Un pomeriggio d’estate da bambino, ascoltando
Avrei bisogno di tonnellate di idrogeno
Guerriglia nella giungla, ma sotto un tetto di palme amore mio
Le pareti del cervello non hanno più finestre
Stupore.
Una tarda mattinata domenicale da adolescente, tornando da una partita persa in un paese del grossetano, in macchina con un compagno di squadra non indimenticabile. Neanche suo padre al volante era indimenticabile, ma mise una cassetta da cui si diffusero le note di tastiera e l’incedere leggero di Bandiera bianca: stupore.
Una mattina, a ventitré anni, appena sveglio a Padova, a casa di un amico.
Abbiamo fatto l’alba girando per vicoli e canali.
Siamo in tanti a dormire nella casa, ma nel sole della mattina le stanze sembrano deserte, si sente solo un intro dai tratti celesti che mi attira verso le casse e sembra interminabile.
È l’attacco del Re del mondo, capace di rendere perfetta una mattina: stupore.
Un amico con cui cantavamo Un grande esodo per noi giovani del futuro.
Ma anche Noi, provinciali dell’Orsa Minore alla conquista degli spazi interstellari e vestiti di grigio chiaro per non disperdersi.
Un amico che sbagliava apposta: cantava Un giorno sulla Prospettiva Nevskij / per caso vi incontrai Vaclav Nijinskij.
Con un’amica a volte si scherzava a raccogliere ortiche, e serviva poi dell’ammoniaca.
Un amico che, ogni volta che poteva, puntava l’indice e diceva Abbocchi sempre all’amo! seguendo le stesse note del pezzo, e non era necessario che qualcuno, prima, avesse sostenuto che l’Ayatollah Khomeini fosse santità.
Quel carnevale in cui un’amica si vestì con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù, io da gesuita euclideo, e un tizio ci disse “ah ma siete Bonnie e Clyde!” e se fosse già esistita la lingua dei social qualcuno avrebbe probabilmente esclamato “abbiamo un vincitore”.
Un giorno del 1998 in cui ancora una volta il suo suono era il più imprevisto, strutturato e diverso, e lui si mostrava con una specie di armatura giapponese e i capelli raccolti in un ciuffo sopra la testa.
Un pomeriggio, a venticinque anni, lavorando come giardiniere in una villa in quel momento disabitata, stremato dalla stanchezza, urlando a fine giornata Nel bene / nel male / è una questione sociale.
Le numerosissime occasioni in cui il dettaglio più interessante di una spiaggia di notte era immaginare, da qualche parte, l’eco di un cinema all’aperto, e le sbalorditive circostanze in cui c’era davvero.
Le occasioni, altrettanto numerose, in cui l’aria delle cose diventava – esattamente – irreale.
Quell’unica occasione in cui, con un’amica, in un tempo privo di immediate possibilità di verifica, la scommessa s’incentrò sul nome del grand hotel: Seagull Magique o Cigar Magic? Gabbiano magico, aveva ragione lei, ma mi sono sempre guardato dal ricordarle di incassare la vincita.
Le decine di occasioni (forse un po’ meno) in cui, con diverse persone, abbiamo urlato, stonando, Portami lontano sulle onde.
Le decine di occasioni (forse molte di più) nelle quali solo udire quell’attacco – risacca, xilofoni lontani, simili a ciottoli di riva sbattuti – è bastato a far spuntare lucciconi.
Da solo, contemplandolo nel periodo barbuto, grosso modo 1991-1993, quello di Povera Patria, nelle non rare occasioni in cui ascoltare L’ombra della luce mi ha fatto a pezzi e ricomposto.
Con un amico, ancora oggi, sillabando accigliati e interrogativi Il vento / gonfiava le mie vesti / di veramente / stabile / erano le mie scarpe nere / alle caviglie / ortopediche / un tempo / passavo ore in palestra / continuai / a inseguirla per inerzia.
Quella notte che dissi a un’amica che a lui non avevo mai sentito usare la retorica estenuante dei “sogni da inseguire”, eppure invitava a fantasticare col suo stesso esempio, la spiritualità personale, l’indipendenza sentimentale, il totale controllo della sfera privata, la sensazione che sapesse meglio di chiunque altro cosa fare del tempo e come usarlo per diventare un essere superiore, tanto che veniva (verrà) da chiedersi, cosa farebbe lui adesso?, dove andrebbe?, cosa direbbe?, e la mia amica era profondamente in disaccordo, si incazzò moltissimo e ancora non ho del tutto chiaro il perché.
Un giorno d’estate, tirare al massimo la Vespa in una discesa delle foreste casentinesi e intanto urlare In nineteen fortyfive I came to this PLAAAAAAAANEEEEEEEEEEEEEET.
(e avere gli occhi gonfi di) stupore.
L’occhio interiore, ultimo capolavoro, unico gigante ad avere il coraggio di esporsi contro la degenerazione finale del ventennio, gli occhiali scuri e i capelli da monaco giovane che sembravano ruotare nel vortice di una giostra, prima della rassicurazione finale, fidarsi del suo stesso pensiero, convincersi che rimanga comunque, sotto una forma silenziosa e sfuggente, invisibile ai più.