La ricezione di massa del pensiero e delle opere di Mark Fisher nel nostro paese sembra coincidere con la data del suo suicidio, avvenuto il 13 gennaio del 2017. Fino a quel momento, la fama del filosofo, critico musicale e teorico politico britannico era rimasta confinata a una cerchia relativamente ristretta di persone che, in vari modi e per diverse ragioni, incrociavano le orbite del pianeta Fisher coi loro interessi e oggetti di ricerca.
Di fondamentale importanza per la diffusione del pensiero di Fisher in Italia è stato il lavoro di due case editrici, Not e Minimum Fax che, nel corso degli ultimi anni, ne hanno tradotto e pubblicato quasi tutte le opere precedentemente uscite sul mercato anglosassone.
Un notevole sforzo che, tuttavia, da solo non è sufficiente a esaurire la complessità dell’opera fisheriana, i cui scritti, oltre che nei libri, sono stati disseminati nel corso del tempo tra riviste e blog, andando a costituire un insieme tanto magmatico per il modo in cui è stato sviluppato, quanto coerente nelle traiettorie intellettuali che traccia.
Il corpus di opere oggi disponibile ai lettori italiani non fa che rafforzare questa impressione di rizomaticità, che non riflette solo la biografia intellettuale del suo autore, ma ne caratterizza anche la personalità e il vissuto. Il metodo e la ricerca di Fisher sono infatti legati a doppio filo alla sua esperienza come intellettuale pubblico. Esperienza giocata tanto nell’attività di blogger quanto in quella, altrettanto importante, di docente presso la Goldsmiths University di Londra.
Ed è proprio su questa dimensione così importante per la vita e il lavoro di Fisher che apre una finestra Desiderio Postcapitalista, l’ultimo libro dell’autore inglese ad apparire in Italia, pubblicato pochi mesi fa dalla già citata Minimum Fax. Il volume raccoglie infatti le prime 5 lezioni dell’omonimo seminario, iniziato negli ultimi mesi del 2016 e terminato prematuramente al momento del suicidio di Fisher.
Al lettore che vi ci si avvicina, questa raccolta offre perciò l’opportunità di affacciarsi sia sulla personalità del Fisher docente, gettando così una luce sul ruolo che l’insegnamento aveva nell’andare a costituire il suo pensiero, sia sul rapporto tra desiderio e coscienza di classe, che costituisce il nucleo incandescente e incompiuto delle sue ultime riflessioni.
Il tema delle lezioni ruota infatti intorno alla possibilità di sviluppare una controlibido che disarticoli il rapporto tra merce e desiderio, dando vita a una forma di desiderio che Fisher definisce “postcapitalista” e che descrive nei seguenti termini:
“Il termine postcapitalismo implica la vittoria […]. Quando parliamo di postcapitalismo, supponiamo che esista qualcosa oltre il capitalismo. E implica anche una direzione, Giusto? Se è postcapitalismo, indica una vittoria, una vittoria raggiunta attraverso il capitalismo. Non si oppone semplicemente al capitalismo, ma è ciò che succede quando il capitalismo è finito.”
Quella postacapitalista è dunque una condizione che rappresenta il primo movimento che conduce in direzione del superamento dell’attuale stadio di sviluppo del capitalismo. Ma è anche un movimento che, mentre nega il capitalismo, ne mantiene intatte alcune delle infrastrutture. Dice ancora Fisher:
“Parte da dove ci troviamo adesso. Non è uno spazio completamente separato, credo che questo sia implicito, no? Il concetto di postcapitalismo è qualcosa che si sviluppa dal capitalismo. Si sviluppa dal capitalismo e muove oltre. Ciò significa che non siamo costretti a immaginare una pura alterità, un puro esterno. È uno dei caratteri del postcapitalismo.”
È il solco dell’accelerazionismo di sinistra, della sua lettura delle fasi e delle tendenze che animano la contemporaneità, quello entro cui Fisher inserisce la sua traiettoria e le sue elaborazioni teoriche.
Ma quali sono le caratteristiche che distinguono il capitalismo al suo attuale stadio di sviluppo?
Nel corso delle sue lezioni, Fisher prova a rispondere a questa domanda. Lo fa scegliendo come punto di partenza un’elaborazione del rapporto irrisolto tra la sinistra tradizionale e la controcultura. Nel corso degli anni ’70, sostiene Fisher, la prima ha mancato l’opportunità di farsi trasformare dall’incontro con la seconda, aprendo così alle forze del capitalismo e della destra di mercato la possibilità di appropriarsene in forme reificate.
Dice infatti Fisher, in un saggio del 2013 pubblicato su e-flux e citato dal Matt Colquhoun nell’introduzione a Desiderio Postcapitalista, che
“mentre lei [la controcultura] ascoltava musica e parlava di libertà, il socialismo sembrava invece puntare alla centralizzazione e al controllo statale”, abbracciando lo stesso grigio e burocratico immaginario da Guerra Fredda che, in 1984, il celebre spot Apple degli anni ’80, veniva fatto a pezzi delle forze del desiderio capitalista, incarnate in una dirompente figura femminile. Così militarizzato, il desiderio e la sua forza sono state usate dal capitalismo come ariete contro l’immaginario e le strutture della sinistra tradizionale, che si era dimostrata incapace di farsi attraversare dai suoi flussi.”
Incapace di accogliere la potenza trasformatrice della controcultura, la sinistra tradizionale abbandona le forze del desiderio al capitale, smettendo progressivamente di rappresentare, nella società, le forze votate al cambiamento e finendo per incarnarne e rappresentarne altre, quelle della classe media borghese, più interessate alla conservazione del proprio status quo.
In questa dinamica si innesta un’altra tendenza che caratterizza con forza l’attuale stadio di sviluppo del capitalismo: la progressiva espulsione dal discorso pubblico del discorso di classe, a vantaggio di una serie di politiche centrate intorno al concetto di identità. La coscienza di classe, che rappresenta il processo attraverso cui si giunge al riconoscimento di una condizione comune di sfruttamento che prescinde dalle differenze (di genere o di razza), viene così sostituita da una serie di identità in conflitto tra loro per ottenere quell’insieme di richieste che ne costituisce l’essenza ultima e più profonda.
L’identità e le sue politiche non sono nient’altro che una forma di reificazione del discorso di classe. È questa dinamica di reificazione che permette alla destra di parlare in nome della classe lavoratrice, facendo dell’invidia il solo metro di azione politica e prevenendo attraverso l’odio di classe la saldatura tra le minoranze e la classe professional-manageriale da cui poteva svilupparsi una più complessa coscienza della distanza che passa tra la condizione di entrambi questi segmenti della società e lo stato di cose per come è descritto dall’ideologia dominante.
A cementare questa serie di disgiunzioni interviene la costante produzione di scarsità di tempo, che il capitalismo opera attraverso lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione digitale, per poi estenderne la logica in ogni altro settore della vita in comune.
Nasce così la percezione di un tempo reale che è allo stesso tempo illusorio – perché sempre differito – e senza soluzione di continuità – perché ogni contenuto digitale prodotto porta incorporate le marche della propria temporalità (data e ora di produzione). Il tempo digitale appare così come una riformulazione del paradosso di Achille e la tartaruga, dove il tempo ha preso il posto dello spazio rendendo il futuro irraggiungibile attraverso la sua proiezione in un presente eterno ma irragiungibile.
La fondazione di un desiderio postcapitalista, che come abbiamo visto, è lo scopo del lavoro di Fisher nella fase finale della sua vita, si basa sulla diagnosi che ho provato a sintetizzare nei paragrafi precedenti. Essa può avvenire e verificarsi in primo luogo disarticolando la relazione tra capitalismo e desiderio, riappropriandosi di quest’ultimo per farne il motore dell’azione politica.
Senza desiderio, sembra suggerire Fisher, non c’è alcuna visione del futuro possibile, perché solo il desiderio ha la forza per proiettarsi oltre il presente infinitamente protratto instaurato dalla comunicazione digitale e connettiva.
Per avvicinarsi a questo obiettivo non solo è necessario recuperare il primato della coscienza di classe rispetto alle politiche dell’identità. Essa va superata verso una più ampia forma di coscienza che Fisher definisce “di gruppo”.
Tale coscienza, sviluppata in base alla teoria femminista del punto di vista, permette di accedere a una coscienza del proprio posizionamento rispetto alla descrizione della realtà fatta dall’ideologia dominante. È grazie a una coscienza di questo genere che è possibile dare vita a un nuovo soggetto collettivo, capace di attraversare la società muovendosi sia lungo l’asse verticale delle discriminazioni legate all’identità personale sia lungo quello orizzontale dell’appartenenza di classe, dando così vita a un movimento che ha in sé i semi della trasformazione. Fisher riflette così a questo proposito:
“Parte del problema della vecchia concezione di verità oggettiva, potremmo dire, era questa idea che la coscienza non produce effetti sulla verità. ILlche forse può essere vero quando si parla dello stato di un buco nero o di cose simili, ma non può certo valere per le relazioni sociali. Io sono dentro queste relazioni sociali. Sono già all’interno di queste relazioni sociali. Perciò quando io (e non posso essere soltanto io a farlo, mai), quando la coscienza di gruppo si sviluppa, quando si sviluppa la coscienze di classe, quando si sviluppa la coscienza di qualsiasi gruppo subordinato, ciò cambia immediatamente la situazione, all’istante.”
Condizione imprescindibile per lo sviluppo e il successo di questo processo è quindi la ricostruzione di un tempo favorevole all’azione politica. Un tempo svincolato dall’imperativo alla funzionalità che ne domina la forma attuale. Un tempo fatto di vuoti che possono essere riempiti da un desiderio di trasformazione e trovare compimento in un dimensione di rivendicazione del potere.
La questione del potere, della sua acquisizione e della sua gestione, rappresenta uno dei punti focali della riflessione politica fisheriana, nonché uno dei fronti su cui essa è in più forte disaccordo con le elaborazioni teoriche e le pratiche più diffuse nella sinistra contemporanea. Fisher stigmatizza infatti l’idea, assai diffusa, che
“Il potere è in se stesso patologico. [che] esercitare il potere significa essere inevitabilmente oppressivi, quindi è meglio essere feriti, è meglio far parte degli offesi, degli umili, perché così non si ha alcun potere, che è oppressivo.”
Mentre, al contrario, ogni progetto politico ha come obiettivo la presa di una certa quota di potere. È dunque questa, in ultima analisi, la meta che Fisher si auspica di raggiungere nel corso delle lezioni dedicate al desiderio postcapitalista: la costruzione di un metodo funzionale alla presa di questa certa quota di potere, così come si confà ad ogni progetto politico degno di questo nome.