La faccenda viene chiarita dall’autore nella prefazione, scardinando così eventuali dubbi di approccio: “Per quanto sia abituato a definirmi critico rock, è probabile che a questo punto della mia carriera la musica su cui ho scritto più parole sia quella fatta con sintetizzatori e sample, non con le chitarre.” Sebbene anche il rock sia, in senso letterale, musica elettronica. (“Dai pick-up ai pedali, le chitarre elettriche dipendono… be’, dall’elettricità.”)
Ma il viaggio di Simon Reynolds in Futuromania. Sogni elettronici da Moroder ai Migos – seguito ideale, per quanto assai differente, di Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, entrambi editi in Italia da minimum fax – esula dalla presenza o meno di generatori o interruttori lungo le pareti degli studi di registrazione e si intrufola nel profondo di un universo eterogeneo, focalizzandosi sugli elementi che più ne caratterizzano le declinazioni: le molte anime della cosiddetta musica elettronica, la genesi degli stili, gli sviluppi tecnologici, i ponti che i synth hanno saputo gettare con la società circostante fino dai primi sculettanti vagiti.
Basta scorrere l’indice per realizzare come ci troviamo di nuovo nel cuore del classico labirinto simonreynoldsiano, una giungla di rimandi e tecnicismi e spunti che ipnotizza il neofita, pungolando al contrario colui che pensi di maneggiare decorosamente gli argomenti (il messaggio di Futuromania è doloroso come quello di Post Punk o Polvere di stelle: studia quanto ti pare, piccolo mio. Tanto mai sarai un’enciclopedia vivente paragonabile al Nostro.)
I Feel Love di Donna Summer e la trap. Maximal Nation e l’industrial dance; le visioni germaniche di Wolfgang Voight e la Londra dei Novanta (2-step garage, ecc.) passando per Bernard Parmegiani e i Daft Punk. Le modalità attraverso cui ognuna di queste caselle si identifica con il mondo che l’ha partorita in quasi cinquant’anni di storia e come possiamo interpretarla senza scivoloni, comprendendone i significati reconditi perché tocca evitare l’errore diffusissimo tra coloro che non tirano tardi la notte: mica si tratta solo di ballare.
Saggiamente l’impostazione di Futuromania è cronologica: siamo nel pieno del periodo punk (1977) quando Giorgio Moroder e Pete Bellotte alternandosi baffi e competenze inventano la Donna Summer di I Feel Love, brano che mostra la direzione a un fiume di derivazioni quali house, techno e trance, trovando addirittura il modo di colpire al cuore individui all’apparenza impermeabili tipo il Bowie berlinese o il gruppo glam Sparks. Segue il 1978 e l’imposizione della Mensch Machine dei Kraftwerk, quindi le peripezie 1981esche di un Brian Eno abbastanza nervoso per le recensioni non entusiasmanti di My Life In The Bush Of Ghost ma capace di reinventarsi esplorando l’ambient fuori dalla finestra del suo loft newyorkese. Il 1983 delle etichette (Flowmotion, Third Mind) culle di spinte strepitose, infine la compilation Close To Noise. Formative UK Electronica 1975/1984 con le virate black dei Mantronix (risale al 1985 il loro album di esordio titolato, con un meritevole scatto d’inventiva, Mantronix: the album.)
Retrospettive puntuali eppure meno identificabili con la voce narrante rispetto alla sezione centrale del testo, quella in cui (volontariamente o meno) Reynolds si immerge con gioia fanciullesca: non l’universo intero degli Ottanta quanto l’Inghilterra dei Novanta, “genio contro scenio”, la sua epoca e il suo nido (al pari di Mark Fisher, pure Simon sembrerebbe venuto su a pane e nottate per club tra Finchley Road e Soho). Qui le vette del repertorio rispolverate per l’occasione: l’amore talvolta criticato verso le definizioni e le categorie impermeabili, l’incapacità di esimersi dal coniare neologismi sempre nuovi e dissonanti, la chirurgica precisione nelle digressioni produttive. Nel continuum dei Novanta svisceriamo l’hardcore e l’artcore, i soldati delle tenebre devoti alla drum’n’bass, jump up, techstep, dubstep e la nascita dei gabber. Tutto appigliandoci alla lucidità di chi faceva l’alba al bancone, intento a prendere appunti e muovendo a malapena il sedere. Sfondo ideale per discutere anche di droghe – quali sostanze si accompagnano meglio a quali tipologie di elettronica? – e sociologia (“Gli ex raver che erano adolescenti nel 1989-92 oggi hanno venticinque-trent’anni, un lavoro, magari una famiglia.”) oppure stili di vita più o meno edonistici (per esempio chi non sa che lo speed garage punta dritto sull’enfasi implacabile del piacere, a differenza della seriosità anedonica del drum’n’bass? Ecco perché “i nomi di locali, etichette e radio pirata evocano una sensualità golosa – Cookies & Cream, Nice ‘N’ Ripe, Chocolate Boy, Ice Cream, Pure Silk – e rispecchiano la propensione sonora per tessiture calde e organiche”.).
Un dedalo di stradine dalle quali Reynolds ci invita a scendere nel buio di piste da ballo affollatissime o sintonizzarsi su un’emittente locale semisconosciuta per quanto di importanza vitale. (Durante le interviste ai DJ radiofonici troviamo in numero maggiore i paragrafi esemplificativi dell’approccio di cui sopra: “Tre anni dopo, la jungle è tornata alle origini, quando il suo spirito rude boy e la sua scienza ritmica hanno preso violento possesso del garage – la forma di house più soul e canora – e così facendo ha creato la nuova scena londinese dello speed garage.”)
Un continuum destinato a concludersi con l’estinguersi della scena rave, o meglio dei cascami della scena rave: ma a questo punto siamo arrivati a metà degli anni Zero e al passaggio dalla cultura underground a quella “della boutique” nella quale forse ancora stiamo. Evoluzione o declassamento, ci sarà tempo per valutare. Unica certezza, è possibile continuare ad ammirare la nascita di artisti che sanno rappresentare questo interminabile canto del cigno di stili e pulsazioni, reinventandolo ciclicamente. Ovvio Simon li conosca a menadito e già brami per tornarci a scrivere sopra.
“Il suono, forse di un esercito in marcia verso casa per sciogliere le righe”: ecco come Reynolds sceglie di terminare il viaggio. Tuttavia, c’è da crederlo, già voglioso di ripartire.