Il pesce serra è un predatore salito dai mari del Nordafrica per via del riscaldamento delle acque e arrivato alle coste toscane, per quanto ne so, verso la metà degli anni Novanta. Due cose colpiscono subito del pesce serra: la struttura della mandibola e i denti. La mandibola è infatti molto più pronunciata, grossa e potente rispetto a quella di qualsiasi altro comune pesce costiero. La forza della mandibola e l’affilatezza dei denti formano una combinazione micidiale, in grado di tranciare di netto qualsiasi pesce con un morso soltanto.
La prima volta che incappai in un serra stavo pescando saraghi con il galleggiante, dagli scogli, un’estate di circa quindici anni fa. Ricordo che recuperandone uno vidi chiaramente la sagoma scura, che mi sembrò enorme, di un pesce che nuotava dietro al saraghetto allamato seguendolo, praticamente, fin sotto ai miei piedi. Mi chiesi cosa fosse, perché non avevo mai visto un predatore dal comportamento tanto sfacciato. Dopo qualche minuto, presi un altro sarago e stavolta, mentre lo recuperavo, sentii uno strappo incredibilmente forte che quasi mi portò via la canna dalle mani. Pensai di essermi incagliato in uno scoglio, ma recuperando non sentivo più il pesce. O meglio, qualcosa era attaccato all’amo, ma sembrava solo un piccolo peso morto. Finalmente, dall’acqua uscì il galleggiante e più in basso, appesa all’amo, uscì anche la testa di un sarago che doveva essere stato grosso all’incirca come una mano, perfettamente tranciato giusto dietro le branchie. Non conoscevo nessun tipo di predatore costiero che potesse averlo diviso in due con un morso. Ovviamente pensai al pesce che avevo visto inseguire il sarago precedente, ma non avevo idea della specie a cui potesse appartenere. Così raccontai la storia al tizio del negozio di pesca, il quale mi spiegò che si trattava sicuramente di un pesce serra.
“E come si fa a prenderlo?”, gli chiesi.
Quel giorno comprai il mio primo cavetto d’acciaio, uno di quegli oggetti dall’aspetto adulto, professionale e pericoloso, che da bambino non smettevo mai di ammirare. Si tratta di un filo di acciaio inguainato da agganciare in fondo alla lenza, dotato di uno o due ami dove si innescano pesci interi o in tranci. Prima dell’avvento dei serra, il cavetto d’acciaio serviva, se proprio uno era un fanatico della pesca pesante, per le murene, i grandi gronchi e per tutta una serie di pesci, magari di taglia, ma impopolari perché rari da pescare da riva, poco commestibili, e brutti. Con il pesce serra, invece, il gioco è cambiato: il brivido da safari di una pesca pesante ed esotica, di una ferale caccia al cacciatore, era ora a portata di canna anche dalle nostre coste. Ma a un prezzo. Oggi tutti i vecchi pescatori lamentano la diminuzione della quantità di pesce, unanimemente attribuita alla pesca commerciale. Forse però anche i pesci serra hanno fatto la loro parte, perché sarebbe strano che un predatore tanto aggressivo e vorace, che facilmente raggiunge diversi chili di peso e accosta in banchi, non abbia un impatto su ambienti popolati in prevalenza da pacifici grufolatori.
Sia come sia, un morso dopo l’altro, il serra si è pian piano radicato, cambiando anche le abitudini dei pescatori. Il serra, si dice, non è un pesce troppo complicato da far abboccare, e anche per questo non è amato dai pescatori più esperti: le forti emozioni a buon mercato (e le sfibranti battute di pesca pesante, spesso in notturna) sono roba da giovani. Eppure, benché ci abbia provato per anni, non ho mai preso un pesce serra.
Anche questa volta sono finito al supermercato per procurarmi di corsa, con la macchina già carica, qualsiasi pesce giaccia stecchito sul banco frigo. La scelta ricade su uno sgombretto intorno al mezzo chilo, di provenienza atlantica. Le carni sono bianche e frolle, segno che la morte risale a diversi giorni addietro. Non è nemmeno un errore da principianti, è proprio da imbecilli, ma come sempre ho fretta e ho già curato l’attrezzatura, i viveri e la scelta di tre scatole di vermi diversi. La selezione dell’esca pesante è rimasta la casella scoperta, la pedina sacrificata alla smania di partire che ovviamente, anche questa volta, presenterà il conto alla fine della battuta di pesca. Già lo so, perché questo è il genere di cose che continuo a tralasciare, ogni volta, e non solo nella pesca.
Una volta arrivato al mare, mi fermo a studiare la situazione bevendo una birra allo stabilimento che ora occupa il posto da cui, in primavera, ho preso un’orata da un paio di chili. Un temporale improvviso ha fatto il fuggi fuggi tra i bagnanti. Madri con figli in braccio e trenta-quarantenni tatuati, tutti in costume, bevono l’aperitivo guardando con aria sconsolata la pioggia e il vento sferzante che schizza l’acqua fin nei loro bicchieri. Il temporale ha colto tutti di sorpresa, ma sembra proprio uno di quelli passeggeri: le previsioni dicono che il vento calerà e che la notte sarà tranquilla. Il maltempo mi ha sgombrato il campo al momento giusto, così posso mettermi in pesca già prima delle otto. Il cuore mio ride.
Sorseggiando la birra valuto che proprio non posso sistemarmi dov’ero in primavera, perché ora gli ombrelloni arrivano al bagnasciuga. L’occhio mi cade allora su alcune rocce basse che si incontrano sulla scogliera che si leva subito alla sinistra dello stabilimento. È una mossa azzardata: non l’ho mai fatto, né ho mai visto nessuno pescare da quel punto degli scogli, perché è troppo scomodo. La postazione migliore sarebbe più avanti, sulla punta: è spaziosa e in piano, senza rocce che affiorano di fronte, ed è proprio lì che quindici anni fa i serra mi tranciavano i saraghetti sotto il naso.
Raggiungo la zona più vicina, quella scomoda, e in effetti si affaccia su una linea di scogli pericolosi dove piombi e ami si possono incagliare ad ogni recupero; da qui, recuperare un pesce, specie se di taglia, può essere un incubo, e in più dovrei saltellare in ciabatte tra le rocce, attento a non sprofondare nelle pozzanghere formate dalle onde, per tutta la notte. Come postazione è davvero pessima, ma l’istinto mi spinge a considerarla perché, da un lato, mi permetterebbe di raggiungere con lanci abbastanza corti la striscia di acqua più chiara che si vede alla mia destra, fra gli scogli e lo stabilimento: lanciavo lì quando in primavera ho preso l’orata bella. Dall’altro lato, con la canna pesante posso pescare verso la propaggine della scogliera, dove, almeno anni fa, so che accostavano i serra. Però il punto è proprio brutto.
Finisco la birra aspettando che spiova. Devo decidere. La zona a ridosso degli scogli, quella dove in primavera ho preso l’orata, è sempre là perché probabilmente la corrente ha scavato e continua a tenere aperto un canalone subacqueo. Per quanto ne so, le spiagge cambiano sempre, ma in presenza di scogli o argini tendono a formare strutture stabili. Sarebbe una buona idea tentare serra e orate insieme e l’unico punto che permette di farlo è quello, non ci sono storie. Logisticamente è terribile: la stuoia con lo zaino e i viveri staranno qualche metro più in alto rispetto al punto in cui saranno le canne, e avrò a portata di mano solo l’attrezzatura da pesca perché non c’è abbastanza spazio per il resto; in più non so esattamente fin dove salirà l’acqua con l’alta marea. Sarà un incubo, già lo so, ma ormai ho deciso.
Mi posiziono in malo modo sugli scogli e mi preparo alla nottata montando le starlight al calasole, quando ancora non serve la torcia. Il posto è scomodo, ma la serata promette bene. La canna più leggera, che pesca nel canalone alla mia destra, armata con un amo sul fondo e uno a mezz’acqua innescati con due tipi diversi di vermi, comincia a essere tormentata dalle mangiate di pesci piccoli ma affamati.
È un buon riscaldamento e dopo poco arriva una tracina minuscola, che riesco a liberare senza procurarle danni particolari; poi un’orata piccola, una mano circa, che però combatte come un’indemoniata. La povera bestia, una volta slamata è esausta e praticamente mi muore tra le mani. La sbuzzo immediatamente e la metto in fresco. Mi dispiace perché oltretutto uso sempre ami abbastanza grandi proprio per evitare gli esemplari sotto misura. Ma non si può esagerare con la grandezza dell’amo, altrimenti diventa più difficile anche prendere pesci di taglia media; inoltre, il diametro esile dei vermi non permette di coprire ami troppo grandi. Ognuno trova il suo compromesso e purtroppo c’è chi usa ami più piccoli per non privarsi anche delle catture più modeste. Ma per quanto ci si impegni ad evitarlo, a volte capita comunque di non poter liberare un pesce, e per me non resta altro da fare che ucciderlo immediatamente per poi onorarlo mangiandolo.
La serata passa bene grazie a diversi pesciolini, orate e mormore, e a tante ferrate a vuoto, ma stranamente senza incidenti con gli scogli. C’è una corrente vivace ma non forte che stende bene le lenze aiutando a non creare intrighi sott’acqua, fuori non ci sono alghe che si attorcigliano al filo e il vento è quasi assente. Non ci sono altri pescatori e la spiaggia alla mia destra è vuota e silenziosa, il mare perfettamente calmo. Alla mia sinistra, la canna pesante è immobile ormai da ore. A parte qualche recupero di controllo e un cambio di esca, la canna, con la sua brava starlight in cima, è rimasta immota, a testimoniare il disgusto dei pesci tutti per quell’ignobile trancio di sgombro. Mi brucia, perché in fondo è il serra che voglio. Ho aspettato il caldo vero apposta.
La canna leggera mi porta a riva un pesce lungo all’incirca un dito, talmente piccolo che non riesco subito a capire cosa sia; dal barbiglietto riconosco un’ombrina, uscita dall’acqua già morta. La guardo e mi viene l’idea: la sostituirò allo sgombro. Non sono pratico di come si innescano i pesciolini interi, l’ho soltanto visto fare, perciò improvviso e cucio l’ombrina al cavo d’acciaio attraversandone il corpo un paio di volte con l’amo. Lancio la canna pesante con poca forza per preservare l’esca e come al solito ricomincio a dedicarmi alla canna leggera, che è in movimento quasi continuo. Ma non passa molto che sento partire il mulinello della canna pesante.
Il cicalino del mulinello ronza dando filo a un fuga che dura forse un paio di metri, ma si ferma prima che riesca a prendere la canna per ferrare. Sconsolato, recupero sapendo già che il serra mi ha fregato, e infatti, arrivato al terminale, vedo pendere il cavo d’acciaio e il grosso amo mestamente privo dell’ombrina, che avevo cercato di assicurare al filo meglio che potevo.
Dopo oltre quattro ore di pesca la stanchezza comincia a tendere trappole all’iniziativa e alla concentrazione, ma ho intenzione di gestire i vermi per arrivare fino alle otto del mattino con la canna leggera; perciò devo ottimizzare sforzi e risorse usando anche la canna pesante, ma con esche che non siano vermi. La cosa più semplice da fare sarebbe ricominciare con lo sgombro nella speranza, prima o poi, di catturare con la canna leggera un altro pesciolino da usare come esca. Ma l’idea non mi soddisfa, perché si basa sulla speranza di prendere il pesce giusto, proprio quello che quando si aspetta non arriva mai. Devo usare ciò che ho, e oltre a un amo vuoto, l’unica cosa che mi resta è la consapevolezza che se lo sgombro è stato ignorato per tutta la sera, un pesciolino fresco è stato attaccato dopo nemmeno cinque minuti da che era in acqua. Devo ripartire da qui. Ma nel carniere ho solo un’orata, sotto misura ma troppo grossa per innescarla intera.
Decido allora di mutilare il mio già esiguo pasto tagliando via un filetto dalla piccola orata, preso da un fianco appena prima della coda. Lo taglio con cura, lo cucio con l’amo, poi compatto il boccone con qualche giro stretto di filo elastico sottilissimo. Lancio e ricomincio ad occuparmi dell’altra, più prolifica canna. Questa volta, sulla canna pesante lascio la frizione chiusa: significa che in caso di attacco non sentirò il cicalino del mulinello, e che il pesce non avrà filo a disposizione per scappare, ma incontrerà subito la resistenza della canna in leggera tensione. La speranza è che con il contraccolpo del vettino, l’amo possa conficcarsi nella bocca del serra senza che debba ferrarlo io al volo, cosa impossibile in questa postazione.
Ora bisogna solo che non perda di vista le due starlight, anche se non è più così facile: dopo ore passate a fissarle, quelle lucine tremolanti sembrano muoversi anche quando sono ferme. Sembrano miraggi, ma forse è proprio il miraggio l’anima della pesca.
All’improvviso la vetta della canna pesante comincia a muoversi a scatti convulsi in avanti e rischio menischi e legamenti per saltare ad afferrarla. Do la ferrata e dall’altra parte sento nettamente le testate e i tentativi di fuga ai lati di una preda imbizzarrita. Se i nodi sono fatti bene, e lo scoprirò subito, filo, amo e mulinello dovrebbero sopportare la lotta con un pesce, probabilmente, fino a cinque chili, perciò non ho troppo pensiero di rompere. Capisco che questo non è grandissimo, ma è comunque un bel pesce, che mi costringe a cedergli metri di filo per tenerlo sotto controllo. Ci vogliono diversi minuti per portarlo sotto riva senza forzare troppo. Quando sento che è abbastanza vicino, accendo la torcia che porto sulla fronte e guardo verso l’acqua. Subito prima del piccolo banco di scogli semisommersi vedo la lunga sagoma argentata di un gran bel pesce. Non sarà enorme ma è bello davvero. Ora, l’idea è di farlo passare in mezzo a un corridoio che si apre nel banco di scoglietti che affiorano a un paio di metri da me, per portarlo nello specchio di mare ai miei piedi dove lo aspetterà il retino. Certo, come no.
Il serra chiarisce subito che posso inventarmi un altro piano, perché semplicemente comincia a saltare un metro fuori dall’acqua, scavalcando il banco di scogli verso la riva senza nessuno sforzo, per poi superarli di nuovo saltando verso il largo. Pomatomus saltatrix. Con la mano sinistra posiziono il retino a terra e lo blocco con il piede, ma è una mossa ridicola: è assolutamente impossibile guidarci dentro il pesce, che intanto continua a saltare dove gli pare.
Dopo un paio di minuti capisco che prima o poi, a furia di salti, il serra trancerà il filo contro una roccia, perciò non mi resta che una scelta drastica: tirarlo fuori di peso e incrociare le dita, sperando che davvero i nodi siano tutti solidi e il filo sano e l’amo ben piantato nella bocca e la nuova canna priva di difetti, e così via. Così, anche se detesto farlo, lo sollevo senza tanti complimenti.
Va tutto liscio e lo poggio facilmente sugli scogli, vicino alla cassetta degli attrezzi. Mi accovaccio sul pesce per guardarlo da vicino: il corpo è venato di un bellissimo giallo oro, uno di quei colori splendidi e fragili che in certi pesci cominciano a svanire subito dopo la morte. La mandibola è veramente impressionante, così come i denti, abbastanza radi ma lunghi e acuminati. Tolgo l’amo usando le pinze e il pesce serra è finalmente mio. L’ho preso, e nessuno potrà mai togliermelo. Ora però devo ammazzarlo.
La maggior parte di noi non si dà troppo pensiero nell’uccidere gli animali più piccoli. Gli insetti, poi, per lo più non li percepiamo nemmeno come animali veri e propri, sebbene siano comunque vite, un individuo ciascuno, allo stesso modo che le orche, gli gnu e i cani. Raramente, nella vita, si uccide qualcosa di più grande di un topo, e di solito lo si fa indirettamente, magari con una trappola. Può anche capitare di investire un grosso animale con la macchina e ammazzarlo, ma per accidente. Invece, uccidere qualcosa di abbastanza grosso da essere percepito come un animale, qualcosa dotato cioè di una sua irriducibile fisicità, mobilità, volontà, e farlo di proposito, richiede una sorta di neutralità verso la morte che gli animali hanno per istinto e che gli umani sviluppano solo per abitudine o per bisogno. Il motivo principale per cui avevo smesso di pescare è che per anni ho ripensato ad alcuni pesci che ho ucciso con uno strano miscuglio di dispiacere ed entusiasmo. È un sentimento che non saprei associare ad altri, molto specifico.
Faccio scattare il coltello, mentre con la mano libera tengo fermo il pesce serra.
Ho di fronte un animale che incarna, in scala ridotta ma nemmeno troppo, l’archetipo del predatore. Quello che più mi colpisce di animali come i grandi felini, o gli squali, è l’assoluta naturalezza con cui uccidono, la forza che riescono a usare per sottomettere una preda, nel solo nome della propria fame. Mi colpiscono perché quel gesto così semplice, uccidere per mangiare, si complica molto quando incontra la nostra consapevolezza, tipicamente umana, della vita. Un uomo, un’arma, un animale, è forse la prima storia che la nostra specie abbia sentito il bisogno di raccontare.
Infilo la lama tra gli occhi del serra che dà una pinnata, poi un’altra, meno decisa, e un’altra ancora, debolissima. Subito lo squarto partendo dall’ano fino alle branchie e gli strappo via tutte le interiora, cuore stomaco fegato intestino, e le getto in mare.
È finita, e solo ora che il pesce è davanti ai miei occhi in tutto il suo mezzo metro di bellezza, morto e ripulito, animale divenuto carne, mi rendo conto di aver trattenuto l’aria nei polmoni: di averlo accompagnato alla morte restando, come lui, senza respiro.
Lo sciacquo bene immergendolo più volte nell’acqua. Mi alzo in piedi e lo sollevo infilando le dita nell’enorme squarcio ormai pulito della pancia. Provo uno strano senso di euforia, o forse un enorme sollievo. Per come mi sento, potrei smontare tutto e tornarmene a casa, ma manca ancora tempo all’alba.
Si susseguono le ore e diverse altre piccole orate, annunciate dal miraggio della starlight che danza contro il fondale nero del cielo, confondendosi con le stelle. Ogni tanto cadono comete, come nelle notti di metà agosto. Il mare rimane calmo e una brezza leggera mantiene l’aria asciutta. L’unico inconveniente sono le pozze: ho i piedi a mollo dal tramonto, ma fortunatamente si sta benissimo.
Proprio ora, una luce debole e ubiqua schiude ai miei occhi il litorale di Castiglione della Pescaia. Gli ombrelloni chiusi picchettano la lingua di sabbia che si stende verso nord assottigliandosi sempre più stretta e indefinita, fino a perdersi indistinta in una pineta. Non ci sono figure umane in vista, sono perfettamente solo, io e le mie due canne da pesca, mentre i primi raggi di sole permettono di fare a meno della torcia, aprendo allo sguardo la distesa d’acqua inquieta che ha sciabordato ai miei piedi, nera e invisibile, tutta la notte.
Continuo a pescare ma ormai sono soddisfatto e attendo solo l’alba, che infine mi si rivela alle spalle con una luce dal colore indefinibile.