Ricorre a cadenza puntuale da circa vent’anni il dibattito sull’approvazione del cosiddetto decreto-legge “Milleproroghe”, un pacchetto complessivo di atti del governo che servono a prorogare nel tempo, quindi a spostare in avanti, gli effetti di leggi, norme e atti amministrativi dei più svariati generi, che sono in procinto di scadere o entrare in vigore.
Il nome è di per sé tanto bizzarro quanto di facile memorizzazione, perché fa pensare a una sorta di lotteria nazionale, ma è tuttavia così generico da non far intendere di cosa effettivamente tratti. Il punto è proprio questo: il “Milleproporghe” raccoglie una pleiade di iniziative molto eterogenee.
É quindi altrettanto ricorrente che il dibattito che lo riguarda porti con sé anche mille polemiche. Dal 2005 a oggi è successo praticamente ogni anno e anche se il ricordo fosse comprensibilmente confuso, dalla porta socchiusa di quella stanzetta della mente dove è collocata questa parola fantastica escono voci indistinte che dibattono animatamente.
Succede perché, come decreto-piglia-e-rimanda-tutto, “Milleproroghe” necessariamente si prende l’onere di scontentare qualcuno e accontentare altri. “Milleproroghe” è sempre tempestivo nel suo farsi ed è proprio questa la sua forza e il suo vantaggio competitivo: il Governo mette insieme in un unico decreto svariati tipi di azioni politiche e amministrative, approvandole. Dopodiché sarà il Parlamento entro 60 giorni a dover approvare o meno il decreto-panino, ripieno di mille iniziative di proroga. Va da sé che rappresenti un’occasione imperdibile per qualsiasi esecutivo per spingere in un unico atto propulsivo un gran numero di iniziative che altrimenti sarebbero troppo granulari ed eterogenee per prendere forza da sole. Decreto-palladineve si potrebbe anche dire: più volume ha, più acquista forza cinetica.
Tra i gruppi che quasi ogni anno rientrano nel decreto-calderone ottenendo le agognate proroghe ci sono sempre loro: balneari e tassisti.
Di entrambe le categorie, in Italia, se ne parla come di poteri forti, corporazioni, gruppi di pressione, perché, come categorie professionali organizzate in associazioni o consorzi, sanno rappresentare in modo particolarmente efficace gli interessi dei propri membri. Queste organizzazioni agiscono, come tutti i gruppi di pressione, tentando di influenzare le decisioni politiche a loro favore, in cambio di una promessa di sostegno politico o della minaccia della sua revoca.
Forse a molte persone risulterà inspiegabile come due categorie professionali così specifiche, e tutto sommato poco estese numericamente, abbiano la forza di far mettere gli esecutivi di traverso alle richieste dell’Unione Europea, scendere in piazza interrompendo il servizio e provocare un conseguente disservizio all’utenza, innescare vere e proprie crisi di governo che come nel caso di quelle del luglio 2022, che sono state preludio alla fine dell’esecutivo guidato da Mario Draghi.
In modi diversi e per diversi ambiti, le regole del mercato unico europeo chiedono da anni a entrambi i settori – quello del trasporto pubblico non di linea (taxi) e quello della gestione dei lidi costieri (balneari) – maggiore trasparenza delle procedure di assegnazione di appalti e licenze, nel principio dell’alternanza e dell’allargamento delle possibilità alle imprese e agli imprenditori di accedere ai loro mercati.
A questa spinta progressiva, tassisti e balneari hanno sempre fatto resistenza in senso contrario e conservativo, appoggiate a spada tratta da alcune parti politiche come Lega, Fratelli d’Italia ma anche da M5S e LEU.
Balneari
In Italia gli stabilimenti balneari sono gestiti da privati che ottengono dallo Stato la concessione per l’uso del suolo pubblico, ovvero la porzione di spiaggia dove viene allestita l’attività balneare. Questa concessione ha una durata limitata nel tempo, di solito 15 anni, e viene assegnata tramite gara pubblica. Il problema è che, in molti casi, i concessionari dei lidi si sono ritrovati ad avere diritti consolidati sulle spiagge in virtù di concessioni decennali rinnovate più volte, che di fatto hanno creato dei veri e propri monopoli locali. Questo rende pressoché impossibile l’ingresso di nuovi operatori sul mercato e limita fortemente la concorrenza, favorendo di conseguenza il mantenimento di prezzi elevati per i servizi balneari.
L’Unione Europea, che promuove la libera concorrenza tra gli operatori del mercato unico, ha più volte invitato l’Italia a riformare la gestione degli stabilimenti balneari, introducendo un sistema di rotazione delle concessioni e garantendo un accesso più ampio alle gare d’appalto. Tuttavia, le riforme in questo senso sono state spesso osteggiate dagli operatori del settore, che hanno manifestato con successo e in diverse occasioni contro le iniziative di liberalizzazione (la più recente dello scorso 10 marzo 2023), trainando dalla loro molte parti politiche.
A febbraio 2022, l’allora presidente di Fratelli d’Italia, oggi premier, dichiarava riferendosi alle iniziative di liberalizzazione del settore proposte dal Decreto Concorrenza del Governo Draghi: “Il Governo Draghi vuole espropriare 30mila aziende. FdI difende il lavoro e un modello di turismo balneare che il mondo ci invidia”.
A novembre 2022 il Consiglio di Stato si è espresso contro il rinvio dei termini delle licenze per la gestione degli stabilimenti balneari non oltre il dicembre 2023; passata quella data, diceva in autunno il CdS, il settore dovrà aprirsi alle regole di concorrenza del mercato unico europeo. Fine dello status quo quindi; se hai usufruito di una licenza reiterata ad libitum adesso devi rassegnarti a un processo concorrenziale, accettando il rischio di perdere la tua concessione in una gara pubblica.
Il decreto-legge “Milleproproghe” dell’attuale Governo Meloni, approvato lo scorso 23 febbraio, agisce quindi per spallata e include nel calderone anche la liberalizzazione delle licenze sui lidi costieri, prorogando la scadenza delle attuali licenze dal dicembre 2023 a dicembre 2024. Sul tema ha sollevato la sua riserva anche il Presidente della Repubblica Mattarella, ravvedendo sul corretto utilizzo del decreto e dicendo sostanzialmente due cose: il decreto “Milleproproghe” per essere valido e conforme non deve essere un mezzo per risolvere in fretta e furia questioni specifiche che normalmente dovrebbero essere seguite da un iter standard; la proroga delle concessioni balneari concessa dal governo Meloni è in netto contrasto con le indicazioni europee in materia e nonostante vi lasci passare il decreto nella sua generalità dovrete lavorare sodo per migliorare sui balneari perché così non va.
Di risposta all’ammonimento del PdR, venerdì 10 marzo 2023, il Consiglio di Stato boccia la proroga delle concessioni balneari: “Le nuove norme inserite nel “Milleproroghe” del 24 febbraio vanno disapplicate da ogni organo dello stato”. Secondo il Consiglio, le norme che prevedono tale proroga sono in contrasto con l’articolo 12 della direttiva europea e non dovrebbero essere applicate. Il Comune di Manduria aveva infatti prorogato tutte le concessioni demaniali marittime fino al 2033 su richiesta di alcune società balneari, ma il Consiglio di Stato ha sostenuto che tale proroga è contraria alle norme europee e, pertanto, deve essere disapplicata da qualunque organo dello Stato.
Come si muoverà il governo da oggi in avanti è tutto da vedere. Stando alle prime dichiarazioni del vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio (Lega) si vuole insistere sul diritto del Parlamento a legiferare e la Lega chiede al governo di accelerare sulla mappatura delle coste per dimostrare alla Commissione europea che le coste italiane non sono una risorsa scarsa e che quindi le concessioni demaniali marittime non rientrano nella direttiva Bolkestein. La Lega insomma richiede una soluzione definitiva a questo problema per le circa 30mila imprese che ne sono colpite e invita gli alleati di governo a fare altrettanto, in coerenza con gli impegni presi in campagna elettorale.
Questa decisione del Consiglio di Stato ha importanti implicazioni, poiché non solo le norme della legge di bilancio per il 2019 del governo Conte, ma anche le nuove norme del “Milleproroghe” del governo Meloni (legge 14 del 24 febbraio 2023) vanno disapplicate da qualunque organo dello Stato. In altre parole, l’Italia è stata già posta sotto procedura d’infrazione dall’Unione Europea nel 2020 a causa della mancata osservanza della direttiva in questione, e la situazione non sembra destinata a migliorare a breve termine.
L’Europa, nel frattempo, è – come dire – “agghiacciata”, ma non c’è da sorprendersi che un paese costiero come l’Italia, dove le vacanze al lido hanno creato una mutazione antropologica ed economica, la questione balneare sia di prim’ordine.
Dal 1960 in poi il mercato degli stabilimenti e il turismo si è evoluto trasformando le abitudini degli italiani e il paesaggio costiero e la sua economia in modo sostanziale. Oggi quasi la metà delle coste italiane è occupata da stabilimenti balneari, una percentuale tra le più elevate al mondo (il 46% secondo il rapporto 2022 di Legambiente). I dati più recenti rivelano che in Italia ci sono 12.166 concessioni marittime per stabilimenti balneari. Molte di queste concessioni sono nelle mani delle stesse famiglie da decenni, con rinnovi quasi automatici, e lo stato ha ottenuto un incasso irrisorio: appena 115 milioni di euro nel 2019, con una media di soli 3.800 euro all’anno per concessione.
Nonostante i numeri delle concessioni siano relativamente esigui, i balneari vengono spesso considerati a tutti gli effetti una lobby perché rappresentano un’organizzazione di interesse che si adopera per difendere e promuovere i propri interessi economici e professionali, attraverso l’influenza efficace sui processi decisionali politici.
In Italia, tuttavia, il termine “lobby” non ha una definizione precisa e univoca ed è ancora privo di una regolamentazione adeguata. Di conseguenza, esiste un certo grado di incertezza riguardo alla loro operatività, alle loro modalità di intervento e alla loro trasparenza. La mancanza di una regolamentazione formale sulle attività di lobbying rende ancora più difficile monitorare l’attività dei gruppi di interesse e valutare le possibili distorsioni nel processo di formazione delle politiche pubbliche.
Taxi!?
Se con i Balneari non si è mai andati oltre a qualche manifestazione sotto al palazzo, (con manifestanti in costume da bagno Anni ’20 a brandire cartelli e striscioni con scritto LA STORIA SIAMO NOI o STOP ALLE ASTE), il caso dei tassisti è invece ben diverso dal punto di vista delle proteste. La categoria infatti si è molto spesso espressa con manifestazioni del tutto simili a dei riots e l’epilogo nel luglio 2022 del Governo è strettamente e stranamente intrecciato alla cronaca delle proteste di piazza dei tassisti.
I tentativi dei governi italiani di rinnovare la norma che regola il trasporto pubblico non di linea in vigore dal 1992 sono stati periodici, ma molti degli sforzi profusi per adeguare la legge “2192” alle evoluzioni dei tempi e del settore – di cui particolarmente rilevante è la sfida per le regolamentazioni dei servizi digitali orientati al trasporto – si sono scontrati con le proteste dei tassisti e di fronte alle loro proteste e pressioni hanno sistematicamente arretrato.
Sembra evidente che i tassisti abbiano via via ottenuto la visibilità politica e i risultati auspicati, attraverso delle tipologie di pressione, sciopero e contestazione efficaci (e talvolta violente), e delle vere e proprie “strategie di comunicazione” di successo, forti anche di un repertorio di contestazioni che ha radici storiche profonde e di un diffuso appoggio di partiti e leader politici.
Le proteste di piazza dei tassisti avvenute in molte grandi città italiane nel mese di luglio 2022, a partire da quelle organizzate dalle sigle sindacali e cooperative del 4 e 5 luglio, fino a quelle spontanee del 13 e 14, sono l’epilogo di una serie di rimostranze della categoria, sostenuta da alcuni partiti politici, verso il decreto-legge Concorrenza del governo Draghi.
Il testo del decreto, tra i molti settori implicati, interessava anche quello del trasporto pubblico non di linea con una proposta di delega al Governo per le questioni inerenti alle riforme del settore taxi.
Nello specifico è sull’articolo 10 (ex articolo 8) che si sono concentrate le opposizioni di talune parti politiche (in primis Lega, Fratelli d’Italia e LEU) e le proteste di piazza; il passaggio dell’articolo maggiormente contestato riguardava “l’adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti”. A parere dei tassisti, tale formulazione “lascia presagire l’interesse a regalare la gestione del settore a intermediari che pensano di arricchirsi alle spalle dei lavoratori, relegando la funzione del tassista a quella di un rider della mobilità”.
L’opposizione della categoria si è dimostrata decisa e compatta per tutti i primi mesi del 2022, contro lo strumento della delega al Governo che avrebbe in teoria consentito all’esecutivo, entro un anno, di riscrivere le regole del settore senza passare dal Parlamento; il timore espresso nei comunicati ufficiali delle sigle sindacali dei tassisti era che una liberalizzazione delle licenze e una deregolamentazione del settore avrebbe aperto il mercato alle società di capitali, rischiando di cancellare l’autonomia dei tassisti e impoverendone il valore, fino a farne dei “rider”.
Ai nodi storici della protesta quindi (numeri dei taxi disponibili, modalità di assegnazione delle licenze e il loro costo, le regole antiabusivismo) si sono intrecciati i temi più recenti della lotta contro il potere delle multinazionali dei servizi digitali (Uber in particolar modo).
Il passaggio del pacchetto di norme alle Camere è risultato particolarmente periglioso anche per via della strenua opposizione di alcune parti politiche. Proposte di emendamenti soppressivi dell’articolo 10, durante i cicli di esame del disegno di legge in Commissione Attività Produttive, sono venute sia da esponenti della Lega che di Fratelli d’Italia, partiti tradizionalmente vicini alla categoria, ma anche altre forze politiche si sono espresse per la soppressione dell’articolo: nelle fila del PD sono stati Davide Gariglio e Umberto del Basso a presentare emendamenti soppressivi; in quelle di Liberi e Uguali si è molto speso in difesa dei tassisti Stefano Fassina. Pieno sostegno all’articolo 10 è invece venuto da Azione, + Europa e Forza Italia.
Il risultato finale, di seguito alle proteste di piazza e i numerosi interventi parlamentari contrari, è stato in effetti che il 26 luglio 2022 venisse approvato in seconda lettura (la prima contestata versione era quella del 30 maggio 2022) il decreto-legge Concorrenza espunto del contestato articolo 10 riguardante il trasporto pubblico non di linea: un esito che è stato accolto come un chiaro punto di vittoria per la categoria dei tassisti e per le parti politiche battutesi per mesi per la soppressione dello strumento della delega al Governo.
Il sistema delle licenze taxi, gli NCC e le app.
La regolamentazione del servizio taxi in Italia si può ridurre a delle regole nazionali che impongono ai tassisti l’obbligo di servizio, ovvero l’obbligo di accettazione di tutte le corse, anche se antieconomiche, e la gestione dei turni di lavoro, a seconda di normative comunali che danno anche le indicazioni sulle tariffe tramite tassametro; a fronte di questi obblighi, il numero delle licenze è contingentato e sono rilasciate dai comuni a soggetti singoli sulla base di concorsi e requisiti e nei limiti di parametri calcolati rispetto al numero di abitanti.
La categoria è da sempre compatta nel rifiuto di qualsiasi possibilità di liberalizzare le licenze, dalle sigle più “radicali” a quelle più moderate come URI Unione Radio Taxi che riunisce circa un terzo delle licenze registrate in Italia (su un totale di circa 40.000 licenze registrate).
La licenza taxi in Italia viene storicamente “passata di mano” attraverso compravendite “private” con le quali un proprietario che intenda interrompere la sua attività per ragioni di anzianità o per semplice opportunità, è in grado di vendere la licenza a prezzi non regolamentati e variabili da città a città.
In questo modo il ricircolo delle licenze avviene in un sistema chiuso e interno al gruppo professionale locale, fuori da regole e tutele concorrenziali chiare. La licenza taxi assume quindi le sembianze di un sistema di privilegi corporativi .
Altra battaglia storica dei tassisti è quella contro l’abusivismo degli NCC, il servizio dei noleggiatori con conducente che, forti di un numero di licenze rilasciato dai comuni abbastanza generoso, possono praticare forme di trasporto non regolare nelle grandi città, andando a danneggiare il servizio taxi.
La terza linea di contrasto dei tassisti, anche questa ormai decennale, è quella contro Uber. La lotta contro l’applicazione della Silicon Valley non è da intendersi come una protesta luddista tout court che vuole sbarrare del tutto il settore all’ingresso del digitale, tant’è che esistono in Italia già dal 2012 applicazioni mobili come quella di IT Taxi, We Taxy e altri servizi digitali diffusi in tutto il territorio nazionale di cui però realmente nessuno è ancora riuscito a imporsi sul mercato. La stessa IT Taxi ha siglato proprio nel maggio 2022 un accordo con Uber provocando ulteriori reazioni di protesta dalle frange più radicali del mondo dei tassisti. Da questi Uber viene riconosciuto come una minaccia alla propria autonomia di lavoratore, perché il modus operandi dell’azienda è associato a “simbolo” di quegli interessi capitalistici su larga scala svincolati da regole chiare ed etica del lavoro: nel caso dell’accordo recente di IT Taxi, ad esempio, il timore manifestato è che Uber potrebbe venir meno ai patti dell’accordo con IT Taxi, impossessandosi dei dati personali della clientela a proprio vantaggio.
Il clima di protesta contro Uber si è aggravato dal 10 luglio 2022 con la pubblicazione dell’inchiesta Uber Files, caduta proprio a ridosso degli scioperi contro il DdL Concorrenza del Governo. A seguito dei primi scioperi indetti dalle sigle sindacali il 4 e 5 luglio ne sono seguiti altri non coordinati dalle sigle il 13 e 14 e luglio, scatenati soprattutto dai leakes rilasciati dal quotidiano britannico “The Guardian”.
Riguardando agli episodi dell’estate 2022, è facile rilevare che numerose parti politiche si siano mobilitate online tramite gli account social per dichiarare il sostegno dalla categoria dei tassisti.
L’account Twitter di partito di Fratelli d’Italia ha prodotto i consueti “banner social” come quello condiviso da Daniela Santanché in cui si legge “Fratelli d’Italia a sostegno della categoria dei tassisti contro la speculazione delle multinazionali”. Matteo Salvini ha dichiarato il 13 luglio via Twitter: “La Lega chiede lo stralcio della norma che coinvolge i 40mila tassisti nel decreto concorrenza. È necessaria anche l’attuazione dei decreti ministeriali come chiedono i lavoratori e il Consiglio di Stato.” Sempre tra le file della Lega, la deputata Benedetta Fiorini, Segretario della Commissione Attività produttive, commercio e turismo, insieme al collega Edoardo Rixi, responsabile Trasporti e Infrastrutture della Lega, si sono spesi in tweet di soddisfazione per il lavoro svolto per la soppressione dell’articolo 10 dal testo del DdL Concorrenza.
Il sostegno alla categoria non è mancato dal canale Twitter di Gianluigi Paragone, leader di Italexit, che si ritrae nel classico selfie insieme ai manifestanti incatenati davanti a Palazzo Chigi il 13 luglio 2022, includendo nella caption del tweet alcuni hastag come #draghistan, ironica allusione a un’immaginaria nazione sottomessa alle volontà dall’autocrate Mario Draghi. Sugli stessi toni esplicitamente anti-draghiani gli interventi social di Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. Lo stesso Rizzo il 13 luglio 2022 scenderà in piazza con una “delegazione di operai” non meglio specificata e uno striscione con scritto “Operai e tassisti uniti nella lotta”.
Ampio appoggio alle proteste è venuto anche da parti più moderate; ad esempio, dalle file di LEU, Stefano Fassina si è ripetutamente dichiarato contro il testo del DdL Concorrenza, coerentemente con le posizioni espresse anche negli anni passati. Dichiarava già il 28 maggio 2022, due giorni prima la prima approvazione in Senato del testo: “#Taxi: la concorrenza non si fa sulla pelle di lavoratori e lavoratrici. Va colpito lo sfruttamento del lavoro attraverso le piattaforme. Non costretti i tassisti allo sfruttamento. Alla Camera, l’art 8 del DdL Delega per la #concorrenza va stralciato”. Pieno sostegno all’articolo 10 è invece venuto dai partiti di Azione, +Europa e Forza Italia.
Il dato comune a tutte le espressioni di sostegno dei politici verso la protesta è, ancora una volta, il tema delle multinazionali come minaccia verso i diritti dei lavoratori, tema che in taluni casi, come quello delle forze d’opposizione, si è saldato maggiormente al frame “anti-Draghi”, utilizzando canoni espressivi che sembrano tipici di uno stile comunicativo populista anti-élite, laddove l’élite è identificata con il Governo e le multinazionali e i tassisti sono identificati con la parte buona, il popolo.
Domandare alla politica, premere sull’opinione pubblica
La domanda che tassisti e balneari avanzano alla classe politica è di assumere una postura di chiusura difensiva verso tutte le proposte di stravolgimenti dei settori, in una logica corporativa di mantenimento dei propri diritti di prelazione sul servizio che si è storicamente presidiato. Come dire, voglio che la mia professione sia garantita nel tempo e non soggetta a regole di concorrenza che rischiano di mettermi fuori dai giochi: tu difendi i miei interessi in sede decisionale, io ti garantisco il mio appoggio elettorale o ne minaccio la revoca. E a quanto pare riescono nei loro intenti: la politica delle destre (ma non solo) ha sistematicamente appoggiato le loro richieste, dimostrandosi largamente influenzabile dalle pressioni da loro esercitate.
Le spiagge e il modello di intrattenimento che rappresentano, sono ad esempio considerate una “tipicità” del “made in Italy”. In questo contesto simbolico, vengono fusi riferimenti ai potenziali rischi di acquisizioni da parte di multinazionali del settore e alla necessità di proteggere le “eccellenze delle nazioni economicamente più fragili”, come ha sostenuto Fabio Rampelli, esponente del partito politico Fratelli d’Italia.
Le stesse dinamiche protezionistiche si sono espresse nella lotta dei tassisti contro le ingerenze delle multinazionali alla Uber (piccola lobby contro lobby), ma quello che caratterizza in maniera specifica i tassisti rispetto ai balneari è la natura spesso violenta della protesta di piazza.
La curva della protesta dei tassisti in Italia si è sviluppata in un arco temporale più che decennale e in questo tempo ha disegnato una doppia dinamica, caratterizzata da un lato dalle pressioni per la tutela dei propri interessi – tanto in contrasto con i “cugini” noleggiatori con conducente (NCC), quanto con le politiche di liberalizzazione promosse dalle piattaforme digitali alla Uber –, e dall’altro da un efficace allineamento a temi di interesse collettivo a cui la maggioranza dell’opinione pubblica si è dimostrata via via sempre più sensibile. Tra questi temi “ponte” vi è, in primis, l’opposizione al modello di business predatorio della app-economy, sia dal punto di vista dello sfruttamento del lavoratore, sia da quello della tutela delle categorie professionali dall’ingerenza del “potere globale” e deregolamentato delle multinazionali.
Dall’altro lato i balneari si configurano come un gruppo di pressione più “istituzionalizzato” dei tassisti e quindi con una tradizione di protesta meno sviluppata, ma non per questo meno efficace nei risultati. I tassisti in alcuni frangenti, anche su scala internazionale, si sono invece mossi come dei veri e propri riots.
Entrambi i casi, tassisti e balneari, sono paradigmatici perché esprimono il valore della battaglia difensiva contro le liberalizzazioni, con numerosi riferimenti al protezionismo, al vittimismo, alle argomentazioni “contro il potere delle multinazionali” che vengono usate come una sorta di pretesa spirituale.
Ma a rimetterci in fondo è soprattutto il consumatore, perché una logica corporativa di chiusura difensiva rischia di generare effetti negativi non solo sulla competitività del settore ma anche sulla qualità dell’offerta di servizi all’utenza finale. Inoltre, la chiusura corporativa favorisce lo sviluppo, e su di esse si fonda, di dinamiche di pressione opache, finalizzate al sostegno politico attraverso la minaccia del voto, piuttosto che attraverso la capacità di innovare e di adattarsi alle nuove esigenze del mercato.