Abbiamo intervistato lo scrittore Francesco Pecoraro in occasione della recente uscita del suo Nodulo (Tic Edizioni), un libretto in versi corredato da disegni originali dell’autore che riprende la strada della poesia già battuta nel 2012 con Primordio Vertebrale (Ponte Sisto).
Pecoraro è un autore essenziale della narrativa italiana contemporanea che diventa scrittore di professione in una seconda vita, iniziata ufficialmente nel 2007, quando Mondadori pubblica la sua prima raccolta di racconti Dove credi andare, ora disponibile in versione elettronica per l’editore Ponte alle Grazie.
Nel 2008 pubblica Questa e altre preistorie (Le Lettere), un’opera di prose a metà tra la saggistica e la narrativa, che raccoglie gli appunti sparsi tra la scrivania e il blog personale e che anticipa i temi dei suoi successivi due romanzi, La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) e Lo stradone (Ponte alle Grazie, 2019).
Abbiamo parlato con lui di un’abbondanza di argomenti che il lettore ritrova facilmente sia nella sua opera ufficiale che negli scritti personali su blog, riviste e social.
È di poche settimane fa l’uscita per Tic Edizioni di Nodulo, un tuo breve poema corredato da una dozzina di disegni che ha come tema di fondo la malattia e lo sconvolgimento delle percezioni che arriva quando ti dicono che, sì, è probabile che ci sia la Malattia Vera. (Nodulo esiste / Soverchia schiaccia ogni cosa intorno / Azzera ogni proposito… / Tutto annientato / Dal campo gravitazionale / di Nodulo distruttore / Di realtà possibili…)
Nodulo non è una riflessione filosofica seriosa sulla paura della morte ma un esorcismo letterario-visuale, un modo di vuotare il sacco, “perché la malattia va detta”.
Nodulo non è una cosa sulla paura della morte, è paura della morte verbalizzata. Più precisamente è paura del morire, del procedimento che serve per lasciare il mondo, che può essere rapido veloce indolore incosciente—come fu per mio padre che morì nel sonno—, oppure lungo doloroso straziante lancinante—cioè patimento e terrore—come fu per mia madre.
Nodulo mi prometteva lo standard della morte oncologica, che varia di caso in caso, una lunga terapia che lentamente cede al male, fino a lasciare la presa. Nodulo è l’angoscia della pre-figurazione. Qualcuno ha detto che solo chi ha immaginazione può provare davvero paura. Questi sono giorni mesi anni difficili, in cui praticamente ogni giorno sono aggredito dall’immagine di una mia possibile causa di morte con relativo procedimento. Nodulo fu l’annichilimento, l’umiliazione di un corpo che si credeva, si immaginava, si auto-supponeva come qualcosa di ancora sano, anche se fortemente sbullonato, una vecchia automobile con molti chilometri sulla groppa, ma tutto sommato ancora capace di andare, che improvvisamente mostra sintomi di una lesione irreversibile, di quelle che il meccanico ti dice “Nun so’ se je conviene: con quello che c’è da spende per metterla apposto se ne fa una nuova”. La metafora è banale. L’umiliazione, lo stordimento successivo alla rivelazione che trattavasi di altra cosa rispetto alla Malattia, furono reali e durarono mesi di rapporto sommesso con l’acqua e con la scrittura, durante i quali lavorai a Nodulo senza assolutamente sapere dove andare né cosa farne. La cosa mi aiutò, perché—nonostante venga ripetuto ovunque e sia un luogo comune—è vero che la scrittura ha un suo lato terapeutico. Riletto oggi avrei voglia di modificarlo, ma per rispetto di quella che per me è una sacralità privata, non lo tocco. Cioè non l’ho toccato. Le tavole fuori testo le abbiamo inserite con Emanuele Kraushaar, l’editore, e Michele Zaffarano, l’editor (entrambi per conto loro ottimi e veri poeti), per rimpolpare un libretto altrimenti troppo sottile. Abbiamo pensato parecchio a quali scegliere per non insistere troppo sul macabro. Non so se ci siamo riusciti. Sono tutti disegni a inchiostro—un paio sono digitali—che risalgono a qualche anno fa.
Poi sì, è vero che la malattia va detta, verbalizzata immediatamente. Sono pochi quelli che la tengono per sé: nei film americani può capitare che una figura protagonistica vada dal medico, apprenda la diagnosi infausta e non dica niente a nessuno. Quando poi magari si sente male, dice che forse ha mangiato troppo. Ecco, queste credo siano essenzialmente cazzate. Chi sta male ha bisogno di dirlo, di scaricare la paura, di rastrellare notizie sulle possibili terapie, sui medici più bravi, sulle strutture più affidabili. La gente sul marciapiede, al bar, nelle sale d’aspetto, al telefono, non fa altro: parla di malattie, proprie e altrui.
Il protagonista unico de La vita in tempo di pace è Ivo Brandani, ingegnere civile impiegato per una società che realizza grandi opere.
Brandani è il tipo umano che comunemente si definisce tecnico, ovvero una persona da cui la gente, oltre che competenze specifiche, si aspetta che sappia risolvere problemi anziché porli. Tuttavia la formazione di Brandani è ibrida; convertito al sapere pratico dopo le disillusioni ideologiche post sessantotto, Brandani ha una formazione e una visione del mondo anche umanistica, tipicamente novecentesca. In lui, come nel romanzo, coesistono – e dialogano di continuo – una filosofia della storia e una storia della specie. Il risultato di questa ibridazione formativa è un lungo e continuo rimuginare, un’osservazione speculativa del mondo e di sé stesso, un’incessante analisi, che è anche sincero autosputtanamento.
Il romanzo mette subito alcune carte in tavola dicendo che Brandani è ossessionato dal senso della catastrofe. Il fatto storico che magnetizza la sua ossessione è l’assedio di Bisanzio del 1453; la caduta dell’Impero, nella prime e bellissime pagine del prologo, viene letta in senso darwiniano come fosse stata l’invasione parassitaria di un corpo sociale estraneo e infestante, ovvero come una delle infinite manifestazioni della dinamica che regola la vita di organismi ed ecosistemi a livello biologico.È difficile non chiedersi quali considerazioni avrebbe fatto oggi Ivo Brandani sulla pandemia da Covid19, sullo spillover, sul negazionismo (ma forse vorremmo sentire le sue opinioni su Tutto); i fatti dell’ultimo anno hanno ribadito (anche ai più duri di comprendonio, anche a chi continua a vederla in altro modo) che l’Uomo non è al centro di un bel niente, che siamo parte di un inesorabile meccanismo di sopraffazione, conflitto e adattamento ma che l’orologiaio è cieco. Brandani si sarebbe fatto trovare pronto ad interpretare un evento-mondo del genere?
L’idea dell’ossessione per la caduta di Bisanzio l’ho letta nell’intervista a uno scrittore sud-americano di cui non ricordo più il nome, che la considerava l’evento più importante degli ultimi 500 anni. Poi, leggendo testi storici e relazioni coeve all’Evento, ne ero rimasto molto colpito e suggestionato: una catastrofe irreversibile, non ricomponibile, con conseguenze di lunghissima durata. Ho esteso la mia costernazione per la caduta di Costantinopoli a Ivo Brandani e al suo maniacale prevedere il peggio anche in una normale situazione. Un bicchiere che si rompe è un enorme passo verso lo stato di entropia dell’Universo e soprattutto è il fallimento della particolare missione umana che è costituita dal costruire quel bicchiere, traendo la forma dall’informe, mettendoci energia, sapienza, esperienza tecnica, scienza, cioè investendoci le uniche cose che davvero contano e che portano avanti la Storia. La visione darwinista dell’evento-conquista, non ricordo più se di Brandani o del narratore—per molti anni ho furiosamente letto libri divulgativi neo-darwinisti attraverso i quali, molto più che con il marxismo, ho costruito una visione del mondo: arrivati a una certa età un’idea del mondo tocca farsela, non si può andare avanti per sempre con le favole della religione della politica dell’ideologia, cioè dell’umanismo—è un tentativo di prescindere dal puro dato storico evenemenziale e di radicarlo invece nella successione infinita di sopraffazioni che è la principale caratteristica della vita sulla terra. Un amico biologo, specializzato nel ramo, mi aveva regalato un manuale di parassitologia. Era stata una lettura talmente affascinante e forte che non riuscii a tenerla fuori del libro, dove entrò di forza determinando la fine di Ivo Brandani.
Un virus come il Covid è sicuramente un parassita, il cui scopo non è uccidere, ma sfruttare le risorse altrui e riprodursi all’infinito. Non è lui a ucciderci, siamo noi che ci suicidiamo reagendo con troppa violenza alla sua intrusione: così almeno ho capito. Del Covid mi affascinano due cose: il fatto che noi umani costituiamo il suo intero universo conosciuto (non credo allo zibetto, né al salto di specie, cioè ci credo, ma preferisco la fuga del virus da un laboratorio segreto nascosto nelle montagne a nord ovest della Cina, come nei film) che abbia agito da rivelatore di quanto la medicina ci tenga in vita oltre scadenze biologiche più ragionevoli degli 80-90 anni di oggi. Covid non sa niente di tutto questo, non ha preferenze, uccide senza volere e contro il proprio interesse, perché lui muore con noi. Vista la sua età, probabilmente Brandani sarebbe morto. E poi naturalmente c’è l’ennesima inutile rivelazione sulla vera natura delle società in cui viviamo. Ma il discorso si allunga. Mi limiterò a citare ancora una volta a memoria la Thatcher: “La società non esiste, esistono solo gli individui”. Covid-19 ce l’ha detto e ripetuto, fino alla noia. La vita si nutre della vita, vegetale o animale che sia e anche le società, per quanto sfruttino risorse naturali e allevino sadicamente miliardi di creature, si nutrono di altre società e/o di sé stesse.
Tu hai lavorato nel settore pubblico per anni e nei tuoi romanzi lo hai spesso raccontato come una complessa macchina del ristagno, un motore che opera per mantenere uno stato di media immobilità, bilanciando l’operosità e la precarietà del mondo fuori, quello imprenditoriale, quello dell’arrangiarsi e della competizione vera. Oggi la precarizzazione del lavoro è, almeno per chi ti sta parlando, una condizione nativa, ovvero “noi” siamo entrati nella dimensione lavorativa da precari e ci siamo ancora dentro fino al collo senza renderci bene conto delle accelerazioni e dei cambiamenti. Ci siamo fatti prendere alla gola dalla passion economy, dilatando al massimo le nostre giornate lavorative convinti che ognuno di noi avesse un fantastico e unico destino imprenditoriale da compiere, nel nome della creatività. La mentalità da startup è diventata la valvola di sfogo per le energie di una generazione che non ha più la politica come orizzonte di senso: sono i prodotti o i servizi bellissimi che creiamo con la nostra passione e creatività che possono cambiare il mondo!Siamo agli opposti diametrali dell’idea di lavoro: pensi che tra l’immobilismo da posto fisso, per come la descrivono i protagonisti dei tuoi romanzi, e il dinamismo precario delle nuove professioni, ci possano essere una mediazione o dei punti di incontro sani?
Diciamo che l’idea di un Novecento felice dove tutte le porte erano aperte e si poteva entrare uscire dal pubblico verso il privato e viceversa è un classico mito delle generazioni post-novecentesche. Invece la vita in tempo di pace dalla fine degli anni ’60 in poi, cioè da quando ho iniziato personalmente a sperimentarla, era dura, durissima già per noi laureati privilegiati di estrazione borghese, tanto più lo era per proletari e sotto-proletari. Anch’io negli otto anni in cui tentai di avviare un’attività da libero professionista agganciato all’università (se si puntava a fare architettura di ricerca senza un posto all’università non si sopravviveva) sperimentai a lungo una passione furibonda per il mio lavoro, vagheggiai inevitabili successi e tornai a casa regolarmente alle dieci di sera: ma per ragioni su cui qui non mi dilungo dovetti arrendermi al posto fisso in Comune. Fu un fallimento totale, anche se poi nel corso degli anni riuscii a realizzare qualcosa, persino in piena città storica. La pubblica amministrazione è un luogo molto interessante, perché tutti quelli che vi lavorano lo fanno perché lo vogliono fare, non perché debbono: nessuno può licenziarti quindi perché lavorare se non ti va? Fuori di lì, si poteva guadagnare molto di più, ma c’era l’inferno dell’incertezza, la lotta per la vita: non tutti sono portati a battersi, non tutti sanno difendersi, la maggioranza delle società, per come le conosciamo, è fatta da una massa di inerti, gente senza passione né interessi né ambizione, oppure da falliti come me: la pubblica amministrazione è (era?) un ricovero, un posto caldo che ospita gente senza arte né parte, oppure parassiti intenzionati a farsi corrompere alla prima occasione, oppure tutte e due le cose. Però quello che ho capito è che la qualità del prodotto del privato non è da considerarsi a priori migliore di quello della P.A., anzi. Insomma P.A. non è sinonimo di merda, come la maggior parte della gente pensa. Anche qui, discorso lungo.
Per quasi tutti noi la vita fu una ricerca disperata della stabilità economica, una lotta a morsi per accaparrarsi porzioni di risorse capaci di farci vivere decentemente. Oggi non è diverso, ma non c’è stata un’Età dell’Oro del secondo Novecento. La precarietà ha sempre fatto molto comodo al capitale—ti metto al lavoro quando, dove e per tutto il tempo che mi conviene, poi fuori dai coglioni. Mio padre era un costruttore. Ero ragazzino e ricordo quando diceva che finito un cantiere gli operai sarebbero stati licenziati, tranne uno o due, ed eventualmente riassunti all’apertura di un nuovo cantiere: i padroni facevano come cazzo gli pareva perché il sindacato era debole. Quando diventò più forte la precarietà operaia fu fortemente ostacolata fino all’ottenimento di una carta dei diritti del lavoro, oggi praticamente abolita. In un racconto di cui non ricordo il titolo (1), ho immaginato l’esistenza di un precario totale in un mondo interamente privatizzato, dove paghi un biglietto anche solo per camminare sul marciapiede. Un mondo del genere sarebbe possibile già adesso, grazie agli algoritmi e alla connessione permanente. Il Covid ha allontanato questa tendenza, ma tornerà presto: mi sono reso conto di una cosa ovvia e cioè che, se politica e cultura non lo ostacolassero, il capitale tornerebbe tranquillamente a praticare la schiavitù, come già sta facendo nelle campagne del Sud d’Italia.
Da quando ho deciso che il mondo è orrendo ho sempre voluto dirlo, ma non l’ho mai fatto con la violenza che l’argomento meriterebbe.
(1) “La città indiscussa”, Nuovi Argomenti, 68, ottobre-dicembre 2014. (n.d.r)
Mentre la Città di Dio è funestata da piogge torrenziali Ivo Brandani sta per insediarsi in Comune come responsabile all’urbanistica di un distretto centrale della città. Nel suo primo giorno di lavoro lo vediamo muoversi nel rocambolesco tragitto da casa all’ufficio. Le immagini del fiume in piena lo colpiscono; ne immagina le profondità immonde solcate da caverne piene di detriti, rottami, manufatti millenari, armi e vortici d’acqua così torbida da non vedere a trenta centimetri di distanza. Si ricorda di aver letto di recente che nei fiumi melmosi dell’Amazzonia vivono dei pesci gatto ciechi che si orientano nel buio grazie ad una complessa rete di sensori, simili a papille gustative disposte su tutto il corpo, attraverso cui assaporano l’ambiente circostante; trova perfetta l’immagine del pesce mutante che gusta l’acqua in cui nuota per spiegarsi le capacità di sopravvivenza dell’Uomo Politico nel suo contesto sociale.
Questa immagine sembra più che mai attuale se si pensa che la politica ai tempi del web tende ad adeguare il suo discorso alle statistiche di gradimento della rete, più che a proporne uno chiaro e assertivo. Quando il tuo primo romanzo veniva pubblicato erano alle porte gli anni che, dopo la Brexit e l’insediamento di Trump, hanno sancito l’ascesa dei nuovi populismi in 140 caratteri (e non solo); quali sono le mutazioni del discorso politico che ti hanno colpito maggiormente negli ultimi anni?
Più che di mutazioni parlerei di fine del discorso politico inteso come opposizione dialettica tra diversi progetti di società. Da Berlusconi in poi—è lui il Cominciatore—i progetti si sono via via de-strutturati riducendosi in frammenti e il dibattito pubblico si è ridotto a una contrapposizione falsificata dall’assenza di ideologie, dove ci si scagliano come sassi questi frammenti, ormai inutili perché privi di vero senso politico. Ciò accade perché il consenso verso l’assetto economico-sociale contemporaneo impregna sia la destra che la sinistra, ormai in orbita attorno a un centro generatore di ideologia, cioè di un liberismo inflessibile nella sostanza, apparentemente elastico e adattabile nella forma. Potrei andare avanti a snocciolare questi luoghi comuni analitici—corretti nella sostanza—, ma mi fermo perché sono scritti un po’ ovunque.Non so se il populismo sia o no passeggero, ma so che ha impregnato di sé, in modo più o meno profondo, tutte le forze—chiamiamole così—politiche. Cosa sono le primarie se non populismo? Com’è possibile scegliere il leader di un partito sulla base del consenso di massa, che come si sa è passeggero, superficiale e sostanzialmente imbecille? Eppure è stato concepito e attuato, proprio dal PD, il partito all’epoca apparentemente più somigliante all’idea e alla forma di entità politica aggregante. Si disse fossero un bene. Anch’io lo pensai. Erano solo un annuncio, un’anticipazione dell’uno vale uno. Il berlusconismo aveva già fottuto tutti. Ma nell’epoca in cui il capitale, detentore dei media e dell’informazione, può agire senza mediazioni sulle nostre menti, ottenendone gradualmente sempre più consenso, il fenomeno non è il populismo, ma il consenso che agisce dentro e attraverso il populismo, il sovranismo, l’egualitarismo, l’ambientalismo, eccetera, tutte vernicette che non toccano la sostanza del sistema, neanche marginalmente: pensare una patrimoniale è eresia, sospendere i brevetti anche: ce lo deve dire Biden, cioè colui che in questo momento è a capo dell’Impero, che possiamo pensare di farlo, anche se naturalmente non lo faremo. Sono solo esempi di increspature sull’onda lunga di un capitalismo che in forma principalmente finanziaria vive una fase storica di massima espansione. Come andrà a finire, al netto di virus, meteoriti e catastrofi imprevedibili, forse ce l’ha già detto lo scrittore cyberpunk William Gibson. Quanto poi a i fenomeni di effimero successo comunicativo di personaggi tangenziali alla politica, direi che non determinano, ma sono determinati dalla pappa informe del discorso pubblico, che mescola ciò che è apparentemente diverso come pop music, fiction verbo-visiva, paraletteratura, umanitarismo, fascismo, dandoci ancora una volta la prova che tutto, assolutamente tutto, è politica. Vecchio discorso anni ’70, che ho recentemente riconosciuto in un bel pezzo di Pannella ripubblicato da “Il Foglio”.
La vita in tempo di pace termina con Ivo Brandani che fa le sue ultime considerazioni osservando il Paese dall’alto, sul volo di rientro dall’Egitto; mentre guarda fuori dall’oblò, nauseato e oppresso dal malore montante che entro breve lo porterà alla fine della corsa, riconosce di essere sopra l’Italia dalle strutture disarticolate di campi, boschi e agglomerati urbani. Un paese che dall’alto, nelle forme disorganizzate della sua geografia, gli rivela la mancanza di disegno razionale complessivo. È l’ossessione di sempre che si ripresenta un’ultima volta alla mente di Brandani; la visione lucida e al tempo stesso nevrotica del Paese mancato.
Inserto della redazione
Nella sua ultima invettiva privata contro le visioni del mondo spiritualiste, il tecnico-filosofo dice a sé stesso che “(…) l’ordine morale non nasce da dentro, nasce dalla costruzione e dalla gestione del fuori di noi… è la norma che costruisce l’etica e non il contrario. Ed è prima di tutto la norma ordinativa del visibile… a generare pulizia morale”: una dichiarazione di inautenticità assoluta dell’individuo, che è solo prodotto di ciò che da fuori, dalla cultura, proviene. Brandani conclude il suo ragionamento (e il romanzo la sua parabola) argomentando che se tutta l’opera umana porta con sé, oltre a un risultato visibile positivo (il paesaggio, l’opera umana in genere) anche un materiale di scarto meno visibile (lo scempio), se nemmeno l’ordine naturale ha più nulla di originario e forse mai lo ha avuto, allora tanto vale credere nella finzione suprema. E allora se così è, conclude: “Voglio che si rifaccia la dannata Amazzonia in pasta di mandorla”.
Troviamo molto del materialismo darwinista di Ivo Brandani nel personaggio del tuo ultimo romanzo, Lo stradone, anzi sembra che i capitoli sincronici de La vita in tempo di pace continuino idealmente nella lunga osservazione del reale dello Stradone. Tuttavia Lo stradone ci presenta un personaggio meno incazzato con il mondo, sicuramente più distaccato dagli eventi.
Brandani muore prima della pensione, mentre il personaggio unico de Lo stradone è dentro alla pensione e passa le sue mattinate ad osservare il ritaglio di galassia umana e urbana intorno al suo quartiere; la sua attività principale è scrutare “un paesaggio immobile e però punteggiato da micro-avvenimenti significativi, ma solo per me”.
Brandani non crede all’esistenza dell’individuo. L’individuo e le sue libertà, anche di pensiero, sono alla base delle democrazie occidentali, nate dal pensiero illuminista, ma l’esperienza dice a Brandani che gli individui sono rarissimi e che tutti noi siamo per lo più dei gregari, con pochissimi aspetti originali generalmente dovuti a mutazioni genetiche. Quindi le democrazie sono basate su due menzogne.
La prima è appunto l’esistenza dell’individuo pensante capace di farsi una vera opinione, cioè di ragionare lucidamente su ogni cosa. La maggior parte di noi semplicemente si aggrega, perché la nostra occupazione principale è vivere e il pensiero lo esercitiamo, solo ed eventualmente, nell’ambito ristretto del nostro lavoro, delle cose vicine che dobbiamo fare o che ci stanno a cuore. Nel caso felice dei roboti della Sacca (2), l’ideale socialista si legava alla loro condizione emarginata e sfruttata: pensare una società diversa era un’attività aggregante e allo stesso tempo generatrice di speranza: un giorno le cose sarebbero cambiate, loro le avrebbero cambiate.
La seconda è che si tratti di governi del popolo, invece che una forma diversa di governo delle élite. Le stesse élite di cui adesso, nella gestione della crisi sanitaria, si sente la mancanza. Dimenticando che non si tratta di figure neutre, ma di ceti fortemente ideologizzati che tendono a trasformare la società secondo le proprie convinzioni e soprattutto secondo i propri interessi di classe. Qui mi fermo.
L’uomo dello Stradone mi sembra non si avventuri in questo tipo di considerazioni, ma anche a lui l’esperienza, vale a dire il Bar Porcacci, dice più o meno le stesse cose. Cose che ogni politico di esperienza sa bene.
(2) “La Sacca” è il nome allegorico con cui nel romanzo ci si riferisce al quartiere romano di Valle Aurelia, storicamente uno dei più importanti insediamenti operai di Roma. A Valle Aurelia sorgevano le fornaci che hanno prodotto i mattoni con i quali, fino al secondo dopoguerra, è stata costruita la città. Ne Lo stradone si scava a fondo nella storia della Sacca, a partire dai decenni a cavallo tra Ottocento e il primo Novecento, quando la vita del quartiere era scandita dal lavoro durissimo dei fornaciai, dalle attività sindacati e dalle idee rivoluzionarie, fino ad arrivare al secondo dopoguerra, e alle trasformazioni, sempre più veloci e meno comprensibili, in atto negli ultimi decenni. (n.d.r)
Sullo Stradone si osserva lo scorrere del tempo, il respiro delle trasformazioni più ampie. Un esempio sono gli ultimi vent’anni. Cosa è successo, negli ultimi vent’anni?
“Un Ristagno, che è biologico ma anche di idee, come una pausa collettiva di pensiero in cui tutti sembrano volersi riposare. Prima volevamo esser lasciati in pace davanti ai nostri reality, poi davanti al pc nei nostri social di appartenenza, nelle nostre liti virtuali con gente mai vista ma che è lì, a portata di mano dentro il display, stordita, ipnotizzata come te, da te”.
Si tratta di una specie di riflusso infinito, scandito soltanto dalle fasi di crisi economica, dai crolli e dalle riprese del Pil? E perché, secondo te, in questa pausa del pensiero si ha comunque la percezione di generalizzata stanchezza o aggressività, la sensazione, molto evidente nel mondo dei social e ben sfruttata dalla politica, che la gente non ce la faccia più?
Un po’ è vero, ma solo perché il rapporto giovani/vecchi si sta velocemente modificando in favore di questi ultimi: i giovani hanno energie ma non sanno dove applicarle, i vecchi le hanno perse e non hanno più voglia di prendere iniziative. Risultato: il Paese sembra in mano alle mezze età, quelle tra i 50 e i 65 anni; forme mascherate di anzianità, perché gli umani il loro iter lo impostano ben prima e tra i 50 e i 65 i giochi sono più o meno fatti. Naturalmente parlo di ceti che hanno accesso alla mobilità sociale, non di quelli che dove sono restano per tutta la vita e che anzi, spesso regrediscono verso la miseria. Non so di economia e di Pil, però penso che in fondo Sinistra è tutta nel dire Casa Lavoro Istruzione Sanità per tutti. Ma nessuno oggi riesce a dirlo, trincerandosi dietro le enunciazioni a costo zero sulle diseguaglianze, sulle leggi contro l’omofobia, sul fatto che i migranti non devono affogare, sulle quote di donne da inserire ovunque, e altre cosette marginali, mentre quello che una volta si diceva il Sistema resta libero di trasformare e trasformarsi a suo piacimento: dove va il profitto andiamo tutti noi, nessuno escluso. Da qui la sensazione di stanchezza. Viviamo sballottati dal virus e dal potere economico, che gestisce quello politico, in un’apparenza di cambiamento, ma solo nelle tecno-modalità del quotidiano, delle comunicazioni, dell’infiltrazione costante dell’internet in ogni cosa che abbiamo facciamo possediamo desideriamo. Ma la sostanza delle cose resta la stessa: una lotta per l’accaparramento delle risorse.
Il registro del protagonista de Lo stradone si muove sul confine dell’amarezza e dell’ironia, ma questo apparente disincanto cela un’osservazione della realtà così minuziosa e precisa, nella molteplicità delle sue forme – paesaggi umani, tendenze, rifiuti, costruzioni, dettagli linguistici, storia dei materiali –, che è capace di trasmettersi al lettore stesso. Leggendo si ha la sensazione di una osmosi per cui l’esattezza del pensiero del protagonista, il suo infallibile rimuginare, il suo interesse per le cose, diventano anche i nostri. Da qualcuno potrebbe essere definito un personaggio cinico, ma è un aggettivo corretto? Può esistere il cinismo, in presenza di un così forte coinvolgimento verso ciò che ci circonda?
Più che cinismo direi che si tratta di uno stato di accettazione critica, dunque dolorosa, del protagonista a fronte della velocità del cambiamento e soprattutto nell’osservazione ossessiva, costante, prolungata nel tempo—per fare il libro ho preso molti appunti fotografici, che poi sono diventati un’abitudine—di quella che definirei la manchevolezza delle cose, del sistema degli oggetti fisici come degli oggetti mentali. Niente, o quasi, è fatto/pensato come il protagonista vorrebbe che fosse. Data la sua formazione alla cultura visiva (laurea in storia dell’arte), la città circostante, la sua abitazione, gli dice molto della civiltà in cui è coinvolto, al punto che sogna di cancellarla, lasciando solo Farmacia Supermercato Ospedale e Libreria (che non c’è), costituenti i suoi capisaldi vitali: di tutto il resto crede non gli importi più nulla, ma in realtà è pieno di memorie dolorose. Mentre si aggira nel brutto, osserva con attenzione vergognosamente lasciva le donne che, passando, non lo degnano di uno sguardo: è fuori del gioco della vita e della riproduzione, ma anche da quello della produzione: è diventato un peso e una risorsa per il sociale circostante, che in gran parte è costituito di umani della sua generazione. Può solo vivere e spendere la pensione, cioè fare da tramite tra lo Stato, che gli fornisce i soldi, e i punti di consumo. È lo Stato che, attraverso di lui, immette quattrini nell’economia dello Stradone, quindi del Paese.
La lingua de Lo stradone è una specie di parlato ideale, capace di unire, alla scorrevolezza schietta dell’uso vivo, orale, una precisione nella scelta delle parole che nel parlato è rarissima, forse impossibile. Tutto ciò è impreziosito da un lessico archetipico/fiabesco che permette di immergersi sia nel contesto geografico – dalla “Palazza” in cui vive il protagonista, al “Quadrante” in cui si muove, alla “Sacca” (individuabile nella zona di Valle Aurelia, già Valle dell’Inferno) che ne è l’estensione – che in quello storico: Valle Aurelia era la terra dei roboti, gli operai massa, non più artigiani ma vittime del conflitto capitale-lavoro, che sul finire del 1800, dalle fornaci della Sacca, ebbero un ruolo fondante nel costruire Roma capitale, che al tempo aveva centocinquantamila abitanti e crebbe in poco tempo in modo inverosimile.
Trattasi di monologo, quindi di un parlato interiore che avrei voluto fosse più gergale e dialettale. Ma non sono stato abbastanza abile. Il risultato aveva un che di desolante, quindi ho ripiegato su un linguaggio il più possibile preciso e scorrevole, con qualche inserto romanesco e con citazioni testuali appuntate nei vari locali della zona: brani di conversazione che continuamente ricordano al lettore, come fanno con me e con il protagonista della mia storia, che la città sociale—che quotidianamente si presenta con una terribile inerzia mentale—se ne frega di lui, del suo sforzo di capire, del futuro, del passato operaio, di tutto ciò che non coinvolge il presente e la sua gestione minuta: salute soldi la Squadra e quel che resta del sesso, la risonanza magnetica, la pressione, er diabete, er Cancro e, di recente e in modo assolutamente pervasivo, il Virus.
Il protagonista si chiede se esiste ancora chi crede che il paese vada cambiato; se esiste ancora chi crede che il paese “dovrebbe essere radicalmente diverso come cultura, assetto, comportamenti collettivi, distribuzione del reddito, qualità dei servizi, della scuola, della sanità, dell’habitat, dei mass media, del Sistema”.
Considera poi che i cattolici sono sempre stati per lo status quo, e che insieme agli inerti (i senza opinione) costituiscono una solida maggioranza a cui il paese piace così com’è. E conclude: “ci ho messo anni a capire che forse non c’era nulla di male a essere così”. Venire a patti con la realtà, e smettere di soffrire personalmente, quotidianamente, la frustrazione delle storture collettive impossibili da raddrizzare, è un ripiegamento egoistico? Un atto di salvaguardia della propria sanità mentale? Un traguardo, giusto anche moralmente, di aumentata tolleranza?
Tutte e tre queste cose. Con in più il raggiungimento di quella che al mio protagonista senza nome appare come una rivelazione: il progetto—ogni progetto, ogni forma di pre-figurazione dell’ambiente fisico e politico della città e del Paese, di ogni paese su ogni mondo pensabile di ogni galassia in ogni possibile universo—è destinato a fallire e che la città in cui vive testimonia chiaramente di questi fallimenti. Ma sa anche che tra un fallimento e l’altro può (ripeto può, non succede sempre) verificarsi un momento culturalmente e politicamente esemplare da ricordare e celebrare nei tempi successivi. Nel presente dello Stradone, per quanto lo riguarda, ma questo non è detto nel libro, l’unica cosa, l’unico oggetto fisico-mentale che riscuote la sua approvazione, è la scala antincendio di un istituto di cura che ha modo di osservare quando è fermo a un certo semaforo: è fatta talmente bene che si aggrappa a quella scala, non tanto come a una speranza di futuro migliore, quanto come testimonianza che nella Città di Dio c’è ancora qualcuno che pensa, che sa fare le cose e gli interessa farle bene. L’ossessione del protagonista, che del resto è la stessa di Ivo Brandani, è che compito degli umani è lottare per la forma—fisica, politica, funzionale—contro l’informe e il caotico che il mondo, e in questo caso la Città di Dio, in continuazione gli porge.