Più di un memoriale
La versione di Barney è il racconto in prima persona della vita di Barney Panofsky, ebreo canadese dai larghi appetiti, produttore televisivo schietto, ironico e perfido, appassionato di whisky, sigari e letteratura, che scrive le sue memorie per difendersi dall’accusa di aver ucciso, circa trent’anni prima, il suo amico e mentore, lo scrittore Boogie Moscovitch.
Molti dei personaggi con cui Barney ha condiviso gli anni della sua formazione parigina, compresa la prima signora Panofsky, sono diventati artisti più o meno noti, mentre Barney, pur amando profondamente la letteratura, è praticamente l’unico della compagnia a non avere un talento. Perciò, come tutti gli artisti privi di un mezzo per esprimersi, finisce per creare un’opera d’arte usando l’unica cosa che ha a disposizione: la vita. Ed è questa la sostanza principale del romanzo. Partito con l’idea di discolparsi, Barney finisce infatti per raccontare la sua intera esistenza e il suo intrecciarsi con quella di mogli e figli, amici e nemici. Il finale è invece un’appendice scritta dal figlio Mike dopo che il padre, giunto a narrare il suo presente di anziano, si è dovuto interrompere per l’aggravarsi dell’Alzheimer.
Benché chiunque legga il libro percepisca un netto calo di ritmo e di tensione dopo che Barney è uscito di scena, quando cioè la narrazione passa alla voce di Mike, non si può negare quanto l’appendice sia essenziale per la chiusura della trama. Farlo significherebbe fare un torto all’autore, e a Barney stesso, perché sebbene l’energia della narrazione provenga per lo più dall’edonismo vanaglorioso e dal rancore caustico del protagonista, il racconto è pur sempre un apologo, che ha preso forma letteraria per contrappeso alle accuse mosse a Barney dallo scrittore Terry McIver, suo ex amico e nemesi. Nelle sue memorie, McIver ha nuovamente accusato Barney dell’omicidio di Boogie, dopo che tre decenni prima il processo lo aveva visto assolvere.
La scintilla del romanzo è perciò l’accusa di omicidio, la miccia l’odio personale e letterario per McIver, e il resto è un’indimenticabile esplosione polifonica.
Un giallo da risolvere
Ma la bellezza di questa sinfonia a un solo strumento fa sì che l’accusa di omicidio rimanga sullo sfondo, e così si dimentica facilmente che La versione di Barney è costruito come un giallo, come un romanzo investigativo vero e proprio.
Il fatto è che essendo l’accusa di omicidio il perno della storia, e dato che, nonostante i dubbi anche dei figli, si tende a credere all’autoproclamata innocenza del protagonista, quando Barney esce di scena rimane ancora da risolvere il caso.
Barney sembra o finge di essersi arreso, infine, alla misteriosa scomparsa del suo amico, ma una volta giunto all’appendice il lettore ha ancora due opzioni: Barney ha forse vagato per centinaia di pagine senza davvero avere idea di che fine abbia fatto Boogie, finché si è perso nei suoi ricordi? O forse è colpevole, e ha soltanto voluto confondere le acque definitivamente?
A questo punto la narrazione passa a Mike, ma per quelli che fino alla penultima pagina sembrano quasi soltanto titoli di coda: è infatti proprio nell’ultima pagina che Mike scopre la verità sulla morte di Boogie. E la soluzione sta tutta in un oggetto che ritorna più volte nel racconto di Barney, quasi come se, magari inconsapevolmente, il narratore-protagonista avesse sempre sulla punta della lingua la chiave del mistero che, dopo aver tormentato la seconda metà della sua esistenza, tormenta ora quella dei suoi eredi.
Un editing ingrato
Nel testamento, Barney ha espressamente chiesto che fosse il figlio maggiore a curare l’edizione delle sue memorie: tocca dunque a Mike l’ingrato compito di rivedere l’enormità di citazioni letterarie, di date, di orari e di risultati sportivi che il padre snocciola disseminati di refusi, volontari e non, lungo tutta la narrazione. Attenzione: Saul, il secondo figlio maschio, è un giornalista, saggista e scrittore, proprio lo scrittore che Barney avrebbe sempre voluto essere: sarebbe perciò il candidato naturale al ruolo di editor. Saul viene però escluso. Ci sarebbe poi la figlia Kate, un’insegnante di letteratura giovane e capace: per carattere e professione, nonché in quanto cocca di papà, sarebbe forse la più qualificata a svolgere il compito. Ma anche Kate viene esclusa. Viene invece scelto Mike e la motivazione ufficiale è che Barney vuole fargli leggere i libri che cita e che ritiene, a torto, il figlio non abbia mai letto. Mike, oltretutto, ha sempre sofferto questo pregiudizio, che crede abbia sempre orientato i comportamenti e le scelte del padre nei suoi confronti.
Condensando tre dispetti in un gesto solo, il grande virtuoso dello sgarbo Barney Panofsky sembrerebbe dunque aver compiuto uno dei suoi capolavori; ma, per una eterogenesi dei fini, è proprio Mike, incaricato suo malgrado di curare l’edizione del libro, a trovarne la chiusura ideale, portando la narrazione, dopo tanto vagare nei ricordi, finalmente al presente. La voce di Mike, così marginale rispetto a quella del padre, chiude il cerchio dei tormenti di Barney, liberandone infine lo spirito.
È il primogenito maledetto, dei tre figli il meno simile al padre, con il quale oltretutto ha una comunicazione scarsa e ostacolata da continue incomprensioni reciproche, a scoprire la verità, quella al di sopra di ogni versione.
Come tutte le grandi opere narrative, La versione di Barney sembra espandersi e svolgersi in un proprio universo analogo al nostro, retto da miti, archetipi e stereotipi: conflitti tra maestri e allievi, mogli e padri, figli e fratelli, e poi tradimenti, furti, eredità e morti ne formano l’intelaiatura, costruita assemblando frammenti di cronaca sociale, politica e sportiva, nonché attingendo a tutto il retaggio e il vissuto familiare ebraico di Barney, dalle storie dell’Antico testamento agli aneddoti di e su parenti e amici.
La bellezza di questo romanzo sta anche nell’accumulo di voci, registri e fonti diverse, da cui deriva anche la sua tipica polifonia, paradossale per un lungo monologo. Voci che si raccontano, si chiamano, si intrecciano e si richiamano, personaggi che si citano tra loro, si smentiscono o vengono smentiti da altri, sono tutte interpretate da una sola voce, che si presta a ogni altra, mantenendo però una sua etica della parola e del silenzio.
L’etica del silenzio
La parsimonia verbale e la lapidarietà sono i tratti che contraddistinguono le persone che Barney ha amato di più: Boogie, suo amico geniale e prediletto, scrittore celebre per non aver ancora scritto Il romanzo definitivo, e Miriam, suo unico amore, perfetto contrappunto taciturno alla logorrea della seconda signora Panofsky. Mike stesso, con la sua ironia misurata, a metà strada tra sintesi e sentenza, è anche in questo l’esatto opposto del verboso e chiassoso padre.
Nelle Mani che disegnano, Escher ha rappresentato due mani nell’atto di disegnarsi, dandosi reciprocamente vita, e si può forse immaginare La versione di Barney cambiando le proporzioni delle mani che l’hanno scritta: novanta per cento quella di Barney e dieci per cento quella di Mike; o forse viceversa. Non c’è però neanche l’ombra di un narratore esterno alla storia. Detto altrimenti: in mezzo a tutto questo tracimare di parole, l’autore è rimasto in perfetto silenzio.
“Argumentum ex silentio”, replica ai giornalisti anche l’avvocato e storico compagno di sbronze di Barney, John Hughes-McNoughton, dopo la tardiva scoperta dei resti di Boogie. La risposta si deduce dal silenzio. Forse, dal suo silenzio avremmo dovuto dedurre non tanto che l’autore non avesse niente da dire; piuttosto, che non volesse essere chiamato in causa. Perciò non dovremmo chiederci quanto di lui si trovasse nel romanzo. Nella Versione di Barney, Mordecai Richler non c’era.