Molte introduzioni – in questo caso la definizione è comunque più calzante: «istruzioni all’uso» – talvolta vengono ignorate da chi legge perché ritenute superflue, se non addirittura nocive: pazienza, può capitare. Specie per i libri nel cui cuore vogliamo ficcarci il prima possibile. In un’ottica accademica un gesto inaccettabile, e va bene. Al contrario da un punto di vista emotivo (l’unico per il quale l’autore sembrerebbe provare qualche slancio) ineccepibile se non doveroso. Tuttavia l’ottima ragione per non aggirare queste due paginette viene specificata in apertura del testo, con l’impeto di chi abbia bazzicato a lungo l’universo dell’hardcore post-punk USA e sia sopravvissuto più o meno integro: qui si desidera «fare chiarezza su molta della confusione che circonda alcuni eventi dello scorso millennio in ambito artistico, geopolitico, filosofico ecc. Le piccole dimensioni [del volume] lo rendono facile da trasportare così come da impugnare in occasione di dilemmi etici, discussioni e liti di gruppo. È concepito per questo utilizzo “da strada”, motivo per cui è provvisto di copertina e carta resistenti». Firmato: I.F.S., ovvero Comitato Centrale RRC. Ovvero, in un ipotetico quanto suggestivo russo, Rock ‘n’ Roll Comintern. A redigerlo un personaggio che definisci con difficoltà, poliedrico e sfuggente chiamato Ian Svenonius. E d’altronde il titolo stesso della raccolta, in Italia edita da Double Nickels, lascia pochi dubbi sui contenuti: Il Soviet Psichico. E altri scritti. Pagine che ci sbattono sul muso le opinioni del musicista che le ha partorite ma pure (si è portati a supporre) una modalità abbastanza diffusa di porsi rispetto al reale adottata da qualche suo collega in giro per il mondo. Parole dure e dogmi che implicano scelte nette. Irrevocabili e autoritarie. C’è da preoccuparsi? Dipende. Alcune specifiche, a questo punto, si fanno quanto mai necessarie.

Ian Svenonius, oltre alla carriera compositiva e performativa in band quali The Nation of Ulysses e Weird War – attive e ispiratrici nella scena alternativa di Washington D.C. a fine Ottanta – da un po’ di tempo si dedica con costanza alla divulgazione e alla educazione delle masse. In esteso esponendosi su politica e sociologia, nello specifico restituendo personali e taglienti punti di vista riguardanti qualsiasi cosa. Come prevedibile basta un’occhiata all’indice dei capitoli per farsi un’idea della eterogeneità argomentativa e di approcci cui il nostro si affida: Vampirismo e vampirologia (II), Avviso alle ragazze svedesi (XI), Il tempo-denaro (VIII), La sindrome di Seinfeld (IX), il Sensei dello stile (XV) o il Cappuccino di sangue (III.) Un pamphlet, questo Soviet Psichico, che è un fiume di considerazioni in un apparente caos di superficie, un caleidoscopio multiforme eppure funzionale sia per scioccare il lettore che per restituirne il nucleo pulsante, il fine ultimo del progetto che Svenonius tiene a scoppiettare sotto la cenere: la presentazione alla platea di una visione del mondo forse minoritaria eppure in rumorosa crescita. Dura e decisa ed è ironico (a naso) riscontrata specie in chi per anni abbia trafficato con l’arte, la creatività e l’ibridazione più fluida.
Comunque, adesso, un piccolo passo indietro prima di proseguire.
Il rapporto tra punk – banalizzando tra ribellione e desiderio di capovolgere lo status quo dentro cui sguazziamo (e sguazzavamo già ai tempi della nascita del movimento: l’occidente capitalista) – con l’ex sfera sovietica è storia radicata e possiamo trovarne tracce sia in band globali quanto in suonatori di quartiere. Tuttavia Svenonius gratta ancora più a fondo la crosta dell’infatuazione non limitandosi al titolo di una canzone o a una spilletta per finire in dissertazioni che possono sorprendere, o almeno se non conosciamo a fondo l’individuo. Emblematico lo studio che propone sul rapporto tra pensatori comunisti – Marx, Engels, Fourier, Kollontaj – con il femminismo (del resto «non può esistere emancipazione dell’umanità senza l’indipendenza sociale e l’uguaglianza dei sessi» scrisse August Bebel nel 1879) oppure le pagine che dedica alla psicogeoetica, quel processo inconscio, emotivo e poco chiaro che relazioniamo con l’istinto animale, la sfera primordiale delle persone. «Per la maggior parte detriti psichici inutilizzati» scopro. «Riflessi e superstizioni ereditati dalla programmazione genetica per la sopravvivenza, sviluppati attraverso milioni di anni di vita tra paludi, caverne, nidi, piramidi, astronavi aliene, appartamenti seminterrati e mucchi di sterco». Stando all’autore, una enorme madre primigenia identificabile con l’URSS poiché proprio i comportamenti dell’URSS – sia entro i confini nazionali che fuori – sarebbero stati in linea con la psiche primitiva, l’archetipo della figura psicogeoticamente materna: autoritaria, furtiva, implacabile, crudele e irrazionale (ne consegue quanto agli USA sarebbe toccato il ruolo più stronzo di padre, un padre «vanaglorioso, anti-intellettuale, scaltro e modaiolo. L’archetipo dell’eroe, lo psicopompo arcadico che affronta missioni pericolose, oltrepassa confini e protegge saperi segreti». Quali i dogmi a muovere un genitore del genere? Facile. «La conquista, la gloria, l’alchimia e l’acquisizione»). Una fascinazione che si direbbe non estinguersi con la caduta del Muro e la dissoluzione di quel sistema («il collasso dell’URSS è stato l’evento psicologicamente più doloroso della storia recente») arrivando a sposare slanci attuali, ben presenti nella nuova società che ha rimpiazzato la sovietica; la Russia di oggi, certo non l’unica ma neppure la nazione meno propensa alle limitazione delle voci dissonanti interpretate come potenziali pericoli.

Però Svenonius le carte in tavola le aveva già messe con Censura Subito (2019. In Italia via Not, Nero Edizioni) concependo righe tipo «abbiamo bisogno della censura. Censura per impedire alla radio di continuare a rigurgitare quel suo vomito ininterrotto. Censura per la “stampa libera”, creatrice di quella visione immaginifica del mondo che è la base intellettuale per lo sterminio di massa. Censura per i libri: rozzi mémoire scritti da ghostwriter, di politici e celebrità, gente che dovrebbe marcire in carcere anziché stare in giro a tenere conferenze». Affermazioni non propriamente distensive ma che ci stanno se, tornando a Il Soviet Psichico, scopriamo quanto «l’arroganza e il moralismo dei comunisti, spesso paragonati al fanatismo religioso, sono in realtà segni dell’intransigenza che una genitrice sa di poter esercitare». Dopotutto «il terrore di Stalin può essere visto come una specie di depressione postnatale in cui la madre, dopo il trauma del parto (la rivoluzione), tenta di distruggere i suoi figli (sia i rivoluzionari che i controrivoluzionari)». Mica poi troppo male e sarebbe un peccato non accettare in toto ciò che a un simile contesto ha fatto seguito: una governabilità repressiva, uno stato muscolare e un potere entrante. D’altronde «l’arte e la cosiddetta espressività devono subire la minaccia della censura affinché ci siano i mezzi e la volontà di renderle più forti. La censura, nell’immediato, le offrirebbe una bussola, un significato, uno scopo, una direzione». Perciò censurate i video e i film. Da quando? Da subito. Censura per tutto ma fino a che momento? Pure qui, la soluzione non è difficile per Svenonois: fino alla completa rieducazione.
Uno slancio schietto ma sincero, unito a una voglia di infiammare che si direbbe provenire dalla militanza punk; un’aggressività che puoi smarrire sul palco con l’avanzare dell’età – per quanto, a giudicare dall’esibizione all’anfiteatro di Fiesole lo scorso settembre, ancora in ottima salute – ma non negli scritti, di qualsiasi argomento trattino. Dracula letto in chiave anticolonialista («Van Helsing dichiara che i Dracula erano razza grande e nobile eppure saranno i cacciatori di vampiri olandesi, inglesi e americani, simboli del nuovo potere massonico della borghesia, a garantire il dominio dei bianchi nel futuro») o il marxismo di Beggars Banquet dei Rolling Stones (sottolineato dai graffiti sulla copertina dove si notano le parole BOB DYLAN’S DREAM e una freccia che indica lo sciacquone, chiara stoccata alla posizione assunta al tempo da Dylan nei confronti della politica: «è una noia»). Capitalismo e cinematografia («se muore Sylvester Stallone, l’impero crolla») o il sistema mediatico contemporaneo, quegli «show menomati appositamente per far risaltare in maniera positiva gli annunci pubblicitari a cui devono fare da cornice».
Posizioni del tutto insensate? Forse no. Alla fine, che possa aiutare un potere costituito, anche opprimente, a stimolare l’arte è teoria piuttosto accettata. Ma assieme, posizioni del tutto nuove? Sicuramente no e molti prima di Svenonius hanno tentato la carta dello choc per smuovere gli interlocutori veicolandone le attenzioni.
Posizioni costruite a tavolino e non percepite sul serio come proprie? Forse no, ché negli scritti del Soviet Psichico traspare una forma di limpidezza. Ma al tempo stesso, posizioni ingigantite e rese più fragorose per una evidente – seppure giustificabile – voglia di colpire dritto il muso del pubblico/lettori e farli voltare all’unisono dalla tua parte? Sicuramente sì, e anche in questo caso non si tratta di una prima volta.
Allora una domanda naïf ma inevitabile si fa strada nel cervello di chi si imbatta in questi precetti che pesano come macigni: posto che qualcuno, compreso un artista, con simili istanze difficilmente ci nasce, esattamente quando si formano? E soprattutto: è una reazione per qualcos’altro? In definitiva: sarà mica colpa nostra?
Risposta: un po’.
Una volta Lester Bangs definì Lou Reed il proprio eroe «perché rappresenta tutte le cose più incasinate che sono riuscito a immaginare. Il che forse dimostra soltanto i limiti della mia immaginazione». Posizione non esaustiva ma nobile (se qualcosa va storto, la colpa è sempre della limitatezza tua e giammai dell’altrui follia). Dunque magari è anche un po’ colpa nostra e se fossimo stati capaci di dare più affetto a specifici musicisti loro magari avrebbero avuto – con l’avanzare del tempo – posizioni meno intransigenti. Avrebbero limitato battute grossolane su schwa e politically correct (esponenti nostrani, in passato idoli tastieristici di chi sta scrivendo) o evitato di appoggiare nazionalismi in giro per il continente. In parte gli aguzzini siamo noi – i limiti della nostra immaginazione, cit. – ma non tutto è perduto.
Perché leggendo Svenonius succede pure questo: curiosamente si bilancia lo smarrimento e l’incazzatura per alcune sue tesi con l’ammirazione per una cultura e una scrittura sul serio meritevole, e sale la voglia di coccolarlo mentre grida all’erezione di muri e alle più svariate incarcerazioni (al contrario quando tratta di musica – di commercializzazione della musica e svendita dell’arte – è difficilissimo dargli torto e assume una posa più pacata, remissiva.) Perché leggendo Svenonius fa pari lo sconcerto con l’affetto per questo tizio che, volendo stimolarti, ha scelto di non provocare con un tweet ma redigere pagine e pagine di tabelle, grafici, analisi e riferimenti bibliografici. In tempi di velocità nella fruizione, sicuramente un gesto degno di nota. Qualcosa di ricercato, strutturato e un filo snob come scegliere di esibirsi in morbidi vestiti di seta l’unica notte in cui – seppure dalla distanza e sotto uno splendido cielo di fine estate – ho potuto abbracciarlo, nella speranza un domani di potere ancora girovagare insieme per l’Occidente corrotto berciando, sbracciandosi e facendo buh al primo borghese tutto benpensante che passa.