue innate forze misteriose. Il fascino per l’oscurità infernale proposta da queste località non smise mai di attrarre a sé autori di ogni estrazione, alimentando anche le curiosità del Granduca Pietro Leopoldo, interessato certamente alle arti, ma non propriamente uno scrittore, il quale descrisse proprio il borgo di Montecerboli nelle sue Relazioni sul governo della Toscana. Il Granduca, costretto forse nello stile necessario a una relazione, si lascia andare comunque ad aspetti più descrittivi, i quali possono anche darci la dimensione dei cambiamenti del territorio, riportando che “Monte Cerboli è un piccolo castello di tre in quattrocento anime, passato il quale a un miglio si trovano in una valletta tutta erbosa per il giro di un miglio grandissime aperture e vari fumacchi”. Poco oltre si legge: “In molti l’acqua non bolle più, altri sono secchi e fumano solamente; molti poi sono laghetti di acqua che bolle con grand’impeto, in altri è spinta fuori l’acqua quattro o cinque braccia con rumore; in molti si sente escire di sotto terra il vento solamente con gran strepito e si vede che fanno continue mutazioni, in un luogo se ne spengono, altrove se ne aprono di nuovi”.
Se il Granduca si azzarda di poco oltre il mero resoconto, D’Annunzio trae invece grande ispirazione da questi luoghi, ricamando su di essi numerose e abbondanti descrizioni, talvolta strabordanti.
Per il vate Volterra è “muta come i suoi sepolcreti, è una landa malvagia, un deserto di cenere”, mentre dalle Balze riesce a scorgere “il luccichio del filo d’acqua che sbava nel fondo della bolgia spaventosa, le biancane nell’albore lunare simili alla crosta d’un pianeta estinto”; e poi ancora troviamo echi danteschi un po’ ovunque, nel “sibilo della raffica”, nel “girone oscurato, la valle d’abisso”, nel “tremor dell’Inferno”, fino a chiedersi se “era la riviera del bollor vermiglio quella che fumigava a valle della vecchia roccia? Quella che luceva tra le grotte allamate era la lorda pozza ove Dante vide fitti nel limo gli iracondi?”, o poco oltre, “tumuli cupi fumigavano nella radura fenduti di fiamma come gli avelli roventi del Sesto Cerchio: erano le carbonaie. Ma quei vasti letti di silenzio e d’ombra, separati da lunghe zone di selvaggia notte, quegli àlvei senza corso e senza foce tra argini che ruppe un tempo la piena del duolo, non erano i fiumi inariditi delle valli averne? non erano l’Erebo e lo Stige, il Lete e l’Acheronte?”. Il Vate scorge infine Dante e le sue anime dannate, quando “il fuoco del solleone sembrava piovere a dilatate falde come sopra il sabbione ove Dante vide star supini e immobili i rei di violenza contro Dio, di continuo correre le greggi delle anime nude, la tresca delle misere mani senza riposo scuotere le vampe, e solo giacere senza cura dell’incendio quel grande. Come l’arena dello spazzo infernale, la creta s’accendeva «a doppiar lo dolore», si faceva brace, si risolveva in cenere”.
Persiste un uso del linguaggio che veste perfettamente l’ambiente, ancora come in passato con chiare finalità letterarie e profonde conoscenze geografiche, un’attenzione quasi maniacale, da parte del D’Annunzio, alla eco che ben rende l’idea di ciò che bruciava e si è spento, e ancora fuma, ciò che incute timore e scuote gli indeboliti animi dei protagonisti, scurendo e facendo brillare, all’occorrenza, gli anfratti e le rocce del paesaggio. E così “le braci delle città maledette, i residui degli incendii espiatorii, la polvere delle tribù punite”, cosicché “tutto nel crudele riverbero delle biancane moriva”.
Anche i più comuni aspetti faunistici si riscoprono in veste infernale, e così “in un fosco nuvolo s’era converso il mucchio subitamente, in un nuvolo vivo dai margini palpitanti, pieno d’un gracidìo roco, dilatandosi in fuga verso i canneti, rompendosi in aspre strida, penetrando nelle chiome dei pini, addensandone l’ombra, riempiendole come d’un lembo notturno. Le cornacchie!”, subito facilmente avvicinabili alle tremende Arpie dantesche.
Ma D’Annunzio non vede solo natura, bensì accanto a essa riconosce anche la implacabile mano umana nel paesaggio, contributo imponente e di impatto, senza il quale l’aspetto infernale del territorio non sarebbe lo stesso, e quindi “i nugoli si riaddensavano, palpitavano intorno alle buche, si laceravano ai castelli di travi, alle gigantesche trivelle, ai tubi di ferro per ovunque diramati, ora proni ora irti, in intrichi rugginosi e ruggenti”.
— È l’inferno.
Giravano per la lorda pozza. L’acqua, simile a una broda bigia, viscosa, untuosa, bolliva levando bolle simili a vesciche involute di belletta, che a ogni scoppio schizzavano falde di fango contro le ripe tinte di giallo e di sanguigno. Bolliva e soffiava come se per entro vi salisse l’ànsito e il gorgoglio dei dannati fitti nel limo, come se nel fondo vi s’agitasse la mischia perpetua degli iracondi. Di tratto in tratto una bolla vi si gonfiava smisuratamente, con la violenza di una scaturigine: pareva fosse per rompersi e per iscagliare tra spruzzi e schiume un groppo di genti fangose che a brano a brano si troncassero e dilacerassero. Un getto di vapore con un sibilo assordante vinceva ogni altro strepito. Il fetore del solfo riempiva la vasta nebbia estenuante.
Il linguaggio di D’Annunzio si fa sempre più specifico, si ingarbuglia, si fa intricato come i tubi, si dirama in mille rivoli come il fumo, confonde come nebbia fitta e affascina, come le tenebre che dalla terra scaturiscono. I protagonisti pertanto “giravano di proda in proda, di bulicame in bulicame, e non udivano le loro parole nel fragore che le copriva, nel vento che le rapiva, nel fumo che le affiochiva. Vacillavano su le pomici nere e rosse, su l’alberese calcinato, su i crepacci del loto misto di tritumi e di croste. Non un filo d’erba, non uno sterpo, non uno stecco su le ripe dolenti. Il suolo sgrigliava sfarinandosi, sgretolava tritandosi sotto i piedi come i rosticci del ferro colati dalle fornaci, come la carbonella cenerosa avanzata dai forni. A quando a quando da uno spiracolo terragno un soffio torrido li investiva, con l’anelito d’un torace immane che il macigno gravasse. Un rigagnolo di sangue fumido attraversava il passo: era tinto dallo scolo d’uno strato di rubrica, dopo la pioggia dirotta. Una ràffica repente schiacciava il vapore contro il suolo, lo ricacciava nelle pozze, lo addensava negli anfratti del monte. Tutto si confondeva nella nebbia crassa”
Anche in D’Annunzio quindi i luoghi in cui si ambienta la vicenda hanno un tratto marcatamente funzionale, sviluppandosi come scenario perfetto per le dinamiche sentimentali dell’opera; la disperazione dei personaggi e il loro progressivo incupirsi si associa alle tinte fosche del territorio, al loro aspetto livido, che tutto pare in bilico sul limite di un crepaccio, e tutto intorno l’aria pesante si fa luciferina.
Periferia dal finestrino
Carlo Cassola, sebbene nativo di Roma, fu spesso identificato come scrittore toscano, concentrato com’era per l’ambientazione delle sue vicende in un luogo della regione ben definito, circoscritto nel triangolo geografico che collega Volterra con Marina di Cecina e quindi Grosseto, configurandosi in tal modo come scrittore pienamente e chiaramente “locale”, sebbene spesso questo aggettivo lo abbia inseguito con accezione negativa. Nonostante questo suo aspetto di profondo radicamento su un territorio preciso e limitato, solo a un primo sguardo riduttivo, egli ha respirato attraverso i suoi scritti il Novecento intero, aprendosi ai temi e agli scenari generali della letteratura internazionale, in una consapevole e fiera dichiarazione d’amore per la provincia, per il suo ricco microcosmo, eletto a osservatorio privilegiato, a discapito della più abusata, ammaliatrice capitale. Pur avendo vissuto sia a Roma che a Firenze, lo scrittore preferirà ambientare la quasi totalità delle sue opere in luoghi che si potrebbero definire ai margini. Cassola cerca nella periferia, nei dintorni delle città, l’anima vera dei territori; chiaro esempio è offerto dall’opera Alla periferia, dove lo stesso tipo di meccanismo di antitesi contrappone la vita all’esistenza, per la quale vivere è stare ai margini della vita stessa, osservandola di lontano come dal panorama espresso da un belvedere. Nella raccolta, infatti, e più precisamente in Pensieri e ricordi su Monte Mario, Cassola scrive esplicitamente: “Amo la periferia più della città. Amo tutte le cose che stanno al margine”.
Cassola conosce perfettamente la sua Toscana, e va più in profondità della semplice descrizione del territorio, indagando la sua gente; egli ne tratteggia gli abitanti e le caratteristiche, le loro tradizioni e le abitudini, il loro vivere e i loro oggetti materiali, il lavoro. Il paesaggio di Cassola è profondamente e indissolubilmente legato a doppio filo con gli esseri umani che lo abitano, e nel quale operano e lavorano, in un’ottica similare agli interessi antropici della geografia. Le botteghe, i boscaioli, i contadini, i cacciatori, sono antieroi che scorrono sullo sfondo della storia e ne restano impigliati. Lo scrittore richiama quindi a sé un universo umano, sublimandolo in un ritratto fedele, etnografico, antropologico, profondo. L’uomo di Cassola vive i luoghi, li abita e li percorre attraverso il tempo, e con essi cambia, elevando il paesaggio stesso a componente imprescindibile della struttura narrativa. Gli elementi storici, sociali e ambientali del territorio e quelli intimi delle persone che lo abitano costituiscono il vero fulcro della sua attività letteraria; la realtà della vita è la regina di queste terre, e non può sottrarsi al tempo e alla sua azione modellante, sebbene ne stia ai margini, senza subirne apparentemente gli effetti. La quotidianità, la routine dei personaggi sfuma nel tempo, uguale a sé stessa, precisa come un metronomo, mentre la Storia con la s maiuscola rimane sullo sfondo, sfocata; l’unico tempo che conta è quello naturale, dei giorni, dei mesi, delle stagioni che si ripetono costantemente. I protagonisti dei lavori di Cassola vivono in simbiosi con i luoghi che abitano, tanto da identificare con essi la loro stessa condizione umana; i luoghi di Cassola non sono del tutto reali, assumono invece un aspetto ideale, cristallizzandosi come specchio dell’anima dei personaggi. Non a caso lo scrittore ebbe a sottolineare sulla rivista La fiera letteraria come anche uno dei suoi scrittori di riferimento, insieme a Tozzi e Joyce, ovvero Thomas Hardy, “aveva sempre messo in guardia i lettori contro la tendenza a rintracciare i luoghi ‘veri’. Il suo Wessex era più una regione ideale che una regione reale, e in ogni caso egli aveva attinto liberamente alla realtà, sovvertendo la topografia e componendo lo scenario delle sue storie più con impressioni e ricordi che avendo in mente dei luoghi precisi”.
I protagonisti di Cassola vivono, ma la vita gli scivola addosso, e non sembrano accorgersene; esemplificativa può risultare a tal proposito una riflessione dello scrittore francese Marcel Proust, il quale scrive in All’ombra delle fanciulle in fiore, nella Ricerca del tempo perduto, che “all’ombra delle fanciulle in fiore teoricamente si sa che la terra gira, ma di fatto non ce ne accorgiamo; il suolo su cui camminiamo sembra immobile e viviamo tranquilli. Lo stesso accade per il Tempo nella vita”.
Gli esseri umani di Cassola sono perpetui, restano figure archetipiche della società che egli indaga, monotoni, consueti, eppure nel loro vivere fuori dal tempo, essi sono uno scrigno di inesauribile magnificenza e scoperta, il comune diviene straordinario, ed è lo stesso Cassola ad ammetterlo nella sua Gita domenicale, quando scrive che “nulla è più stupefacente di un’esistenza comune, di un cuore semplice”.
Gli uomini di Cassola, anche quando vivono momenti storici importanti come quello della Resistenza – Cassola stesso fu impegnato in qualità di capo della squadra Esplosivisti della XXIII Brigata Guido Boscaglia, poi celebrata nel successivo saggio L’ultima frontiera, con il nome di Giacomo nel massiccio del Berignone, che lui identifica come Monte Voltrajo, oggi riserva naturale a sud di Volterra – vivono vicende che rimangono in primo piano rispetto alla cronologia ufficiale. Nel caso del Berignone Cassola opera nei diversi suoi lavori allo stesso modo di Luciano Bianciardi, distraendo il lettore dai nomi reali; si pensi alla ricorrente Kansas City, riconoscibile in Grosseto, ma ne conserva senz’altro l’importanza strategica, biografica e letteraria insieme, elevando il luogo a teatro interiore. Così in Fausto e Anna, un vero e proprio testamento biografico del periodo che lo scrittore toscano d’adozione visse in prima persona, raccoglie le vicende e gli intrighi della vita dei personaggi, con di sfondo la lotta partigiana al nazifascismo, il tutto ambientato, e dire ambientato è indubbiamente riduttivo, nei boschi del Berignone.
Cassola dunque rende la sua geografia interiore, e quella dei personaggi, un tutt’uno con la geografia reale, identificando ogni moto di spirito con la natura imperturbabile sullo sfondo, mentre la Storia scorre dietro le spalle allo stesso modo di un paesaggio dal finestrino. Proprio nel romanzo Ferrovia locale infatti, Cassola dipinge una Toscana immobile e immanente, ripresa dal lento scorrere del treno merci che da San Vincenzo porta a Orbetello, passando per Campiglia Marittima. Gli uomini e le donne sui quali si ferma lo sguardo di Dino il ferroviere posano inconsapevoli, si mostrano per ciò che sono, attori degli eventi, importanti tutti, sebbene nascosti o ai margini della Storia.
Non a caso Cassola intrecciò proprio insieme al collega del liceo Carducci-Ricasoli di Grosseto, Luciano Bianciardi, un importante saggio di inchiesta, I minatori della Maremma, nella cui appendice trovarono spazio le biografie dei numerosi lavoratori coinvolti nel progetto, distaccati e al contempo protagonisti della Storia, di una storia tra le tante, dimenticata, accantonata, periferica, eppure fondamentale. La sconfitta del minatore di Ribolla, ucciso dalla incuria e dalla imprecisione, non da tragica fatalità, ritrova così la dignità che gli spetta, il suo cantone si fa fiero monumento alla memoria delle persone e del loro territorio ferito. I luoghi coincidono con le persone, alla miniera fa eco il suo minatore, nel fragore dell’esplosione. La modesta provincia di Ribolla e i suoi modesti lavoratori si insinuano nell’opera di Cassola, tanto quanto di Bianciardi, che in La vita agra renderà nuovamente omaggio agli scomparsi, “ai quarantatre morti”, ai “tanti fagotti dentro una coperta militare”, addizionando alla tragedia la fantasia impossibile di una rivincita violenta, perché in fondo si nasce incendiari e si muore pompieri, mentre denunciare costa fatica, ché “nel maggio, tu mi capisci, è invecchiata come notizia”, o peggio ancora “perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo”. Le persone hanno il diritto di contare, di poter essere utili, anche se mediocri o emarginate. Ancora in La vita agra, il Bianciardi arriva a riconoscere la sua stessa condizione di escluso, scrivendo: “Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che se finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando? È vero, e di mio ci aggiungo che questa è a dir parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla”.
Cassola, come Bianciardi, rivendica pertanto il diritto delle persone a permanere al di fuori dell’oblio, per ritagliarsi così lo spazio che gli spetta nel mondo; se non c’è nessun inferno nei suoi testi, non significa che Cassola non lo abbia identificato con la mancanza di memoria, e pertanto opera una vera e propria missione di salvataggio nei confronti delle piccole cose, di ciò che in apparenza non conta, sottraendo al volto in ombra della vita i margini della stessa e ponendoli al centro del foglio, secondo un ambizioso progetto di recupero di uomini, avvenimenti e sentimenti, per una delicata e preziosa geografia umana.
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