Zero empatia rabbia violenza odio velocità e veleno, era il Punk! Nel 1977 in Inghilterra stanno succedendo un sacco di cose, l’intero Paese sta bruciando e tutto sembra invecchiare all’istante, per essere buttato via. Il movimento punk è esploso e dopo l’uscita di “Never Mind the Bollocks” dei Pistols, arriva The Clash, il disco fulminante di quella che diventerà la miglior garage punk band del mondo. Attraverso questo romanzo epistolare, corredato dalle traduzioni dei testi originali della band, Joe Strummer, protagonista indiscusso della scena culturale inglese e leader dei Clash, si rivolge al fratello David, appassionato di occultismo, militante di estrema destra, morto suicida nel 1970, per raccontargli come la sua voce non sia più quella di un rocker da pub, ma la voce di decine di migliaia di individui, quella cioè di un intero popolo, un popolo senza radici.
Su ecceteramagazine.it l’estratto del nuovo romanzo di Alessandro Angeli “The Clash 1977 R.I. Punk Joe Strummer” (Ortica Editrice, 2020)
Ogni volta che mi allontanavo dal presente ci tornavo subito dopo con maggiore intensità. Per la mia salute mentale avrei dovuto cambiare atteggiamento, staccare la spina, me lo dicevano tutti: “Stai più coi piedi in terra Woody, che altrimenti voli via!” In molti erano sinceri a consigliarmi di darmi una calmata. Il fatto era che non mi sentivo mai abbastanza stanco. Avevo tanta di quella energia in corpo da raggiungere l’altro capo del mondo correndo. Solo il lavoro era in grado di scoraggiarmi, perché lavorare per vivere era una continua frustrazione. Pensare che se ne avessi lasciato uno avrei dovuto trovarne un altro e se anche quello poi non mi fosse piaciuto e l’avessi lasciato, un altro ancora e via di seguito. All’infinito.
A sentire i vecchi becchini di Newport quelli erano discorsi che non valevano un tubo, ma che ne sapevano i vecchi becchini di Newport dei Velvet Underground? Alla stazione, in attesa del treno, gli altri mi guardavano e io guardavo loro. Dovevano considerarmi uno che era appena scappato di casa e in fondo non avevano tutti i torti. Poi arrivarono alcuni ragazzi che mi avevano visto suonare e mi si strinsero intorno: chi voleva accendere, chi mi parlava. Nel corridoio entrava solo vento, le tendine danzavano e io sbandavo. Visto che non avevo il biglietto, me ne andai in bagno e mi chiusi lì. Rimasi sigillato nel cesso fino a Londra. Il treno fischiava e sbuffava come un cavallo inscatolato, tra il finestrino bloccato e l’esterno c’era una fessura dove riuscivo a far passare il mio sguardo. Il cielo era limpido. Fumai carico di tutte le mie aspettative, poi mi caddero le sigarette nella tazza, proprio in mezzo alla brodaglia gialla, checazzo. Pensai che avrei smesso di fumare e l’avrei lasciate lì. In realtà mi feci coraggio e chiudendo naso e occhi le recuperai sciacquandole sotto il rubinetto, per fortuna era il pacchetto morbido, plastificato. Cominciai a pensare a un sacco di cose, al fatto di ritornare a Londra, che era allo stesso tempo una cosa bella e brutta, mi misi a guardare il cielo e per qualche secondo mi calmai, poi nella testa cominciai a enumerare: – cielo intravisto dal finestrino; – lavoro; – Londra; – suonare; – ripartire? Merda, ci poteva mai essere una continuità tra le cose?! No.
Attraverso la fessura del finestrino del cesso, guardai le persone che aspettavano i treni sulla banchina, avrebbero preferito morire impiccati prima di aprir bocca e parlarsi. Mi sforzai di capire meglio quel presente allucinato, dove cazzo eravamo finiti? Dopo una buona mezz’ora arrivammo a Londra. Eravamo in molti a scendere: giovani, vecchi, lavoratori della middle class, beghine, beghini, bambini, una sfilza ininterrotta di disperati. D’improvviso e per contrasto mi vennero in mente un sacco di bei ricordi: le corse su un trabiccolo bianco, la macchina verniciata del mio amico, con cui andammo a vedere i Pink Floyd e ci fermò la pula, senza che riuscissero a trovarci niente, le prime uscite con Debbie… Gli alberi che si susseguivano con cadenza regolare, sembrava volessero essere chiamati per nome.
Erano passati mesi ormai dall’ultimo concerto a Newport e mi sembrava di iniziare tutto da capo, non stavo nella pelle, ma quando mi incamminai per raggiungere la stazione della metro mi imbattei in quello stronzo di Dick The Shit. Mi aveva pizzicato appena svoltato l’angolo, non so come facesse. In maniche corte era ancora più magro, come una specie di gatto. Mi sorrideva beffardo. Ci raccontammo le rispettive beghe, venne fuori la storia del caffè. Dovevamo bere un caffè assieme a tutti i costi. Il succo del discorso era che rivoleva il suo basso, qualche settimana prima infatti lo aveva prestato a Pat e quello non glielo aveva ancora ridato. Cercai di convincerlo in tutti i modi a lasciar perdere, visto che in serata ci aspettava il nostro primo concerto e alla fine non insistette e se ne andò. “È fatta!” mi dissi, ma lo ritrovai fermo ad aspettarmi all’isolato successivo. Rideva e si sbracciava, aveva un gran naso ed era sfinito per via delle amfetamine. Questa storia del caffè ci portò per tutte le strade possibili. Erano le due di pomeriggio e faceva un caldo bestiale, per essere settembre, o forse ero solo troppo vestito, con quel pastrano di mio padre addosso. Non so. Il fatto era che non c’era un cazzo di posto che gli andasse bene – Troppo vuoto; – troppo pieno; – bariste troppo brutte; – avventori con un senso smodato del territorio; – troppo aristocratico; – troppo costoso. Fanculo, faceva caldo. Alla fine ce la facemmo, presi un bicchiere d’acqua e mi guardai allo specchio, cercai di pettinarmi senza farmi vedere, niente da fare mi beccò, rise. Mi guardavo troppo, questo lo faceva ridere. Pensavo troppo ai miei capelli, questa era un’altra cosa che lo faceva ridere. La barista era annoiata, uscimmo e ci sedemmo vicino alla scuola, su una panchina. Un padre con la testa come un televisore camminava accanto al figlio con la testa come un televisore, tutti e due avevano i capelli corti, ben tagliati, il televisore più piccolo teneva sottobraccio la custodia di uno strumento: “Fottuti bigotti”, sbraitò Dick e sputò a terra un filamento giallastro che disegnò innumerevoli iridescenze sull’asfalto. Poi Dick cominciò la sua allucinata tiritera guardandomi fisso negli occhi. Terminava più o meno così: ‘Voi che avete sempre vissuto una vita retta, voi che vivrete sempre una vita retta, che direte trovandovi davanti un cerchio?’ Quando il mio amico Dick se ne andò raggiunsi la stazione, questa volta non ci sarebbero stati intoppi, avrei preso la metro e tutto il resto. Feci il biglietto col bigliettaio che mi dava consigli. I pullman affollavano la strada. Accanto a loro schiere di cartelle e zaini con gambe e capelli e qualche vecchia sdentata. Poi mi voltai e la vidi. Era la terza volta in due giorni: la prima fuori dal pub; la seconda a metà strada tra la mia stamberga e il chiosco dei panini; la terza fuori dalla vetrina del negozio di dischi. Quando uscii mi aveva anche parlato: “C’è roba tua là dentro?” “Non ancora”, le dissi e me ne andai lasciandola lì in piedi a rosicchiarsi un dito.
Decisi di farmi una birra. Fanculo il treno, fanculo il concerto. Mi dava la caccia, era chiaro, ma non avevo tempo da perdere con una ragazzina. C’è sempre un pensiero giusto dietro un’azione sbagliata e viceversa. Lei stava immobile e mi studiava, la sua amica le squittiva accanto, come sempre. La mia testa rosolava mentre lei succhiava una bibita dalla cannuccia. Ti arresteranno bastardo, mi dicevo, ma niente, continuavo a cuocere, mandavo fumo. Il vetro ci divideva, ero vittima di un mondo subacqueo: lei nel piazzale, sulla panchina insieme all’amica, io dentro il bar a guardare i grumi di schiuma della birra. Chissà che faccia avevo dietro a quel vetro? Lo sguardo fisso, a gettare la peste nel mezzo del giorno. Lei aveva capito e rideva, poi aveva appoggiato la testa sulla spalla dell’amica. Energia capace di mandare in frantumi il vetro, finta arrendevolezza e gambe lunghe. Tra qualche ora ci sarebbe stato il primo concerto dei 101, eccolo lì Woody Mellor, il frontman del gruppo, che cerca di sfuggire gli assalti di una groupie con l’apparecchio ai denti. Dentro il bar entrò un tizio che pareva uno psichiatra, portava con sé una valigia a rotelle, gli occhi fissi dietro gli occhiali, ordinò un tramezzino al salmone.
Non sarei tornato più lì, me lo giuravo. Fanculo le ragazzine che bevono coca cola e ti fissano mentre tu hai un concerto. Le tre e un quarto, volevo telefonare a Simon per farmi spiegare bene dove fosse il locale, questo Telegraph fottuto, ok sapevo che era a Brixton e sapevo anche cos’era Brixton e magari c’ero finito a ubriacarmi là dentro, ma adesso non mi ricordavo più dov’era, o forse sì, cercai di calmarmi, mi sentivo un pesce nell’acquario, un pesce tropicale. Uscii fuori, accesi una sigaretta, finsi di dimenticarmi della tipetta e tirai dritto verso le scale. Il mio sguardo ostinato non perforava il paesaggio che sfilava oltre i vetri. Ogni cosa sembrava voltarsi dall’altra parte, le case, le strade, la gente con le facce di mattoni, i mattoni con le facce della gente. Eccolo il ritmo del tempo, il ritmo che deve continuare, sempre e comunque! Ci avevo provato per anni a invertirlo, sì Dave ci avevo provato, ma lui non aveva voluto saperne, osservava e fuggiva, sempre la stessa storia, osservava e fuggiva via, dopo un po’ si stufava dell’intensità, voleva convincerti a imbarcarti, a entrare nel gruppone, partecipare ai giochetti dei ragazzi, le solite manfrine, fino a che non arrivava la galera a pettinarti per bene. Allora la realtà sembrava caderti addosso tutta intera dal soffitto. Ma presto avrei avuto le mie canzoni e me la sarei cavata, me la sarei giocata fino all’ultimo. Con le mie canzoni avrei marciato a lungo, fratello mio, lo sapevo. Avrei combattuto per molto tempo. Viaggiato oltre le montagne, attraverso gli oceani, avrei combattuto fino alla vittoria, avrei fatto un pandemonio, ne ero certo, avrei sollevato l’inferno! Una donna, un cane e un bimbo sedevano insieme. La metro era semivuota e fermava in tutte le stazioni. Provai a leggere qualche pagina, resistetti un po’, poi mollai. Guardavo le facce della gente attendere, attendevano, attendevano sempre. Mi alzai per muovermi un po’. Dentro la metro non riuscivo a stare fermo, davo di matto ogni cinque secondi. Attraversai tutto lo scompartimento e cambiai di posto in continuazione, lanciavo il mio sguardo come un amo. Le porte si aprivano male. Stavo per inciampare sul piede di un uomo con le gambe allungate. Ci scusammo. Tutto nella norma. Il treno continuava il suo percorso. Quando arrivammo al Telegraph non avevamo né batteria, né amplificatore. Quelli volevano cacciarci, poi mi venne un’idea: “Ehi amico siamo d’accordo coi Reggae Men, ce la presteranno loro l’attrezzatura!” Dissi al tizio del pub, lui se la bevve e per un po’ non tornò sull’argomento. Dopo qualche minuto cominciammo a provare. Solo che i Reggae Men arrivarono strafatti e con due ore di ritardo, perché avevano fuso il furgone, ma ci prestarono davvero batteria e ampli, così facemmo il nostro primo concerto. Stavano tutti accalcati, un capannello di gente transitoria, si potevano sentire i sospiri e lo scorrere del sangue, un fiume di sangue in piena, in attesa della trasfusione. Si vedeva lontano un miglio che non sapevamo suonare, ma facemmo un tale casino su quel piccolo palco, che la gente si divertì lo stesso. Ci prendevano per il culo e noi prendevamo per il culo loro, era una farsa, d’accordo, ma piena di stile. Aspettavamo di sputare nell’occhio aperto della legge, di graffiargli sulla faccia i nostri nomi. La strada nostra era comune. Là dentro tutti usavano sostanze, aspiravano dai colli e i filtri quello che mancava, rendevano la testa una specie di giostra divertita. Quando giunsi alla cassa, mi mancavano i soldi, stavano già per sguinzagliare i buttafuori che non vedevano l’ora di gonfiarmi, per fortuna sbucò Richard, fu lui a prestarmeli. La presero a ridere, poi caricammo le borse nella macchina di Clive, al volante c’era una ragazza sobria, di cui non ricordo il nome. Appena partiti cercai la mia chitarra e non la trovai, cominciai a dannarmi, dov’era finita? Merda. Ridevano tutti, ma con chi cazzo ero capitato? “Come si fa a essere così!?”, urlai, volevo tornare nel locale a chiedere se l’avessero vista. “Alvaro, cazzone, dovevi essere tu a caricare gli strumenti in macchina, ricordi?”. “Che ti frega”, rispose lui placido, “tanto non la sai suonare!”. Dentro la macchina non ci si stava dal casino che facevano. Si sbellicavano. Poi mi dissero che mi avevano fatto uno scherzo, la mia chitarra era nella macchina di Pat, li mandai a farsi fottere per tutta la durata del viaggio, finché non arrivammo a Chippenham e la riebbi indietro, solo allora mi rilassai.
***
Avevo camminato tanto da perdermi, un tizio stava con la pala in pugno e mi guardava. Il cancello del camposanto era spalancato. Dissi ai ragazzi che in qualche modo avrei dovuto farcela. Uno di loro mi suggerì di fare la strada al contrario, quando dissi che non avevo la più pallida idea della strada fatta fin lì, ci fu un’ovazione generale. Mi scrollavo la cenere di dosso. Il ragazzone più giovane, con la pala in mano, era rimasto a bocca aperta, non smetteva un attimo di guardarmi. Dove stavo andando? Guardai le imposte chiuse, quella gente non sapeva che farsene di uno squinternato che camminasse per strada a quell’ora, volevano solo dormire. Dormire, chiudere gli occhi su tutto, scivolare dentro il sonno come su una buccia di banana. Provai a fermare le macchine rade che passavano. Gli abitacoli erano scuri, i volti dentro erano privi d’espressione e tiravano dritto. Mi fermai su una panchina e mi guardai intorno, la campagna scura, la nudità delle cose. Guardai il cielo: le stelle stavano sopra di me, piccoli lumi in un mondo sconfinato. Adesso che volevo affogare loro mi riportavano a galla, confondendomi ancora di più. Mi rimisi in cammino. Dal buio vidi delle luci. Sul ciglio della strada, nella carreggiata opposta, c’era un motorino fermo, con un ragazzo e una ragazza sopra. Dissi qualcosa di patetico, non risposero, uno di loro mi guardò, subito dopo indicò l’orizzonte. Tra le nuvole le fiamme illuminavano il cielo.
Aprii gli occhi in una radura, dalle chiome degli alberi filtrava un timido raggio che rischiarava l’aria. Mi fermai lì, assaporando per un attimo una sensazione piacevole: vidi come in una foto, mia madre giovane che mi faceva il bagno. Rimasi immobile, in ascolto, non sentivo niente, feci qualche passo e sentii qualcosa che si muoveva, un gelo mi serrò la bocca dello stomaco. Camminavo a ritroso, sempre più rapidamente, cercando l’uscita. Chiusi gli occhi e cominciai a correre. Correvo sempre più veloce, cercando di schivare gli alberi e alle mie spalle mi sembrava di sentire il rumore di passi che mi seguivano. Ripresi fiato e continuai a correre, ma non sapevo dove stessi andando. Non ricordavo quale fosse l’uscita. C’erano dei particolari che mi aiutavano, ma poco dopo tutto si confondeva. Attraverso un viottolo di sassi e cespugli sbucai in un supermercato, era l’ora di punta. Il mio carrello era vuoto, nessuno sembrava accorgersi di me, i corridoi infiniti erano pieni di merce. Fermai il carrello ed ebbi l’impressione di una presenza alle mie spalle, mi voltai lentamente e vidi in disparte una donna in cappotto, un foulard le copriva una parte del viso, lasciando scoperto soltanto l’occhio che mi osservava. Era sfilacciata da tutto il resto e mi aveva seguito e osservato per un tempo infinito, quella figura sapeva tutto di me. Non riuscivo più a muovermi, sentii il boato arrivare da lontanissimo.
L’urlo spaccò tutto il resto. La mia voce rimbombava attorno, le orecchie si sturarono e udii un rumore di lavandino. Qualcuno si muoveva verso di me. Dopo poco riuscii a metterlo a fuoco, era Richard: “Sarà meglio che ti svegli cazzone, domani buttano giù il 101!”, disse e tornò in bagno.
Fu proprio così. Quando demolirono lo stabile ci sentimmo di nuovo orfani. Non avevamo più un posto dove provare. Ma non ci perdemmo d’animo e trovammo un altro squat adatto a noi al numero 36 di St Luke’s Road, al confine con il barrio caraibico. Suonammo in tutti i pub di Londra, alcuni li bissammo e riuscimmo a mettere da parte qualche sterlina, ma non funzionava, non volevo suonare nei pub per il resto della mia vita.
Altre volte mentre suonavamo ci interrompevano urlandoci insulti e io smettevo di ascoltarli, di guardarli, acciuffavo un colore dal fondo come un pesce e guardavo quello: ‘Non fare il coglione, non pensare a niente’, mi dicevo, chiudevo gli occhi, qualcosa sarebbe successo. Avevo scelto di camminare solo. Avrei camminato per mondi aspettando un indizio, la gente si burlava di me che camminavo sul ciglio. Una ragazza mi chiese un bacio, feci per avvicinarmi alla sua guancia, poi le presi la testa tra le mani e la baciai sulla bocca, senza staccarmi più. Rimase annichilita. Li lasciai tutti dov’erano gli stronzi, e mi avviai verso il bancone.
Per una sterlina a serata ci facevano suonare al Chippenham. Quando intorno alle cinque arrivavamo lì coi nostri strumenti scalcagnati, sembrava il posto più desolato e polveroso del mondo. La poca gente dormiva, anche le case, là fuori, sembravano avere occhi chiusi. Avevo cercato in tutti modi qualcosa che mi mandasse a male e finalmente l’avevo trovata. Il distributore di sigarette non funzionava, con le sue luci illuminate era un robot maligno che mi mostrava il medio. La luna era stata spedita dietro i grattacieli che coprivano l’orizzonte. La campagna da qualche parte si stava prendendo la sua rivincita. Me ne andavo in giro con una borsa a tracolla, dentro c’erano due mattoni su cui incastravo un manico di scopa per fare l’asta, il microfono era fissato alla sua estremità con del nastro isolante nero. A parte il Chip, nessun altro locale ci faceva suonare. Dicevano “Sì, vi faremo sapere”, ma non si facevano più vivi. Prima di ogni stramaledetto concerto pensavo alla mia capacità di mettermi nei guai, che col passare degli anni si era acuita. Pensavo e fumavo. Da un semaforo traballante una macchina aspettava il verde, l’intero quartiere era sprofondato nel buio, le strade erano sempre più lugubri, nessun orario, nessun treno. Il vento entrava dalle finestre. Qualche formica non vista attraversava il marciapiede sotto la coltre della notte.
Poi non so come, sarà stato il fatto che avevamo un locale o che con Clive trovammo finalmente il chitarrista che mancava, i 101 cominciarono a decollare. Il Chip quando suonavamo si riempiva di gente, orde di teppisti, fancazzisti, straccioni arrivavano da ogni squat del quartiere. Ogni sera scoppiava un casino e una notte, per via di una rissa tra zingari e irlandesi, arrivò la pula a sirene spiegate mentre io continuavo a saltare sul palco, senza nemmeno guardare quelli che si pestavano. Come per miracolo andavamo a tempo, era una data da segnare sul calendario. Stavamo facendo la nostra versione estesa di Gloria ed eravamo tutti presi parecchio bene, fino a che uno sbirro bello grosso si avvicinò e fissandomi torvo mise la sua manona lercia davanti al mio viso: “Ferma tutto ragazzo”, ringhiò. “Ok, andata”, dissi. Risero tutti.
Like to tell you ‘bout my baby
You know she comes around
Jut ‘bout five feet-four
A-from her head to the ground
You know she comes around here
At just about midnight
She make me feel so good, Lord
She make me feel all right
And her name is G-L-O-R-I-A
G-L-O-R-I-A
Gloria!
G-L-O-R-I-A
Gloria!
I’m gonna shout it all night Gloria!
I’m gonna shout it every day Gloria!
Yeah, yeah, yeah, yeah, yeah, yeah
She comes around here Just about midnight
She make me feel so good, Lord
I want to say she make me feel all right
Comes a-walkin’ down my street
Then she comes up to my house
She knock upon my door And then…