Anche se il paese richiamava qualcosa di superficiale in qualche cassetto della mia testa, a Pitigliano non c’ero mai stato.
L’unico legame che avevo con Pitigliano veniva da un compagno di liceo che era stato nella mia stessa classe ma solo il primo anno, poi era bocciato e aveva cambiato scuola. Nei primissimi giorni di scuola (la nuova scuola – il temibile e glorioso liceo – e la nuova classe, le nuove facce, i nuovi preoccupanti professori) il curioso aggancio che io e il mio compagno avevamo trovato riguardava il calcio di provincia. Pitigliano, per essere un paese tutto sommato piccolo, aveva una squadra molto forte, e in particolare un giocatore: Antolovic. Il suo fascinoso nome slavo era diventato famoso nelle cittadine del calcio dilettantistico, e l’aura che a volte circondava certi atleti talentuosi finiti nelle categorie minori per qualche stortura della sorte (ex fuoriclasse con le ginocchia di cristallo; campioni mancati fuggiti da guerre civili) nel suo caso aveva valicato i confini, avvicinandosi a una dimensione regionale. Per il mio compagno di classe, che a Pitigliano era nato e tornava ogni estate, Antolovic era una divinità mitologica, e quando gli avevo detto che anch’io lo conoscevo si era entusiasmato. Questa nostra bizzarra affinità, scoperta nei primi giorni, poteva essere l’inizio di un’amicizia, ma invece il nostro rapporto, come succede a volte, non riuscì a progredire e si arenò mestamente su quell’unico punto di contatto. Gli altri due argomenti forti che aveva, cioè l’odio viscerale per il vicino paese di Manciano e la conoscenza – di cui andava molto fiero – del verbo “sbiellare”, una parola sul cui significato preferirei al momento soprassedere, non evitarono che l’amicizia si spegnesse prima di nascere, anche perché non credo sarebbe facile per nessuno incentrare un duraturo rapporto su “Antolovic” e “Pitigliano”, neanche a patto di renderli concetti filosofici universali in grado da soli di spiegare la natura umana.
A Pitigliano non c’ero mai stato prima, arrivavo col bus di linea, e superato il settantaquattresimo tornante di una statale immersa nel bosco, mentre ormai lottavo con un principio di nausea e mi veniva in mente come sempre la vecchia pubblicità del Travelgum con la scolaresca che scampati i conati di vomito canta in coro Azzurro, non potevo immaginare che si sarebbe improvvisamente spalancata di fronte a me una porzione di spazio libero e di cielo, e che sarebbe emerso dal folto del verde un promontorio giallo ocra, una specie di piccolo Ayers Rock su cui crescevano, nate dalla stessa roccia vulcanica, i contorni di decine di palazzi, muraglioni e campanili.
Pitigliano era uno di quei paesi in cui la presenza fissa dei tedeschi indicava agli italiani il valore del luogo. A Pitigliano l’artigianato non si era ancora trasformato in chincaglieria, la lavorazione dei tessuti non era sfociata nelle magliette con su scritto “Pitigliano”, le botteghe non avevano finte crepe per sembrare vissute, ma crepe vere, e i pochi b&b – in cui certo non alloggiavano i tedeschi, che come sempre di notte scomparivano, non si sapeva mai dove dormissero, forse nelle grotte scavate nel tufo, o lungo i torrenti che circondavano la base dello sperone su cui sorgeva il borgo, o direttamente in Renania-Palatinato per poi ripresentarsi in Toscana la mattina dopo – convivevano con diversi bar frequentati da gente del posto che beveva vino duro e bestemmiava di gusto in una lingua che sembrava simile a quella dei Vandali o dei Goti.
La presenza dei tedeschi era anche indice di riconciliazione: a Pitigliano la presenza di ebrei era molto forte da secoli, da molto prima che il borgo fosse battezzato Piccola Gerusalemme; c’erano ancora tracce del forno delle azzime, del macello, della tintoria, dei bagni rituali (mikvè), e le cantine continuavano a produrre vino kasher.
Dalla metà del 1500, in seguito alle restrizioni antiebraiche imposte dalle bolle papali e dal Granducato di Toscana, la Contea di Pitigliano degli Orsini era rimasta zona franca, e la folta presenza di famiglie giudee confluita in paese aveva portato, nel 1598, alla costruzione della sinagoga. La felice convivenza tra ebrei e cristiani si sarebbe cementata nel tempo, tanto in epoca napoleonica (quando nel 1799 gli abitanti cristiani difesero gli israeliti minacciati dai militari antifrancesi) quanto durante la calata nazifascista (quando gli abitanti avrebbero dato rifugio agli ebrei nei poderi e nei boschi intorno al borgo).
Era sabato, e nonostante qualche percezione di Piccola Gerusalemme – il ghetto era presidiato da corazzieri armati – non potei visitare la sinagoga. Potei però rendermi conto che se la coesistenza tra ebrei e cristiani aveva, per una volta, dato buoni frutti, c’era una ruggine che non era stata lavata via dallo scorrere del tempo: quella con Manciano.
Faceva caldo, e già di buon mattino i vecchi erano seduti all’ombra fuori dalla porta di casa.
(È bene sapere che a Pitigliano è presente il più straordinario reticolo di correnti fresche al mondo, basta conoscerle e appostarsi nel punto giusto, che spesso è appunto appena fuori dall’ingresso di casa, o dal buco di una grotta).
Una donna molto anziana, vedendomi, distese le rughe del volto in un sorriso.
“Dove vai di bello a piedi, a Sovana?”
“A Manciano”.
Il viso della vecchia si irrigidì in una smorfia di marmo.
“Bel paese, quello, sì…”
L’unico modo per uscire dalla Piccola Gerusalemme era perdere quota scendendo per un viottolo su cui si aprivano grotte e cantine da cui uscivano ovviamente fortissime correnti d’aria fredde, fino ai tre torrenti alla base del grande sperone di tufo. Il guado del maggiore di loro, il Lente, annunciava l’ingresso alla Via Cava di Fratenuti. La strada millenaria era alta quasi venti metri e larga poco più di due. Gli etruschi avevano scavato questi tunnel asportando decine di migliaia di tonnellate di roccia vulcanica. I giganteschi solchi, simili a incisioni della crosta terrestre operate da un chirurgo colossale, erano invisibili dall’alto, e dotati di un microclima prodigioso che rendeva possibile la crescita spontanea di felci, ornielli e castagni. La visionaria ingegneria etrusca serviva ancora ai romani di oggi, che in quella terra fertile e ricca di acque avevano allestito i rigogliosi orti delle loro seconde case.
Il sentiero battuto dal sole si snodava tra colline basse e campi di grano, le colline avevano una densità abitativa vicina allo zero ma talvolta in cima si stagliava un podere, i terreni intorno erano coltivati oppure lasciati a pascolo per cavalli o pecore. Procedendo verso la valle del fiume Fiora incontrai alcuni gatti malati, un traliccio elettrico caduto in mezzo di strada, una volpe spuntata come un miraggio da una vigna, una fonte, un labrador che si era perso, alcune capre, una piantagione di mais, boschi di lecci e i primi eucalipti che annunciavano il progressivo avvicinamento al mare.
Allo zenit del calore pomeridiano, mentre la polvere si alzava da sola in piccoli vortici e una leggera foschia saliva dai campi a maggese, nell’unico spicchio di strada statale che collegava due sentieri nel bosco, tra un tornante e il ponte sul Fiora, ebbi la fortuna di trovare un bar aperto.
Gli unici avventori erano un uomo e una donna, entrambi anziani ma con i tratti di un’antica bellezza non del tutto sfiorita. Sedevano allo stesso tavolo sotto la canonica testa di cinghiale. I loro vestiti erano troppo eleganti per un casuale caffè in un bar sulla Provinciale, gli sguardi che si scambiavano erano troppo intensi e le parole che si rivolgevano troppo gentili perché fossero semplici conoscenti o coniugi di lungo corso, così compresi che erano amanti. Lui le parlava dell’Ungheria. “Io ci sono stato”, diceva. “Non era come qui”.
L’ultima salita della giornata morì giusto pochi metri prima del cartello “Manciano”, sotto al quale qualcuno, probabilmente originario di Pitigliano, aveva scritto “merda”, ma nello spazio bianco rimasto a quel punto disponibile tra le due parole qualcun altro, probabilmente originario di Manciano, aveva scritto “Pitigliano”, originando una sequenza ternaria “Manciano- Pitigliano-merda” e ponendo problemi di comprensione all’ipotetico viaggiatore sprovveduto, che forse avrebbe equivocato il paese in cui era effettivamente approdato, o forse avrebbe immaginato i due paesi nemici finalmente fusi insieme, in un territorio comunale unificato, un accorpamento sul quale però gli stessi cittadini sembravano esprimere perplessità.
La trattoria di Manciano dove mi fermai per cena aveva avuto nascita e tradizione familiare, forse contadina, ma ora si era data un tono, aveva tavoli laccati di grigio e intonaci spugnati a colori vivaci, serviva ancora il classico cinghiale in umido con patate arrosto, ma adesso in piatti viola molto larghi, di forma quadrata, guarniti come fosse un esperimento molecolare. Il risultato era che il loro cinghiale in umido, leggermente stopposo e certamente precongelato, costava dieci euro in più.
In una gabbia sulla parete più larga della sala alloggiava un Ara Militaris, un pappagallo di quasi due chili che brillava di luce propria, forse il vero motivo per cui quella trattoria riempiva i tavoli. Il possente becco color piombo con cui l’uccello si accaniva a fasi alterne contro i ferri della gabbia terminava in uno sbuffo rosso sangue di piume corte e folte come una pelliccia, ai lati gli occhi trasparenti erano incorniciati da due triangoli rovesciati striati di zebrature curvilinee, e un verde fluorescente copriva il resto del corpo, ad eccezione dell’azzurro elettrico delle remiganti primarie sul bordo delle ali, e dell’arancio brillante delle maestose piume centrali della coda.
Se avesse potuto alzarsi in volo, avrebbe mostrato il giallo abbagliante della parte inferiore dell’ala. L’uccello alternava una sorta di nervosismo impaziente, sfogato serrando nel becco i ferri della gabbia con una forza che sembrava potesse piegarli, a un’immobilità totale in cui pensai si chiedesse la ragione ultima della sua bellezza, dei suoi colori sgargianti, e forse era consapevole del rischio che si assume ogni animale dotato di un aspetto appariscente, di una livrea eccezionale, è un rischio, sì, perché spesso un animale con queste caratteristiche è più visibile dai predatori e più impedito nei movimenti, anche se nel mio caso, pensava forse l’Ara Militaris, non si può propriamente parlare di impedimenti, le mie “attrazioni” non sono equiparabili al palco di corna di un alce, alla coda del pavone, al piumaggio strabordante delle paradisee maggiori, al becco insostenibile dei buceri e dei tucani, tutti elementi in grado di ostacolare la loro eventuale fuga e forse la loro stessa esistenza, certamente i miei colori appariscenti mi rendono una specie di bersaglio ambulante, l’opposto del mimetismo di un insetto stecco, per capirci, lui sì, più attento alla sopravvivenza che all’aspetto, eppure anche questo non è del tutto vero, pensava forse l’Ara Militaris, se io ho questi colori è perché le femmine della mia specie hanno scelto nel tempo esemplari maschi dai colori sempre più vistosi, e i figli maschi che hanno ereditato quei colori sono risultati attraenti per altre femmine di Ara Militaris, garantendosi così una discendenza, e dunque la prosecuzione della specie, quindi, in definitiva, sempre di sopravvivenza si parla, ma ancora più in definitiva, pensava forse l’Ara Militaris, e forse questo era l’unico pensiero che davvero lo animava, io che dovrei sorvolare giorno e notte la giungla lussureggiante del Messico, e vantarmi del mio piumaggio con le scimmie, e bazzicare branchi di femmine, e spezzare noci con questo becco, io, come cazzo sono finito a farmi scrutare da coppie adultere di mezz’età che parlano un misto di maremmano e laziale sporco nella sala spugnata di una trattoria di Manciano?
All’alba m’incamminai verso Marsiliana per arrivare prima possibile al mare. Ogni chilometro percorso significava una perdita di quota. Le colline si livellarono fino ad appiattirsi completamente. La vegetazione variegata dei promontori interni lasciò definitivamente spazio a sughere, eucalipti e alle piante arbustive capaci di resistere all’aridità e all’arsura. Vidi un rapace volare con un serpente nel becco. Da un viadotto sopra l’Aurelia apparve il Tirreno. Per tutte le ore di cammino il sole era stato alla mia sinistra, e sembravo uno di quei camionisti che ben prima della vecchiaia arrivano ad avere una metà esatta della faccia incartapecorita e bruciata.
La prima spiaggia era coperta di legname secco, stecchi e piccoli rifiuti. Ansedonia non era un vero e proprio paese, ma piuttosto la ragnatela collinare di stradine che portavano alle ville dei romani, o al circolo del tennis, del golf, del bridge. Ma una volta scalata e discesa la piccola altura, ecco la porta miracolosa: un minuscolo e quasi invisibile cancellino era l’ingresso al tombolo di Feniglia. Il grande cordone di sabbia rivestito di vegetazione saldava la terra ferma di Ansedonia con quella di monte Argentario, emergendo dal mare sul lato sud e dalla laguna sul lato nord. Nel tempo di un bagno che annullò da solo le tossine dei chilometri a piedi, ebbi modo di immaginare che nella prima parte della spiaggia si stabilissero di norma i romani del Quarticciolo, seguiti da quelli di Tor Bella, della Tuscolana, della Casilina, poi via via che ci si avvicinava al centro concavo di quella specie di falce che era il tombolo (il centro cioè la parte più lontana dalle case e dai parcheggi, dunque la più deserta, e per di più dotata di rudimentali casette di legno che se ben innalzate potevano somigliare a delle regge), ecco quelli della Nomentana, dell’Esquilino, dell’Aventino, di Monteverde, di Prati, di Monti, dei Fori.
Poi aspettai di asciugarmi, e mi diressi verso la pineta e il tappeto di aghi lungo sei chilometri dove l’ombra degli alberi avrebbe smorzato quasi ogni rumore.