Uomo nudo in nuda terra: senza scienza di fronte alla natura
Quando la Val di Cecina si apre facendo spazio a Larderello, i pennacchi di fumo che si levano dai comignoli grigi delle centrali trasmettono una sottile tensione da attesa. Dei soffioni boraciferi, imprigionati dalle museruole di acciaio e cemento oggi appartenenti all’Enel, non si vedono che ansimi deboli, forse perché trattenuti.
Di fronte a Larderello, o alle sue spalle, si staglia Montecerboli, l’anziano antagonista al quale il borgo artificiale sembra aver rubato la scena. Intorno ai due paesi, a parte le centrali ci sono solo monti boscosi, ma di un verde cupo e poco sereno. Della Toscana angelicata, tratteggiata di vigne, punteggiata di cipressi, qui non c’è quasi traccia. Forse è per via di Dante, ma sembra che a queste terre si acceda solo scendendo.
Dicono le enciclopedie che i soffioni boraciferi “si sviluppano durante la fase di stasi tra un’eruzione e la successiva oppure durante le ultime fasi di vita del vulcano”. La geologia — un sapere fatto di pressione e tempo — racconta che circa otto milioni di anni fa una rabbiosa incursione della roccia fusa nella crosta terrestre si è arenata sotto a uno strato di argille impermeabili; queste, impedendo al fluido incandescente di entrare a contatto con l’acqua, ne hanno rallentato il raffreddamento. A quell’intensa fase eruttiva stanno seguendo milioni di anni di acquietamento, interrotti da violente esplosioni e tremori continui.
In certi punti, nonostante le argille, le acque sono comunque riuscite a scavare i loro percorsi insondabili, o a risalire da pozzi ancestrali eccitandosi al contatto con le rocce ancora parzialmente fuse. Il calore, agitando gli atomi, spezza i legami che fondono idrogeno e ossigeno, ricombinandoli con altri elementi come lo zolfo, il boro, il sodio, l’ammonio, e soffiando via il tutto in forma gassosa.
Per la scienza, i soffioni boraciferi della Val di Cecina sono i fremiti finali di una lentissima agonia magmatica, e forse in quest’idea c’è qualcosa di rassicurante: li fa sembrare i fumi timidi emanati da braci di pietra quasi esauste; l’ultimo, flebile tepore della terra prima che la notte si spenga sulla roccia inerte.

I primi esseri umani che arrivarono su questi monti erano attratti forse dall’odore sulfureo che all’epoca non era trattenuto dai sistemi di filtraggio degli impianti, e che col favore del vento doveva diffondersi per chilometri. Forse la più curiosa fra le bestie vedeva nei soffioni le froge ansimanti di una creatura in collera? O li percepiva come i sospiri caldi di un essere benevolo, grande come il mondo?
Chiunque fossero, certamente quegli umani avevano con sé solo qualche arnese semplice, niente che occupasse più di una sacca o che non potesse essere legato in vita: pietre molto taglienti e resistenti, o punte particolarmente acuminate. Ma in quei minuscoli embrioni di tecnologia era già contenuto il seme che sarebbe germogliato, secoli e secoli dopo, nella chimera geomeccanica a cui oggi somiglia questo paesaggio.
Nel Neolitico gli umani completarono l’addomesticamento di piante e animali, per certi versi forgiando il loro stesso giogo. Ci misero tre millenni, fra 8000 e 5000 anni fa, a incatenarsi a una terra asservita, ma che ora andava protetta e difesa lavorando sempre e solo per il domani. Perché questo pretende l’agricoltura, in cambio di cibo povero ma abbondante. Gli anfratti ricavati nelle lacerazioni superficiali dei calcari, sulle Colline Metallifere e poi giù fino a Massa Marittima, offrivano grotte da abitare stabilmente, prima che il bisogno di terre si facesse feroce e portasse gli umani più a valle. Se furono i vapori ad attrarli in queste valli, e le caverne a suggerire loro di restare, l’agricoltura li portò via. Nei secoli l’uomo esplorò progressivamente l’ambiente circostante, con i suoi pericoli e i suoi tesori, come le insolite concentrazioni di rocce diverse da quelle che si trovavano altrove. È probabile che in origine, i primi gruppi di metallurghi fossero piccole comunità di pastori, poiché il continuo movimento richiesto dalla conduzione dei greggi ben si conciliava con le esplorazioni che potevano portare alla scoperta dei giacimenti. Manipolando ogni giorno i solfuri di rame, piombo, argento e ferro rigurgitati dalla terra, quei popoli senza nome scoprirono che grazie al fuoco potevano realizzare manufatti via via più efficienti e conformi ai loro scopi, che nel frattempo si facevano più complessi, più macchinosi. Le nuove scoperte, come i metalli, si sommavano a quelle antiche o antichissime, come il fuoco, tracciando un percorso che, visto a posteriori, appare ripido e tutto in discesa.

L’Età del rame è stata quella che ha lasciato più tracce. Resti umani insieme a punte di freccia, bracciali, collane, stele incise e ciottoli scolpiti in forme umane e animali. E dove arrivano gli uomini, arrivano anche gli dèi. Prima della geografia di Dante, qui sicuramente ne è esistita una pagana — o dieci o mille — fatta di dèi potenti e capricciosi. In un passato animista, mai scritto, gli spiriti abitavano in questi alberi, fiumi e montagne. E nei vapori.
Con il metallo la storia accelera e dopo l’Era del rame, fra i soffioni roventi e le tiepide acque termali compaiono gli Etruschi. Le prime tracce di villaggi e di costruzioni in pietra, fatte per durare ed essere trasmesse ai posteri, risalgono a loro.
Vicino a Sasso Pisano, nel comune di Castelnuovo Val di Cecina, alcuni storici dicono che i Tusci del Lazio abbiano cercato rifugio tra le forre del Cornia — l’antico fiume Lynceus — in fuga dall’espansione romana. In mezzo ai fumi mefitici di quel piccolo averno trovarono un luogo riparato dove proteggere i loro dèi, presto destinati a soccombere di fronte ad altri più giovani e potenti. Nel periodo di contatti e conflitti fra Roma e l’Etruria, prima gli Etruschi e poi i Latini fondarono e utilizzarono il sito termale di Acquae Populoniae. Quelli che erano stati santuari diventarono sotto i Romani strutture di servizio per una società che nelle terme, cercando gli dèi, aveva trovato il piacere. E così, l’aura sacrale di quelle acque, poco potabili e tuttavia benefiche, fu dismessa definitivamente.
Più avanti, il diffondersi del cristianesimo, che vide nelle terme luoghi di mera ed esecrabile libidine, e la lenta agonia dell’Impero romano, i cui centri di potere si spostarono sempre più a nord, fecero sì che ovunque i siti termali venissero abbandonati. Ci vollero il tardo Medioevo e poi il Rinascimento, con le sue nuove idee di benessere e cura del corpo, perché le terme rinascessero dappertutto, tornando a essere meta dei viaggi di aristocratici, prelati e intellettuali, le uniche classi sociali che disponevano del tempo e dei mezzi necessari a prendersi cura di sé.

Le acque mineralizzate della Val di Cecina sono caratterizzate dalla presenza di diverse sostanze tra cui il boro, che prima ancora di essere individuato come elemento veniva estratto nella sua forma salina chiamata borace. Nell’industria il borace era sfruttato per la sua capacità fondente, perché il boro agisce sugli ossidi metallici rendendo più compatti, lisci e resistenti i prodotti per fusione come i vetri, i metalli e i loro rivestimenti.
Benché gli usi del borace fossero empiricamente noti da millenni, nessuno sapeva da cosa fosse composto e tra XV e XVIII secolo furono in molti a cimentarsi nel compito di scoprirlo. A complicarne lo studio era anche il fatto che i cristalli di borace arrivavano dall’Oriente in Europa, principalmente ad Amsterdam e Venezia, protetti da materiali che ne alteravano la composizione. Perciò la natura di quel sale misterioso fu a lungo oggetto di speculazioni ed esperimenti più o meno credibili. Come scrive Benjamin Labatut: “Ferro, argento, rame, stagno, piombo, fosforo, arsenico: all’inizio del XVIII secolo l’essere umano conosceva solo una manciata di elementi puri. La chimica non si era ancora separata dall’alchimia, e la varietà di nomi che si davano a sostanze come il bismuto, il vetriolo, il cinabro e l’amalgama era terreno fertile per ogni sorta di reazioni improvvise propizie”.
I sali minerali e gli acidi che bullicano e spruzzano in solfatare, fumarole, mofete, geyser e soffioni, a temperature che in una scala umana vanno dal confortevole al letale, sembrano avere un rapporto misteriosamente ambiguo con i viventi. In alcune combinazioni e quantità sono buoni come disinfettanti, sono cioè medicamenti assassini. Ma persino sui suoli inorganici delle Biancane, simili forse a una terra prima della vita, gli insetti e i vegetali non arretrano più di tanto; alcuni addirittura prosperano, sebbene a una certa distanza dalle fonti di calore più dirette e prorompenti. Certi toponimi, poi, sembrano addirittura riflettere con ironia involontaria questa strana relazione tra vita e veleni, come è il caso di Bagno al Morbo. È un impianto termale di epoca medicea che nei secoli ha subito traumi da abbandono e cambi di destinazione, l’ultimo dei quali è stata una valorizzazione storica commemorata da una lapide, ma finita in miseria.
Nei primi decenni del XIX secolo, l’acido borico attrasse commercio e capitali in questa zona, storica appendice di poteri esterni — Populonia, Volterra, Pisa, il Granducato di Toscana — per lungo tempo rimasta immobile nelle mappe e anche oggi provincia di tre provincie. Ma il boro prima e il vapore poi ne avrebbero modificato per sempre geografia e toponomastica.

La storia dei grandi uomini: François Jacques de Larderel e Piero Ginori Conti
Lo storico del XIX secolo Robert Carlyle ha scritto che “la storia del mondo non è altro che la biografia dei grandi uomini”, cristallizzando nella storiografia moderna l’idea che siano singoli individui, in virtù di mezzi e facoltà superiori, a muovere il corso degli eventi.
Quando Carlyle scrisse queste righe doveva sembrargli vero, perché mai come nel suo XIX secolo la storia si era fatta tanto visibile: era infatti cominciata la corsa alla definitiva sostituzione delle forze biologiche, umane e animali con quelle artificiali. La fame infinita della nuova industria pretendeva quantità di energia prima impensabili. Ma l’industria non ha mai prodotto da sola, perché industria è il nome di un sistema fatto dagli uomini: erano gli industriali a vedere le opportunità offerte dalle macchine e dalla terra per produrre qualcosa a un prezzo e rivenderlo a un tanto di più. Erano loro a valutare quali risorse sfruttare e dove si trovavano.
Il boro fu isolato per la prima volta nel 1702 dallo scienziato olandese Wilhelm Homberg, che ne celebrò l’ingresso sui mercati con il nome di “sale sedativo di Homberg”. Nel 1777 Uberto Francesco Hoefer, direttore delle Spezierie granducali, accertò la presenza dell’acido borico in alcuni campioni di acque provenienti da Monterotondo Marittimo, che combinò con sali a base di sodio ottenendo il borace. Due anni dopo il fisiologo Paolo Mascagni confermò la presenza dell’acido borico anche nei lagoni di Montecerboli, Castelnuovo Val di Cecina e Travale, presentando in una relazione ufficiale al Granducato le nuove prospettive di sfruttamento della zona. Il borace era all’epoca relativamente poco noto e utilizzato soltanto in medicina come sale sedativo, e in Europa si trovava solo nell’area dei Lagoni. Ed è qui che entra in scena il primo grande uomo, François Jacques de Larderel.
Larderel era un ambizioso chincagliere francese proveniente dal Delfinato, nel sud-est della Francia, e stabilitosi a Livorno, città che fin dal XVII secolo si era affermata come un importante snodo mercantile dove gente da tutta Europa si concentrava in cerca di opportunità. Nel primo Ottocento, per ciò che è dato sapere, Larderel visse a Livorno di mezzi propri, all’affannosa ricerca di un’impresa che gli portasse fortuna. Così ebbe l’intuizione di rivolgersi, piuttosto che al brulicante commercio del porto, al poco conosciuto e altrettanto poco apprezzato entroterra vulcanico della Toscana centrale. Larderel strinse rapporti con alcuni cittadini francesi insieme ai quali, nel 1818, ottenne le concessioni per lo sfruttamento dei lagoni boraciferi di Montecerboli, nel frattempo istituite dal Granducato sulla scia delle scoperte di Hoefer e Mascagni.

Gli scienziati dell’epoca si dedicavano alacremente a sbrogliare la complicata matassa del mondo cercando i legami che lo tengono insieme, ma a mettere loro fretta erano gli imprenditori, la nuova classe borghese bramosa di materie prime che non fossero sottoposte alle austere leggi della fisica naturale. La ruggente industria chimica prometteva materiali degni delle “magnifiche sorti e progressive” verso cui la storia sembrava lanciata, e la società che stava nascendo era affamata di beni indistruttibili, di superfici lisce e lucenti come niente era mai stato né in cielo né in terra, se non di rado e per accidente. Il carico di rottura estremo del boro, riconosciuto nel 1824 come uno degli elementi basilari della materia, tornava utile per rinforzare qualsiasi cosa, per isolarla, disinfettarla, impermeabilizzarla, renderla inattaccabile.
L’industria chimica aveva benedetto le fortune del boro, ma la chimica è figlia della fisica, e per trasformare la materia servono acqua — idrogeno e ossigeno — e minerali, ma più che altro serve calore. Il borace era composto dalle cristallizzazioni del boro, che si ricavavano spostando masse d’acqua contenente il minerale attraverso una sequenza di bolliture, evaporazioni e travasi che progressivamente lo isolavano in concentrazioni dalla purezza soddisfacente e facili da raccogliere. Ma la produzione doveva crescere e perciò bisognava ridurre i costi allargandone la scala: serviva più calore, e dunque più fuoco per le caldaie e gli essiccatoi, solo che il legname proveniente dai boschi della Val di Cecina non bastava mai. Del resto, non poteva bastare, perché lo scopo del futuro conte de Larderel era, nelle sue parole, “produrre allo infinito come la moderna Inghilterra costuma”. Il grande uomo seppe vedere la soluzione nell’altro elemento che insieme al boro abbondava nella Val di Cecina, ossia quel vapore spontaneamente generato in abbondanza dalla terra. La fame di energia era così tanta che si doveva andare a cercarlo, il vapore, penetrando il sottosuolo per raccoglierne di più, con maggiore costanza, a temperature sempre maggiori.
A partire dal 1828, in capo a sei anni la produzione di acido borico in forma di borace aumentò di oltre sette volte, trainata dal vapore, cosicché Larderel riuscì a rilevare le quote degli altri soci restando unico proprietario dell’azienda. Gli eruditi dell’epoca salutarono la sua impresa come il trionfo della razionalità su un “luogo di orrore dove la natura era lacera e squassata, si sollevava per bollore l’acqua nerastra e si alzava fumo biancastro e fetente”.
Nel frattempo, siccome alle macchine servivano anche corpi, gli operai erano arrivati ad abitare le case che Larderel fece costruire per loro con postura da feudatario paternalista: i “suoi” operai mandavano i figli nei “suoi” asili e nelle “sue” scuole, andavano a svagarsi nel teatro che aveva voluto e fatto costruire, come un Fitzcarraldo d’Europa. Così nacque Larderello, una company town, come le chiamavano in Inghilterra.
Nel 1837, con la nomina a conte di Montecerboli, Larderel riuscì infine a ottenere il tanto agognato titolo nobiliare, nel cui stemma, un vulcano accesso che soffia una nuvola di vapore, volle sottolineare l’origine del suo lignaggio e della sua ricchezza. Voleva che fosse riconosciuto il suo status di nobile della nuova era dell’industria e del capitale, le forze che si stavano preparando a forgiare il secolo successivo, quello dell’acciaio.
Gli eredi dell’ormai nobile schiatta dei Larderel non ebbero però grande fortuna: i figli Edoardo e Adriano morirono prematuramente alla metà dell’Ottocento, lasciando a Federigo, secondo le cronache il meno adatto, il compito di condurre l’impresa di famiglia. Intanto, altre società per lo sfruttamento dei giacimenti di boro si erano costituite, ottenendo i diritti su terreni di Castelnuovo e Sasso Pisano, mentre la situazione finanziaria dell’azienda si era fatta pericolante. Per questo, della conduzione di Federigo non è rimasta grande memoria, se non per aver visto l’avvio, almeno nelle intenzioni, dello sfruttamento dei soffioni come forza motrice.

L’epoca dei lumi stava ancora galoppando verso il vapore, trainata da una scienza in pieno fermento, che realizzava e sfruttava tecnologie progressivamente più efficienti. Grazie al miglioramento e alla diffusione dei microscopi, gli scienziati avrebbero presto scoperto che le infezioni sono causate da microrganismi: sebbene ancora non vedessero la precisa trappola di causa ed effetto, alcuni forse già intuivano che l’acido borico poteva impedire a qualcosa di vivere. Le ricerche proseguivano, e dell’acido borico si conoscevano sempre meglio le proprietà benefiche, che vennero sfruttate in medicina, in veterinaria e nella conservazione degli alimenti. Il Compendio di farmacologia veterinaria dei professori torinesi Francesco Chiappero e Roberto Bassi, del 1876, informa che “l’acido borico è da tenersi in conto di efficacissimo antiputrido e disinfettante”. Due anni dopo, l’inglese Henry Roberts, farmacista a Firenze, lo combinò con il talco, inventando un igienizzante in polvere che battezzò “borotalco”.
Il boro fu dunque il seme da cui germogliò l’industria di Larderel, conte di Montecerboli: un’industria ibrida perché meccanica, ma dedita alla “coltivazione” di un minerale, analoga alle imprese di coltura e trasformazione di alimenti come lo zucchero o il sale. L’idea che la fase industriale attraversata da questo comprensorio sia stata in qualche modo legata costantemente alla terra — tramite uno strano raccordo di metallo — si ritrova anche nella definizione che più tardi verrà data ai primi impianti geotermici del mondo: i “campi di vapore” di Piero Ginori Conti.
Tra XIX e XX secolo le locomotive a vapore correvano gli oceani e la terra animate dalle motrici alternative, meccanismi che senza alcuna magia, ma solo grazie alla “forza vindice della ragione”, trasformavano il calore in forza motrice. Lunghi sfregi d’acciaio erano aperti da treni a vapore, che in una tempesta di scintille univano città e paesi prima lontani e isolati. Il loro attrito scavava solchi che non si sarebbero più rimarginati.
Piero Ginori Conti si diplomò nel 1888 alla Scuola di Scienze Sociali di Firenze, un istituto di tipo nuovo, ideato per formare coloro che avrebbero compreso e forgiato le meccaniche del nuovo modello di società, basato su uno Stato che non coincideva più con il re. Proprio come l’altro Grande Uomo, Piero Ginori Conti trovò la sua strada nel matrimonio, sposando nel 1894 Adriana de Larderel, figlia di Florestano e nipote di Federigo. Gli anni di Florestano alla conduzione dell’impresa erano stati difficili anche perché i mercati erano diventati un gioco internazionale, con la concorrenza che arrivava da altri continenti, da giacimenti molto più grandi, ricchi e accessibili, come quello scoperto in California, nella Valle della Morte.
Ginori Conti entrò in azienda senza una formazione scientifica, ma mostrò di essere uomo del futuro — un manager — affidandosi alla scienza di Raffaello Nasini, il chimico che sarebbe divenuto, oltreché professore all’Università di Pisa, consulente scientifico dell’azienda. Nel solco dell’opera di mappatura e conoscenza dell’entroterra vulcanico della Toscana, avviata in modo scientifico un secolo prima da Giovanni Targioni Tozzetti, Nasini studiò queste terre e riuscì a dare nuova vita alla produzione di boro, migliorando i processi di raffinazione delle acque che ora regalavano un acido puro come mai era stato. A portare tutto questo era la scienza, un sapere fatto di proposizioni che mimavano il mondo in modo sempre più preciso. Ancora non si sapeva che “il boro è un semimetallo trivalente avente per simbolo B e numero atomico 5, ed è l’elemento naturale con il più elevato carico di rottura”, ma ormai la scienza era acquisita e il boro, oltre che per la saldatura, era utilizzato nell’ottica per produrre le stesse lenti grazie alle quali si potevano fare nuove scoperte, in un ciclo che si autoalimentava. Prima dei metalli e dei vetri industriali, del cemento e del mattone, i materiali da costruzione erano ricavati dalla natura. Una scienza empirica benché sapiente, come quella di Larderel, poteva renderli adatti a quasi ogni scopo, ma l’imperfezione, l’impurità, la deviazione seppur minima rispetto al disegno umano erano la regola. Grazie alla chimica, invece, potevano avverarsi i miraggi matematici del parallelismo e della simmetria, binari che garantivano l’avanzare del progresso e della razionalità.
Il calo dei profitti del boro era però inevitabile, e anche per questo già dal 1897 Ginori Conti insistette nell’idea di ricavare energia dal vapore. Per riuscire a domare i soffioni serviva una conoscenza profonda dei valori di forza, portata e composizione, così da scegliere i materiali più adatti per imprigionarli e sfruttarli, in principio, usando la stessa tecnologia dei treni a vapore. Nasini diede nuovamente il suo contributo, e così nel luglio del 1904, passando per una dinamo, il vapore di Larderello accese, per la prima volta nella storia, le cinque lampadine famose. Già l’anno successivo, l’impianto era in grado di fornire elettricità all’intero stabilimento, per espandersi, nel 1913, nelle zone confinati attraverso una rete in treccia di alluminio lunga quaranta chilometri e poi, di lì a pochi anni, fornire elettricità a Larderello, Volterra, Saline e Pomarance.
Ginori Conti stipulò accordi di esclusiva proteggendo, per qualche anno ancora, il mercato del suo acido borico; nel frattempo, la vecchia F. de Larderel & C. si era fusa con altre due aziende minori ed era divenuta, nel 1910, la Società Boracifera di Larderello, una società per azioni. Nonostante la natura “anonima” della nuova struttura, la famiglia mantenne oltre il 60 per cento delle azioni, restando saldamente al timone di un’impresa che, grazie alla geotermia, era diventata di interesse statale attirando addirittura, fra gli azionisti, colossi dell’industria pesante toscana come l’Ilva.
All’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, Ginori Conti si arruolò volontario come capitano d’armata, ma non si hanno notizie di imprese belliche che lo videro protagonista. Le sue idee favorevoli alla guerra, come quelle di gran parte degli imprenditori, dopo il conflitto dovettero affrontarne le dure conseguenze: la società era scossa da tensioni mai viste, anche in questi piccoli centri di provincia, dove nobili e padroni faticavano a mantenere il loro controllo secolare. Ginori Conti aveva esordito in politica nel 1900 nel consiglio provinciale, era stato eletto senatore per il Partito liberale, e dopo gli scioperi del 1919, con l’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920, quando ormai era amministratore dell’azienda, scelse di essere protagonista di quel nascente movimento mortifero che avrebbe preteso di dominare il secolo dell’acciaio e dell’elettricità. Fondò così il “Fascio X”, reclutando le sue squadracce tra i quadri e i sorveglianti della Boracifera.

La “grande paura” del Biennio rosso, il crollo della certezza di un potere, se non assoluto, almeno garantito, aveva traumatizzato gli imprenditori liberali, già incarogniti dalla vittoria mutilata. Il controllo sulle “loro” aziende, sulle “loro” terre, sulle “loro” proprietà — anzi, sul principio stesso della proprietà — era messo in discussione dall’arroganza operaia, sobillata dall’immane trionfo della Rivoluzione d’ottobre in Russia. Così Ginori Conti sostenne e seguì l’ascesa del fascismo, che a sua volta ebbe la fortuna di godere dei progressi che la scienza e l’impresa, ormai complici sempre più affiatate, stavano realizzando.
L’idea che il vapore, e dunque l’energia, e dunque il potere, potessero sprigionare direttamente dal suolo patrio non poteva che piacere al fascismo, subito pronto a ingabbiare la fortunosa accidentalità della scoperta dei nuovi soffioni — come il “soffionissimo” del 1931 — nella sua retorica della forza, sinistra celebrazione di un potere tanto strabiliante e superlativo da ridurre il pubblico — i cittadini — al silenzio. “Un nuovo potente soffione ha sploso a Serrazzano. Ormai libero dalle impalcature metalliche del castello di perforazione, di cui ora non si scorgono che dei rottami, il getto si innalza liberamente nello spazio a velocità fantastica, per un’altezza di qualche centinaio di metri. La sua voce potente è udita distintamente nel raggio di oltre trenta chilometri di distanza. Nei suoi pressi, per un raggio di un chilometro, ogni comunicazione verbale è resa impossibile per l’enorme e assordante fragore”.
La geotermia faticava a sostenere i ritmi dei consumi privati, domestici o commerciali, con i loro picchi quotidiani di giorno e i bruschi abbattimenti notturni. Le ferrovie erano invece l’ideale poiché si basavano su piani di consumo ordinati e regolari. Scienza, capitalismo, smania di potere e di controllo si sostenevano l’una con l’altra attraverso reti che nascevano a livello capillare e crescevano senza sosta.
Ginori Conti sostenne il fascismo, e ne fu ricompensato per tutti gli anni Trenta, durante i quali le Ferrovie dello Stato assorbirono la produzione di energia elettrica della Boracifera a prezzi ottimi. Ginori Conti, Principe nero di Serrazzano, poté così passare gli anni del consenso, i suoi ultimi anni, in relativa tranquillità, fin quando nel 1937 si cominciò a parlare dell’esproprio dell’azienda a favore di una nuova compagine controllata dalle Ferrovie dello Stato. La lauta ricompensa fu oggetto di negoziati per un biennio, finché nel 1939 giunse il “nobile telegramma” del Duce in persona.
“La mia fede fascista et mussoliniana che mai vacilla dal 1919 non poteva che assecondare i supremi interessi dello stato fascista […] eseguendo senza discussione vostre direttive appena conosciute […] Confido che mia originale invenzione da me realizzata nell’attuale e notevole efficienza mediante 40 anni di duro lavoro porterà […] valido contributo nella battaglia della autarchia da voi voluta et diretta con sicura preveggenza”. Questa fu la risposta di Piero Ginori Conti, fascista della prima ora e fascista fino alla morte, che lo colse nel dicembre di quello stesso anno, il 1939, all’alba di una nuova guerra che avrebbe sfigurato l’Europa e il mondo intero.
Tradimento e cicatrici: il futuro visto dal passato
I tozzi comignoli delle torri di raffreddamento della Val di Cecina, targate Enel dal 1963, oggi Enel Green Power, simboleggiano un’industria che copre, insieme agli impianti più recenti realizzati sull’Amiata, il 70 per cento dell’elettricità prodotta dalle energie rinnovabili in Toscana, equivalente al 30 per cento del fabbisogno regionale. Su scala mondiale, nel 2020 l’Italia occupa l’ottavo posto nella classifica dei paesi produttori di energia da fonti geotermiche. Larderello, invece, potrà vantare l’eterno primato di culla del primo impianto geotermico al mondo.
I dibattiti scientifici si sono enormemente complicati rispetto all’epoca di Larderel, Nasini e Ginori Conti: la migliore mappatura dei suoli consente oggi di individuarne le caratteristiche e di classificarli in funzione del tipo di sfruttamento più adatto. Ogni area è diversa dall’altra, e dunque anche gli impianti devono adattarsi: ci sono zone ricche di fluidi, che possono essere sfruttati direttamente o gassificati, e altre più secche, dove può convenire iniettare liquidi da far risalire. C’è poi il fatto che la stessa attività umana contribuisce a mutare le condizioni di base, com’è accaduto in Val di Cecina con i lagoni, dei quali non rimane altro che il nome.

Fin dall’inizio della loro storia, gli impianti geotermici hanno suscitato grandi entusiasmi nel comparto industriale e, soprattutto negli ultimi decenni, forti dubbi e movimenti di opposizione da parte di comunità e comitati locali. In linea con le preoccupazioni globali, l’attenzione si è concentrata sull’impatto ambientale, dove due sembrano essere i maggiori profili di rischio: l’emissione di gas serra come l’anidride carbonica, e gli effetti geologici della reimmissione nei serbatoi naturali di fluidi (la “stimolazione idraulica” e il fracking), che possono comportare sconvolgimenti tettonici tali da provocare terremoti. Per i sistemi a iniezione di liquidi, utilizzati grandemente dall’industria petrolifera soprattutto negli Stati Uniti, le evidenze scientifiche hanno già confermato i rischi sismici, oltre a quelli di avvelenamento di falde acquifere e terreni. Le nuove parole chiave sono “bassa, media o alta entalpia” e “pompe di calore geotermiche”, legate a tecnologie che però, quando anche siano in grado di sfruttare il calore senza bisogno di trivellazioni e senza dispersione di gas e liquidi, sembrano difficilmente applicabili all’area di Larderello e dell’Amiata.
Il profilo di rischio dovuto all’emissione di gas climalteranti invece sembra smentito, o molto ridimensionato, da nuovi studi secondo i quali la presenza degli impianti geotermici, come quelli della Val di Cecina e amiatini, non produrrebbe quantità di gas serra maggiori rispetto a quelle naturalmente provenienti dal sottosuolo. Invece, per quanto riguarda le emissioni nocive, la recente introduzione di filtri che prevengono la dispersione di mercurio e di idrogeno solforato — i filtri Amis — le avrebbe ridotte di circa il 99 per cento.
Ad alimentare gli scetticismi sulla geotermia ha poi contribuito il fallimento clamoroso della centrale Enel di Latera, in provincia di Viterbo: un progetto pilota trascinatosi per un trentennio diede alla luce un impianto geotermico, nel 1999, che fin da subito manifestò problemi di dispersione di gas nell’area circostante; poi, il 22 luglio 1999, una nube tossica proveniente dagli impianti investì la vicina Montefiascone: diverse persone finirono in ospedale, mentre acido solfidrico, mercurio, boro e arsenico si depositarono su un’area eminentemente agricola; la peggior beffa fu forse che il calore ricavato dal terreno avrebbe dovuto riscaldare serre con piante tropicali e vasche per l’allevamento di pesci da acquario, imprese nelle quali alcuni residenti avevano già investito, perdendo tutto. La centrale fu chiusa nel 2000, e oggi si trova ancora al suo posto, rudere di archeologia energetica.

La geotermia, figlia del lentissimo spegnimento di vulcani e caldere, non è una forza placida e facilmente domabile come a volte i manager — non più i padroni — vorrebbero farla passare e venderla. Oltre alla sostenibilità ambientale si pone il problema di quella economica. La questione sostanziale è che l’energia prodotta dagli impianti geotermici oggi non potrebbe vivere sul mercato senza incentivi: in altre parole, alle aziende come Enel lo Stato corrisponde una certa cifra per megawatt prodotto, così da compensare i maggiori costi di produzione rispetto ai metodi tradizionali basati sugli idrocarburi (è ciò che tutti i cittadini pagano come “oneri di sistema” nelle bollette). In breve, quello dell’energia geotermica è un mercato al momento drogato, il cui doping si basa sulla promessa che, dopo anni e anni di ricerca e sviluppo, la geotermia saprà un giorno cavarsela con le proprie forze.
Quanto alla salute, in anni recenti i dati sulla mortalità nell’area volterrana sembravano indicare, secondo alcuni, un’incidenza di parecchie malattie lievemente più alta rispetto al resto della Toscana, ma non pare esserci correlazione tra la presenza degli impianti geotermici e specifici rischi per la salute. O meglio, i rischi accertati non provengono dai gas, bensì dai veleni che gli uomini hanno prodotto e sparso a profusione lungo il reticolo di tubature: per anni il principale isolante utilizzato dai tecnici è stata la “fibretta di amianto” — una polvere simile al borotalco — e dopo la definitiva messa al bando dell’asbesto, nel 1992, in quindici anni duecento lavoratori si sono ammalati di patologie correlate a questo veleno artificiale. Le letali microfibre dell’amianto non si sono limitate agli operai, ma hanno colpito, quasi fossero un virus, le loro mogli, così come chi condivideva con loro lo spazio chiuso di un autobus.
Il problema maggiore, o almeno il più evidente, però, sembra un altro. Ad oggi, la popolazione di queste zone gode di alcune agevolazioni fiscali sulle bollette, i comuni riscuotono per ospitare le industrie, ma se anche tutto questo facilita la sopravvivenza immediata, quella che manca è la visione di una prospettiva, di un futuro. La geotermia, come una monocoltura, è l’unica risorsa attorno alla quale tutto ruota, mentre il resto è poco o niente. E se si considerano i problemi di sostenibilità economica dell’impresa geotermica, l’investimento rischia di essere una scommessa pericolosa.

Questi luoghi sembrano rimasti fermi alla promessa di un futuro che, se poi è arrivato, è subito ripartito, lasciando al suolo i segni di un tradimento. La terra in Val di Cecina sanguina le sue linfe ed espelle i suoi miasmi da sempre, ma il XIX secolo aveva promesso che quelle linfe e quei miasmi sarebbero stati addomesticati con la forza superiore della scienza e del capitale. Poi, la geoindustria e il più recente teleriscaldamento hanno portato il mito della liberazione dalla fatica — energia gratuita, che la terra emana motu proprio. Dovrebbe essere il bengodi ma qui, oggi, i paesi sono spopolati. I pochi lavoratori non sono ormai molto più che sentinelle delle macchine: è un bene, perché gli impianti non richiedono più il tributo di carne che pretendevano nell’Ottocento, e dopo; ma allo stesso tempo è un male, perché l’abbandono di questi luoghi è figlio anche, o soprattutto, di questo cambiamento.
A prescindere che si voglia vedere la geotermia come una forza salvifica — portatrice di una salvezza riposta perennemente nel futuro, mai nel presente — oppure come un potere malefico e distruttivo, gli impianti sono grandi cicatrici sul territorio. Esiste una semiotica nella medicina, che consiste nell’interpretazione dei sintomi come segni di qualcosa, benigno o maligno, che si muove e cambia nel profondo del corpo, ed esiste una semiotica del paesaggio, che individua le tracce delle forze, benigne o maligne, che si manifestano nella storia.
La geotermia, come ogni prodotto della scienza umana, è soprattutto una promessa: di liberazione dalla povertà, per i lavoratori che ora hanno un salario e delle abitazioni; di liberazione dal consumo, per i residenti dei piccoli borghi delle Colline Metallifere; di profitto, per le aziende che rivendono in griglia il surplus energetico prodotto. Ma nonostante tutte queste promesse, la sensazione prevalente è la malinconia per la grandezza futile dei sogni dei grandi uomini; per la solitudine dei pochi lavoratori rimasti, supervisori di impianti che producono da soli; per gli abitanti che, avulsi dal chiasso delle città toscane mete del turismo becero e consumista, si trovano a inseguirlo come un miraggio; per le vite spese e perse a forgiare materialmente tutto questo, intossicandosi giorno dopo giorno con i veleni primordiali emanati dalla terra o con quelli futuribili fabbricati dall’uomo; malinconia per l’irreversibilità di tutte le trasformazioni.
La storia recente di queste terre, più che nelle cronache, è scritta nel paesaggio, e forse la loro speranza migliore riposa in chi voglia allontanarsi dalla propria èra — viaggiatore, camminatore o semplice solitario — per interrogarsi sulla brutalità senza tempo della storia: contemplare i boschi feriti e cauterizzati con asfalto, acciaio e cemento; i piccoli borghi di pietra polverosi e spopolati; e, sopra a tutto, i comignoli svettanti delle centrali, monumenti alla memoria che il destino nostro e quello della terra che calpestiamo sono tutt’uno.

