Prima che il treno mi prenda guardo un tetto. Mi viene da pensare a George Harrison. Il palazzo deve appartenere a un lucchese trapiantato. Sul tetto c’è un leccio, come sopra la Torre Guinigi, l’edificio che Maurino amava di più. Il leccio può sembrare uno degli alberi più facili da riconoscere, ma non sempre è così. L’eterofillìa fa si che la pianta si adatti alle possibili insidie.
Per questo le foglie in basso sono più larghe, più dure, più spinose di quelle in alto.
Il parco del resort dove ho lavorato per trent’anni ospitava sessantadue lecci, ma la mia pianta preferita era il Callistemon citrinus. Ogni mattina arrivavo al parco alle 7. Potavo gli ulivi. Spuntavo il Cotoneaster. Concimavo ortensie e rose rugose. Rasavo i prati in modo da mantenerli a un’altezza costante di 1,5 centimetri. Toglievo i fichi marci caduti nel giardino delle tartarughe. Controllavo le gemme degli alberi da frutto. Ogni sera portavo a Sofia un fiore diverso. Ogni estate passavamo almeno due settimane in paesi di mare. Sofia sognava di vivere in una città etrusca con le mura gialle di tufo. Un sabato facemmo il test drive Audi, e il sorriso del concessionario mi trasmise la sensazione di essere davvero un potenziale cliente, forse quasi un uomo adulto. Quando il resort fu comprato da una grande azienda australiana, fui licenziato. Mi scrissero che desideravano un giardiniere biondo che padroneggiasse la lingua inglese più di me.
Conobbi Maurino nella prima notte di trasparenza. Mi ero buttato nel parco di piazza D’Azeglio.
Mi svegliò perché voleva mettere le cose in chiaro. Disse, io sono il boss, ma possiamo essere amici, basta che non sei della Juve. Il suo posto era dentro una siepe di lauro. Si era costruito una specie di casetta di legno e cartone, completamente nascosta dalle foglie. Disse che per il momento potevo stare nella siepe di bosso. Era più bassa e meno folta, d’accordo, ma col tempo, se mi fossi comportato bene, avrei potuto aspirare al cespuglio di ligustro, alla photinia, magari un giorno a un materasso sotto la muraglia compatta del cipresso di Leyland. Maurino era di Lucca e aveva studiato architettura, ma prima di laurearsi aveva conosciuto l’eroina. Si era trasferito a Firenze perché c’erano più eroina, più parchi dove dormire, più persone a cui chiedere soldi; ma soprattutto, diceva lui, per via dell’architettura. Lucca, certo, molto bella, in particolare la Torre Guinigi, ma vuoi mettere l’architettura e l’eroina di Firenze!
Maurino parlava di Giuliano da Sangallo come del Geometra del Paradiso;
di Brunelleschi come della Decima Dimensione;
di Buontalenti come del Duca degli Scherzi;
di Michelucci come del Re del Deserto.
Il nostro cesso era nell’aiuola di lavanda sotto un ippocastano gigantesco. Sotterravo tutto, come avevo visto fare al certosino, al tigrato mackerel e al tigrato rosso che erano diventati nostri amici. Qualcuno invece portava fuori il cane e lo faceva defecare apposta vicino alle nostre siepi, oppure raccoglieva gli escrementi con una paletta e li gettava più vicino possibile a dove dormivamo. Ogni mattina all’alba mi lavavo alla fontanella, anche a gennaio, quando si riempiva di piccole stalattiti di ghiaccio e centellinava l’acqua in gocce lente. Portavo ancora una giacca a disegni Burberry che aveva solo tre strappi. Maurino scopriva la dentatura bucherellata e mi diceva Salve, Principe. Nei venerdi d’estate un gruppo di ragazzi con il parka ci portava pizze e birre fresche. Per il resto, dai cassonetti e dai cestini si poteva raggranellare almeno un pasto al giorno. Quando l’albergo a cinque stelle che risplendeva sul lato buono della piazza buttò in strada una vecchia cassetta degli attrezzi, trovai cesoie, forbici, pinze, vernici ed elastici. Cominciai ad occuparmi del parco della piazza. Ridipingevo le ringhiere della giostra. Toglievo i ributti ai tigli. Ripulivo gli arbusti secchi. Spazzavo via i mucchi di foglie cadute dai platani. Raccoglievo cartacce e plastiche abbandonate. Potavo le siepi in modo che avessero contorni curvi e precisi come quelle del Parc Guell nei giorni dell’ultimo viaggio insieme, prima che finissero gli ultimi risparmi e Sofia se ne andasse. A volte Maurino mi portava in un internet point per scaldarci e guardare dei video. Mi faceva vedere il finale di un film famoso dove John Travolta diceva “No, Jules: tu hai deciso di fare il barbone; come quei pezzi di merda là fuori che chiedono uno spicciolo, dormono nei cassonetti e mangiano quello che butto via io; c’è un nome per questi, Jules: si chiamano barboni. Se non avrai un lavoro, e poi una residenza, dei soldi in tasca… È questo che diventerai: una merda di barbone”. Maurino rideva alle lacrime. Poi mi faceva vedere un grande attore comico, nel ruolo di un pazzo che sottometteva un giovane e gli diceva “Tu hai fatto una scelta, finalmente; di lasciarti tutto alle spalle. Hai scelto di essere un barbone, si, perché no? un barbone di Dio”. Maurino rideva sempre di più, finché non ci sbattevano fuori. La mattina ricominciavo a mettere ordine nel parco. Gli operai comunali a volte venivano verso di me e impugnavano il rastrello come fosse una mazza da baseball. Dicevano che stavo rubando il lavoro a loro. Le signore con capelli laccati bianchi o violacei ci giravano alla larga e si sussurravano cose all’orecchio. A volte ci rivolgevano la parola alcune studentesse con vestiti particolarmente colorati. Maurino diceva che lo facevano solo perché avevano deciso che eravamo bestie degne di simpatia, allo stesso modo di chi preferisce i gatti ai cani. Ma prova a chiedergli di andare a prendere un caffè, diceva.
Una notte arrivò un gruppo di ragazzi, ma non erano quelli della birra. Dissero qualcosa a proposito della pulizia, del decoro e dell’identità. Pensai che il triste destino della trasparenza, è di non poter essere integrale. Maurino chiese loro se conoscessero Leon Battista Alberti, o Giuliano da Sangallo, o Benedetto da Maiano. I ragazzi ci dissero che eravamo la merda del mondo. Maurino gli urlò Bastardi, non sapete niente neppure dell’identità di cui vi farcite quei cessi di bocche. I ragazzi lo inseguirono fino al campo di calcetto e lo pestarono coi bastoni. Quando arrivarono le guardie, i ragazzi erano spariti da un pezzo. Mentre lo portavano via, Maurino mi guardò scoprendo la dentatura bucherellata e insanguinata, e disse Io sono il boss; loro sono della Juve. Quella notte, mentre piangevo e cercavo di addormentarmi dentro la casetta, vidi tra le sue cose una bustina giallognola. Dopo aver aspirato, vissi di nuovo tutti gli orgasmi avuti con Sofia, tutti insieme, tutti in una volta. All’alba però ero di nuovo solo, e anche il certosino e i piccioni se ne stavano più lontani. Qualche ora dopo si presentò alla siepe un uomo vestito di blu. Disse che era un inviato di Vanity Fair. Disse che voleva intervistarmi. Provai a prenderlo a calci. Mi mancarono le forze. Mi dovetti sedere sul cofano di un’auto bianca. Il tassista prese a calci me.
Fa un freddo cane. Il gelo della notte non è diminuito. Esco dalla siepe. Lascio lì il sacco a pelo lurido. Se gli altri non mi vedranno tornare, se ne impossesseranno entro stasera. Trascino per la città i miei piedi informi. Due giorni fa le dita erano gonfie e nere per via del freddo. Già non le sentivo più. Entro in stazione. Maurino considerava la stazione una fortezza spuntata dal deserto: il capolavoro di Michelucci. Vado verso i binari. Le guardie ai tornelli mi bloccano. Dopo un decennio di trasparenza, si è abituati a essere interpellati solo da altri barboni, o da un paio di suore, o da qualche picchiatore. Le guardie mi spingono via. Dicono che non posso passare. Dico loro che devo solo andare ad ammazzarmi. Mi dicono che serve il biglietto lo stesso. Dopo due ore di elemosine, posso comprare un biglietto per Lucca e superare i tornelli. Le guardie mi disprezzano ma non mi possono più bloccare. Prima che il treno mi prenda guardo il tetto. C’è un leccio, sul tetto, e mi viene di pensare a George Harrison. In occasione del concerto sul tetto, George indossava pantaloni verdi. Ringo era avvolto in un impermeabile rosso di plastica, e come sempre sembrava non appartenere del tutto al contesto. John portava una pelliccia corta da donna. Non si esibivano dal vivo da tre anni. Sul tetto era un giorno di ghiaccio come questo. Eseguirono la versione più incredibile di Don’t let me down. Le chitarre suonavano lente nel vento gelido mentre John cantava “Everybody had a good time. Everybody had a wet dream. Everybody let their hair down. Everybody saw the sunshine”. La polizia arrivò e li interruppe. Suonarono Get Back una seconda volta. John fece per andarsene, poi tornò al microfono e disse: ‘Vorrei dire molte grazie a tutti quanti, da parte della band e da parte mia. Speriamo di aver superato l’audizione”. La band si sarebbe sciolta in meno di un anno. Qualcuno scrisse che John voleva stare in un sacco, e Paul voleva vivere in una fattoria o qualcosa del genere, ed è difficile portare avanti un rapporto quando si è così diversi, e uno dei due è in un sacco.