Bye bye Summer of Love
Nel 1967, in piena Summer of Love, Hunter Stockton Thompson era un cronista trentenne imbevuto di acidi e controcultura che nel maggio di quello stesso anno, in un lungo articolo pubblicato sul New York Times (scaricabile qui), denunciava la deriva di Haight-Ashbury e di tutto il movimento.
“‘Hashbury’ è la nuova capitale di quella che sta rapidamente diventando una cultura della droga. I suoi abitanti non sono chiamati radicali o beatnik, ma ‘hippie’ — e forse almeno la metà sono rifugiati che provengono da Berkeley e dalla vecchia scena di North Beach, culla e bara della cosiddetta Beat Generation.”
The ‘Hashbury’ Is the Capital Of the Hippies, The New York Times, 14 maggio 1967
Negli articoli di Thompson, molti dei quali sono in seguito andati a comporre i suoi libri, si legge chiaramente l’epitaffio di un ingenuo e grandioso tentativo di cambiare una società alterandone la coscienza. Si legge la vittoria finale della guerra, della repressione, del conformismo, e si vede il genio psichedelico di Haight-Ashbury tracimare nella follia, sospinto da un moto pacifico, ma di una forza devastante, che infine si è ritorto contro sé stesso.
“La spinta non mira più al “cambiamento” o al “progresso” o alla “rivoluzione”, ma semplicemente alla fuga, al vivere sul perimetro estremo di un mondo che avrebbe potuto essere — che forse avrebbe dovuto essere — barattando una sopravvivenza concepita in termini puramente personali.”
The ‘Hashbury’ Is the Capital Of the Hippies, The New York Times, 14 maggio 1967
Quella di Thompson è stata una figura ambivalente, di confine: appassionato di droghe e di armi, legato ad ambienti progressisti ma simpatetico verso figure, come gli Hell’s Angels, dai tratti ferocemente reazionari.
Volendo, i suoi scritti si potrebbero considerare cronache dall’orlo di una faglia: da un lato, hippie, intellettuali anticonformisti, motociclisti fuorilegge, giornalisti alcolizzati; dall’altro i “regolari”, rappresentanti o sostenitori dell’autorità: politici, giudici, sceriffi di provincia, onesti contribuenti: i buoni cittadini americani.
Hell’s Angels
Tra gli archetipi più famigerati di ribelli senza causa né pausa, un posto d’onore spetta senza dubbio agli Hell’s Angels, il club americano di motociclisti fuorilegge fondato nel 1948 a San Bernardino, nella California meridionale.
Verso la metà degli anni Sessanta, l’epoca in cui Hunter Thompson li frequentò e ne scrisse, il club si era ormai diffuso nonostante, e anzi al ritmo di, una campagna stampa che ne dipingeva i membri come criminali, maniaci sessuali, nazisti e terroristi.
Gli Angels, invece, si definivano orgogliosamente onepercenters, ossia membri di quell’un per cento di motociclisti che l’AMA, l’American Motorcycle Association, additava come veri e unici responsabili dei problemi di ordine pubblico capitati ad alcuni raduni organizzati dall’associazione.
Ma, come a volte succede, lo stigma fu issato a vessillo — insieme al famoso teschio alato — e divenne il simbolo degli irriducibili Angels. La loro più profonda ragion d’essere era distinguersi dagli Americani “regolari”, perché gli Hell’s Angels, di fondo, ripudiavano la vita borghese in toto e non solo la concezione hobbystica della motocicletta.
La sezione del club con cui Thompson era entrato in confidenza nel 1964, fino a ottenere il permesso di girare insieme ai membri e di partecipare alle loro feste, era quella di Oakland, città che in quel periodo ribolliva, insieme a tutta la baia di San Francisco, di cultura libertaria, musica, droga e conflitti razziali.
Di lì a poco, proprio a Oakland sarebbero nate le Black Panthers, il pugnace movimento per i diritti degli afroamericani; subito a nord c’era Berkeley, con il battagliero pacifismo degli studenti e il Free Speech Movement; e giusto all’altro lato del Bay Bridge c’era San Francisco, culla amorosa del movimento della psichedelia; oltre i confini c’erano poi l’Indocina, l’Unione Sovietica e uno stato di guerra permanente.
In quegli anni la baia pullulava di giovani donne e uomini alla frenetica ricerca della libertà, e anche gli Angels inseguivano la loro, fatta di metallo rombante.
Vite angeliche
Agli Hell’s Angels interessavano principalmente le moto, le donne, l’alcol e le droghe, mentre il resto era quello che toccava loro fare per procurarsene. Quando possibile lavoravano, ma spesso trafficavano con tutto quello che gli capitava per le mani e perciò, di reati gli Angels ne commettevano. Non c’è però da stupirsi se, nel libro, i truci fuorilegge finiscono sempre per deludere chi si aspetta grandi crimini. Per lo più si tratta di sbronze selvagge, multe, risse, brevi periodi in carcere.
È praticamente certo che per proteggere la sua fonte, i suoi ex amici Hell’s Angels, Thompson abbia omesso aneddoti e particolari incriminanti; ma in quanto fenomeno mediatico, gli Angels erano anche diventati un ben riconoscibile capro espiatorio, oltre che soggetti perfetti per la diffamazione.
Tra le tante verità sui loro crimini, era molto facile nascondere menzogne, ed è per questo, oltre che per un’istintiva simpatia, che Thompson si è dedicato a scrivere non tanto un’apologia dei suoi amici ribelli, quanto a ricostruire il modo in cui la stampa aveva creato la loro immagine di nemici pubblici, e di come le autorità si muovessero in consonanza con essa.
Questo è un aspetto che ci riguarda da vicino perché, nonostante siano cambiati soggetti, mezzi e modi, la creazione e l’uso politico della paura, specialmente contro gli elementi che le istituzioni considerano “non regolari”, sono strategie ancora attuali.
La trappola della sicurezza
Thompson racconta che, a metà degli anni Sessanta, la scoperta della posizione di un imminente raduno degli Angels faceva scattare tutti gli apparati di sicurezza cittadini. Mossi da un sacro zelo protettivo verso le loro comunità, gli sceriffi di provincia rizzavano le barricate.
Vietando la vendita di birra, ostacolando la circolazione stradale, mettendo sul chi vive i cittadini della zona dove si sarebbe tenuto il raduno, le autorità generavano una tensione così palpabile che bastava anche solo un battibecco condito da droghe e alcol, a volte, a innescare la miccia delle ostilità. E così, la profezia del caos si autoavverava.
Dal racconto di diversi raduni, si vede come il cordone protettivo che le autorità costruivano intorno ai motociclisti fuorilegge avesse l’effetto, nei casi migliori, di imprigionarli in luoghi isolati, per poi lasciarli sfogare tutta la notte, magari sulle rive di un lago — ubriachi che delirano in un campeggio di folli. Nei casi peggiori, invece, capitavano incidenti.
La popolazione oggetto della protezione, in parte si barricava in casa, ma in parte si presentava nei luoghi “caldi” e, ordinatamente allineata dietro al cordone di sicurezza, attendeva di poter vedere i barbari in azione. Se fossero esistiti, ci sarebbero stati i cellulari alzati a filmare la scena, come accade oggi.
Naturalmente, come per tutti anche per gli Angels era strano andare al supermercato a comprare della birra e trovarsi circondati da gente che li osservava. Alcuni dei momenti più divertenti di Hell’s Angels sono proprio quelli in cui uno dei regolari ha il suo primo “contatto” con un membro della tribù.
Solitamente, i regolari rimanevano increduli quando la conversazione si rivelava un normale scambio di battute, o di domande e risposte. Quel contatto rompeva il fragile velo di timore che l’apparato dei media aveva steso per dividere il pubblico dagli Angels, i buoni dai cattivi, i giusti dai turpi.
Al contempo, lo stesso meccanismo che li isolava faceva sentire i fuorilegge un bersaglio facile, e per questo anche in loro si insinuava e rafforzava un senso di minaccia imminente e di persecuzione.
La paranoia
In Hell’s Angels, Hunter Thompson ha descritto questa condizione parlando di un Angel chiamato Dirty Ed:
“Non si fiderebbe di un giornalista più di quanto non farebbe con uno sbirro o un giudice. Per lui sono tutti la stessa cosa, servi della diabolica cospirazione che l’ha tormentato per tutti questi anni. Lui sa che da qualche parte al di là del fossato, il Grande Sbirro ha scarabocchiato il suo nome sulla lavagna della Grande Sala delle Conferenze…”
Hell’s Angels
Poi, di un altro Angel chiamato Terry the Tramp, Thompson ha raccontato che:
“…prese subito dell’LSD e passò le dodici ore successive chiuso nel retro di un furgone, gridando e piangendo terrorizzato sotto lo sguardo di un dio che aveva quasi dimenticato, ma che quella notte scese fino alla cima degli alberi ‘e mi fissava, amico, stava lì e mi fissava, e io ero spaventato come un bambino’”.
Hell’s Angels
Più che di cosa gli Angels avessero paura, forse la vera domanda sarebbe: la paura di essere beccati — e nel libro c’è anche a chi toccò, tipo Ken Kesey, autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo — era semplicemente paura delle conseguenze che ne sarebbero derivate in termini di problemi con la legge?
Anche Thompson comincia Paura e disgusto, o le Cronache del rum, già in fuga, e continua a fuggire. Magari, nel caso specifico, scappa da un conto di hotel non saldato, e all’aeroporto o all’hotel successivo, appena arrivato, crede che qualcuno già lo guardi male. E allora scatta il suo tipico: “Vogliono beccarci. Dobbiamo andarcene da qui”.
Ma non era mai chiaro da cosa Thompson scappasse davvero, e il suo senso di persecuzione poteva prendere di volta in volta forme diverse, da uno stormo di pipistrelli che inseguiva la sua auto in mezzo al deserto, a un poliziotto, vero o presunto, che pareva voler arrestare proprio lui.
L’uso di stupefacenti e l’alterazione della coscienza conducevano puntualmente, tanto Thompson quanto gli Angels, dentro lunghi e oscuri tunnel di paranoie. Perché?
Cosa spingeva Hunter Thompson, proprio lo stesso giornalista che denunciava la degenerazione della controcultura in una cultura della droga fine a sé stessa, a sconvolgersi tanto da rendersi incapace persino di parlare, lasciando perdere lo scrivere?
Per la libertà
In quanto anarcoide impegnato a cercare qualcosa negli eccessi, soprattutto in quelli americani, Thompson doveva per forza scontrarsi con chi sorvegliava i confini che definivano, e definiscono, gli eccessi stessi; che si tratti della natura, con i limiti della tolleranza umana agli stupefacenti, o della legge degli uomini, con qualche divieto o tabù.
Benché Hunter Thompson sia stato piuttosto critico nei confronti dei guru della psichedelia (vedi Timothy Leary), nei fatti è sempre stato un adepto della ricerca assoluta, il che implicava necessariamente la messa in discussione di ogni principio. Oltretutto, la considerava una sua libertà in quanto americano.
(Curiosamente, l’essere “veri americani”, e perciò liberi, era una convinzione anche degli Hell’s Angels; tant’è che dopo aver pestato a sangue in più occasioni gli studenti pacifisti, che consideravano antiamericani, finirono col chiedere formalmente al presidente Johnson, per bocca del loro portavoce Sonny Barger — presidente proprio della sezione di Oakland — di essere reclutati in blocco come volontari per andare a combattere dietro le linee nemiche in Vietnam.)
Dalla descrizione di Hunter Thompson, però, esce fuori una società in cui gli uomini finiscono per incarnare ciascuno la peggiore minaccia per l’altro, più che una in cui ognuno persegue la sua idea di libertà. E forse è stato proprio per denunciare questo gioco grottesco di inganni, specchi e allucinazioni che in esergo a Paura e disgusto a Las Vegas si legge la famosa citazione di Samuel Johnson:
“Chi fa di sé stesso una bestia si sbarazza della pena di essere un uomo.”
This is America
Da un punto di vista storico, il principale lascito di Thompson è la sua cronaca partecipata del lato oscuro e dei fallimenti degli anni Sessanta. Una perla è il celebre “discorso dell’onda” (wave speech), magistralmente incastonato in mezzo alle allucinazioni di Paura e disgusto:
“Strani ricordi in quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque anni dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno un’epoca — quel tipo di culmine che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli Sessanta erano un bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga… ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza d’essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. […] C’era follia in ogni direzione, a ogni ora. Se non attraverso la Baia, allora su al Golden Gate o giù sulla 101 per Los Altos o La Honda… Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo…
Paura e disgusto a Las Vegas
E quella, credo, era la nostra ragion d’essere — quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta — tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivio noi; stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa…
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea — quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro.”
Thompson si è goduto il sole e gli acidi, ma in sottofondo si sentivano i mitra del Vietnam, la decadenza dei Doors e la follia della Manson family.
(Forse, una domanda che abbraccia tutto il lavoro e magari anche parte della vita di Hunter Thompson, potrebbe essere: se il fallimento di una società porta a una rivoluzione, a cosa porta il fallimento di una rivoluzione?)
Benché la sua indagine sopra e oltre i confini della libertà sia cominciata prima, è in Paura e disgusto a Las Vegas che si trova una vera e propria autopsia del sogno americano, uno studio delle sue budella bulimiche che ne misura eccessi e limiti, per smascherarne i falsi successi.
Grazie alle sue droghe-feticcio, Thompson ha visto le insegne giganti di Las Vegas per quello che sono: falsi idoli in forma di denaro, successo, potere e piacere — americanissimi dèi sempre nuovi e sempre vecchi, da venerare e seguire, per cui uccidere e morire. Ed è questa la visione che gli ha procurato paura e disgusto, soprattutto perché dietro vedeva all’opera una regia.
Da cronista appassionato e feroce dell’epoca Nixon, Hunter Thompson ha sempre pensato che ogni affermazione di verità e giustizia fatta dal potere politico sia solo parte di una Grande bugia. E la sua sacra quanto ingenua missione di giornalista che trascinava in giro per l’America valigie piene di fogli, registratori, macchine da scrivere e droghe, era proprio smascherarla in nome della Verità, per quanto orribile potesse rivelarsi.
Primo e ultimo gonzo
Nelle sue pagine migliori, Hunter Thompson è uno scrittore satirico di livello, soprattutto in Paura e disgusto, con argomenti, stile e documentazione da vero giornalista d’inchiesta, soprattutto in Hell’s Angels. Mescolando un taglio e un metodo da reportage con la narrazione in soggettiva, è riuscito a illustrare una società lacerata dai conflitti, e allo stesso tempo a far vivere insieme al narratore la paranoia che essa produceva. Ed è proprio questa la cifra tipica del suo gonzo journalism.
Tra i suoi difetti, è giusto sottolineare che Thompson sembrava provare un interesse davvero minimo per i punti di vista femminili, e più in generale per le donne. Lo dimostrano i suoi resoconti dei presunti stupri commessi dagli Hell’s Angels, che oggi suonerebbero sessisti anche a Vittorio Feltri. (Ma va detto anche che nei casi delle accuse di stupro riportate, per l’effettiva inconsistenza delle prove non si è mai arrivati al processo.)
Inoltre, diversi suoi articoli erano tentativi di gonzo journalism andati a vuoto, e inoltre, come molti utilizzatori di droghe, era ossessivo, rapsodico e vanaglorioso, perciò i racconti delle sue peripezie possono facilmente soffocare, disorientare e stuccare.
La scrittura di Thompson non sempre è stata felice, ma il valore di gran parte dei suoi scritti non risiede nella lingua (al limite nello stile); piuttosto, nel loro essere cronache di prima mano di un’epoca, la seconda metà degli anni Sessanta, e di un paese, gli Stati Uniti, che, nel bene e nel male, hanno cambiato irreversibilmente il volto della cultura occidentale.
Per questo Hunter Thompson non merita di essere ricordato come un Pirata dei Caraibi qualsiasi.