Era il tempo delle cuffie al muro, delle riviste patinate troppo costose, dei pantaloni cadenti e dei paleocellulari pieghevoli («1997. Size is everything»). Dei vinili appesi con un filo al soffitto e delle t-shirt larghe come stadi, per niente aderenti, di un brutto materiale stopposo. Al Tower Records di Piccadilly stavano esposte da qualche parte sotto la smisurata scala a chiocciola che portava in alto, all’empireo con i VHS dei concerti. Lou Reed che scruta l’orizzonte, Mark Knopfler in qualche vallata svizzera, il G3 con Satriani e Steve Vai e quell’altro.
L’atmosfera opprimente degli spazi interni resa insostenibile dalla condensa sulle vetrate – in strada, tra Regent e Coventry, il preventivabile diluvio – ma romanticamente ovattata. Ogni millimetro destinato al commercio più sfacciato, manifesti allineati da lavoratori deferenti e ragazze bionde agli angoli che scartano vinili con copertine di tramonti. If You’re Feeling Sinister dei Belle and Sebastian pubblicato da qualche mese e mica può essere un caso.
Al pari di qualsiasi paradiso figurato, la sensazione più frequente per il visitatore intento a girovagare nel fu Tower Records di Piccadilly (1983 – 2003) era ansia unita al desiderio di distruggere tutto a seggiolate data l’impossibilità di acquistare i mille oggetti disposti nelle teche: carillon di Elvis alle Hawaii, statue di Prince con le gambe divaricate, felpe dei Bad Religion per rapinare i pensionati, tazze con la faccia di Elton John. Interessante a posteriori notare come l’educazione alla buona musica talvolta proceda di pari passo con l’iniziazione al più spietato capitalismo delle catene e dei commessi con i cappellini scemi: «compra per due, scatenati per tre». Del resto, stavo lì per un motivo ben definito.
Don’t go into the woods tonight.
’Cause underneath the sticks and stones.
Are lots of little demons enslaved by Annabella.
Waiting just to carry you home.
(Wicked Annabella, Kinks, 1968.)
Ottobre 2020. Passano ventitré anni e sono a letto. Stavolta in Italia. Davanti al naso un impensabile (ai tempi) iPad nel quale ronza la puntata del Letterman Show con gli Zeppelin sopravvissuti. La domanda in inglese del conduttore suona riverente ma diretta. Ingenua ma adeguata al pubblico generalista in sala che aspetta di scompisciarsi: com’era abitare in UK con mostri sacri quali Beatles, Stones, Who e Kinks? I sottotitoli in italiano scorrono puntuali. «Com’era abitare in UK con mostri sacri quali Beatles, Stones e Who?»
In una involontaria eppure significativa rimozione, il senso della battaglia. Rimettere la band dei F.lli Davies sul piedistallo che merita. Consegnarle rinnovata luce. Esporla alla gloria eterna con un bignamino sentimentale. Nessuno potrà più scordarsi dei Kinks nei sottotitoli dei talk show e, saltando dal materasso disfatto, l’imperativo si fa categorico. Tutto fuorché rimandabile.
Una volta vidi la formazione dei Kinks del ’64-’65 esibirsi in tv a Shindig
e posso confermare che all’epoca Dave Davies non sapeva suonare.
(L. Bangs, Appunti senza titolo, 1981.)
I fatti: per prima cosa fu una musicassetta. Anno del signore 1989, ben prima di quel 1997 in cui decisi di comprare The Kinks Are The Village Green Preservation Society al Tower Records di Londra, tra Regent e Coventry, e farlo ascoltare al coinquilino ugandese che tornando ai Machine Head di The More Things Change mi fulminò come un verme.
Titolo: The Kinks. Hit Singles, stampata in Jugoslavia dall’etichetta slovena Bad-Ming-Ton Music. All’interno You Really Got Me, Death Of A Clown, Victoria, Lola che è un romanzo d’inizio secolo. Tutte a ronzare in sequenza nell’autoradio di famiglia e mandate a memoria come una liturgia. Però doveva esserci altro, materiale meno immediato e più ricercato nel catalogo dei Kinks. Componimenti che avrebbero saputo dirmi di più su quel gruppo dai mille membri, dalle mille fasi, dalle mille filiazioni: impensabile non avessero pensato a roba davvero seria limitandosi al ballabile. Strofe esemplari e, per l’universo a loro coevo, rivelatrici. Un giorno avrei analizzato nota per nota l’opera dei Kinks dedicandole alcune confuse righe (a ripensarci era l’inizio di un lunghissimo viaggio d’amore. Fallito in parte, ma onesto. Caro il mio gatto fenomenale™). In strada, tra Regent e Coventry, il preventivabile diluvio. Cerchiamo di mettere un po’ di ordine.
Prologo
Kinks. Kinda Kinks. Kinks Controversy.
(Ottobre 1964 – novembre 1965.)
Quali siano gli elementi necessari a maturare un incredibile talento musicale, non è dato saperlo. Tuttavia alcuni indizi per Ray e Dave Davies portano a redigere una piccola lista.
- Essere gli unici due figli maschi in una famiglia composta da sei sorelle; una versione beat di Cenerentola in cui al posto del principe azzurro c’è Rod Stewart che ti insegna il solfeggio.
- Vivere nella Londra di fine Cinquanta tra club jazz, rock, blues, swing. East Finchley e Denmark Terrace, indirizzo che finirà anche in un brano dei nostri: «down the way from the Tottenham Court Road. Just round the corner from old Soho.»
- Impegnarsi nel formare una band, darle un nome respingente (Ravens), trovare il buongusto di modificarlo, continuare a impegnarsi.
- Assicurarsi un manager, anzi tre (Collins, Wace e Page) quindi un promoter (Arthur Howes. Il quartetto che aveva iniziato a seguire si chiamava The Beatles) infine firmare per una etichetta, non importa quanto professionale o affidabile (nel caso dei Davies, la Pye Records intenta a mettere sotto contratto chiunque in città sapesse camminare, compreso un biondino che si presenterà come David Bowie).
- Incidere il primo singolo e non importa se è una canzone non tua (Long Tall Sally di Little Richard). Incidere il secondo singolo e non importa se sarà un flop (You Still Want Me) quindi il terzo che sicuro andrà meglio.
- You Really Got Me, terzo singolo dei londinesi Kinks, impiegherà poco per piazzarsi al top delle classifiche nazionali e aprire la strada alla registrazione dell’album di esordio. Se ne diranno tante su questa canzone, alcune fuori luogo (il primo pezzo punk della storia etc.) Il titolo, da prassi, è omonimo: The Kinks. Ovviamente in tasca la garanzia di una eco planetaria.
Ma serve onestà. The Kinks dei Kinks è il classico disco di una band che si affaccia al mercato musicale nell’anno del signore 1964. Standard abusati, una sacchettata di cover sfilacciate tra loro – I’m a Lover Not a Fighter di Jay Miller, alcuni canti tradizionali, Got Love If You Want It di James Moore – oltre al singolo di traino. Un Please Please Me sfornato due anni dopo tuttavia sarebbe ingiusto ritenerla una colpa. Questi i trend del periodo e l’importante è fornire la garanzia di un miglioramento. Fortuna i dischi successivi restituiranno spunti più sofisticati, nonostante il primo registrato in due settimane con una mole da soap-opera di scazzi interni, limiti di produzione e la stanchezza derivante l’infinito tour asiatico.
Tired Of Waiting For You è il brano più associato al secondo disco dei Kinks: Kinda Kinks (marzo 1965). Ma ci sono altri componimenti degni, specie i due inclusi nella versione USA e nella deluxe per feticisti: Set Me Free e l’afflato indiano di See My Friends.
È invece il novembre del 1965 quando vede la luce il terzo lavoro dei Kinks, Kontroversy, a metà tra il passato e ciò che sarà il futuro dei F.lli Davies. Un momento di passaggio ma, dicono gli zeloti, centrale con vette in versione cover (Milk Cow Blues) e scritte di proprio pugno: Gotta Get the First Plane Home e Till the End of the Day per finire con il folk anticato di Ring The Bell e le aperture à la Who di Where Have All the Good Times Gone.
Tuttavia i ponti con le opere del triennio in arrivo saranno altre, il pop tropicaleggiante di I’m On an Island e The World Keeps Going Round, produzioni capaci di spoilerare tematiche tra le più care ai Kinks di domani: il ritorno allo stato di natura – lo slancio che Ray e Dave avvertono per caprette e recinti – assieme al vecchio amore per la presa per il culo. Sublime arte più che mai britannica, perciò da mettere a reddito.
Face to Face, Something Else by the Kinks,
The Kinks Are the Village Green Preservation Society,
Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire.)
(Ottobre 1966 – ottobre 1969.)
Cioè il segmento della produzione dei Kinks che dovrebbe spingere chiunque abbia un minimo di cuore a riflettere sul motivo per il quale continuino a esistere individui sulla faccia della terra capaci di estromettere i Kinks dal podio (almeno) delle migliori band brit degli anni Sessanta e Settanta, relegandoli a un ruolo importante ma non assoluto.
Ancora dati: Face to Face è un ulteriore balzo in avanti nella capacità compositiva di Ray Davies (stavolta Dave resta fuori), album anticipato dai singoli Dedicated Follower of Fashion/Sittin’ on My Sofa e Sunny Afternoon/I’m Not Like Everybody Else oltre che da un esaurimento nervoso. Segue Something Else by the Kinks e The Kinks Are the Village Green Preservation Society.
Chiude la volata Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire), tutti nei negozi in undici mesi tra il novembre del 1968 e l’ottobre del 1969 a dimostrazione che i tempi ristretti non sono un problema se siamo spinti dal sacro fuoco dell’arte. Via le piste da ballo e benvenute tematiche bucoliche, la pastorizia come reazione alla contemporaneità o l’analisi del tempo che fugge perché alla fine tutti raggiungiamo quell’attimo dell’esistenza in cui è doveroso tirare una riga. La famiglia, gli amici di infanzia e qualsiasi cosa abbia un sapore âgée. I treni a vapore che tagliano i campi e le fattorie che cascano a pezzi ma restano colme di fascino.
Epperò il Village Green dei Kinks è un concept giusto all’apparenza conservatore; al pari è un opera sulla metabolizzazione del ricordo in virtù della crescita Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire) nonostante caratteristiche diverse. A farla da padrone i soliti Young and Innocent Days ma inedite appaiono le vie di fuga. Il nuovo mondo (Australia) che offre nuove opzioni contro la vita standardizzata (Shangri-La) e la possibilità di confrontarsi con i traumi nazionali irrisolti del passato inglese al netto delle menzogne: Mr. Churchill Says, Yes Sir, No Sir e Some Mother’s Son, canti di pace strazianti in tempi di guerra. E quando non siamo in guerra? Ancora ampie falcate in direzione della fine: God save Donald Duck, vaudeville and variety.
Da Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One
ai Preservation Acts. E un po’ del resto.
(1970 – ieri.)
Cioè il segmento nel quale ti chiedi perché il riduzionismo verso i Kinks sia stato tanto capillarmente diffuso quanto irritante ma, alla fine, forse non del tutto immeritato.
E la risposta può darsi stia nella Fase Tre che dal 1970 arriva a ieri, estenuante e con esiti spesso confusionari, poco felici o inadatti alle aspettative alternando tentativi di innovazioni lodevoli a stanche riprese (poi ok. La storiella potrebbe valere anche per gli Stones degli ultimi 45 anni ma loro dai primi vagiti si sono mossi in modi particolari e, nel bene e nel male, replicabili con difficoltà.)
Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One apre i Settanta pure essendo catalogabile come concept 60s. Dopo la mitizzazione del Village Green e il sogno di una fuga in Arthur, le vicende di un tizio che ci prova a sfondare nello showbiz sbattendoci il grugno. Brani ottimi – Strangers, Get Back In Line, Lola, Apeman – ma al netto della buona accoglienza il disco mostra un’incapacità sorprendente di imporsi sui mercati (i Kinks andranno storicamente meglio negli USA rispetto alla madrepatria). Peggio i Preservation Acts (1973 e 1974) in cui torna il protagonista del Village Green e si affacciano inedite atmosfere teatraleggianti (alcuni puntigliosi definiscono questa «la fase teatrale» dei Kinks, in fondo non sbagliando troppo.) Meglio il primo Act del secondo ma nel complesso operazioni poco centrate e capaci di spalancare la strada a roba ben più fragile: Soap Opera Schoolboys In Disgrace, entrambi del 1975 con l’ultimo inserito dal New Musical Express nella classifica dei Cinquanta Album con la Peggiore Copertina di Sempre.
Un po’ meglio Low Budget (1979) e Give the People What They Want (1981). Il primo per il ritrovato successo di pubblico – i Kinks si mettono a fare gli Smiths e abbandonano i borghi rurali per concentrarsi sulla attualità UK: disoccupazione, instabilità, inflazione e crisi energetica – nonché un rinnovato stile, etichettato come un ritorno al rock più scarno. E se Low Budget convince per le riprese, Give the People What They Want è un disco sonoramente figlio dei tempi – gli Ottanta che iniziano a ruttare in culla – in grado di azzeccare almeno due colpi: Killer’s Eyes e Predictable potrebbero starsene senza problemi nei lavori più azzeccati dei Kinks giovanili.
Silenzio imbarazzato sui cinque dischi che chiudono la lista (1983 – 1993) tolto il riportarne le posizioni nelle US Charts: 12, 57, 81, 122, 166. Viceversa menzione d’onore per l’unplugged del 1994 abbellito da uno struggente lettering grunge in copertina.
Riassumendo: una coda troppo lunga e non necessaria che può spiegare la sottovalutazione di alcuni ambienti ma non cancella quanto combinato dai F.lli Davies negli anni d’oro. Materiale indelebile e lezione per tanta musica a seguire. L’ironia che oggi appare scontata e addirittura superata, ai tempi quanto mai innovativa. Il contatto con il reale nelle sue variegate forme e il senso critico reinventato in stile Merseybeat. La contaminazione e l’eterogeneità sonora che genereranno figli e figliastri (la chitarra suonata in modo non eccelso è tra le pietre fondanti del garage-rock, ho scoperto di recente mantenendomi qualche dubbio). Come dire: alla fine ci abbiamo provato a rovinare tutto e il fatto che non ci siamo riusciti non fa altro che sottolineare la monumentalità del nostro corpus operistico precedente. Mica roba che tutti possono dire e prendetene atto: nothing lasts forever.
Epilogo.
«It gets harder and harder the harder I try.
Feels like a good time to die.»
Predictable, Kinks.
Ottobre 2020. Passano ventitré anni e sono a letto. Ancora in Italia. Davanti al naso un iPad nel quale ronza la puntata del Letterman Show con gli Zeppelin sopravvissuti. La domanda in inglese del conduttore suona riverente ma diretta. Ingenua ma adeguata al pubblico generalista in sala che aspetta di scompisciarsi: com’era abitare in UK con mostri sacri quali Beatles, Stones, Who e Kinks? Le poche righe messe su carta nell’attesa che qualcuno possa leggerle. Fuori dalla finestra una inattesa pioggia di villaggi verdi, suoni australi, militari in fila, clown che muoiono. Nello schermo Page, Plant e JPJ si alzano all’unisono per gridare in coro: è stato un onore, Dave. Un onore, specie per gli ultimi che hai nominato. La luce sul comodino viene spenta con un click.