Quando, nel 1999, Jay David Bolter e Richard Grusin coniano il termine rimediazione per riferirsi alla rappresentazione di un mezzo di comunicazione di massa all’interno di un altro, i due studiosi americani hanno in mente la dinamica in base a cui i media analogici vengono migrati da quelli digitali al loro stesso interno, in un processo continuo di confronto e integrazione che trasforma ogni medium in un ibrido di diversi elementi. Alla base del loro ragionamento c’è l’intuizione di McLuhan secondo cui “il contenuto di un medium è sempre un altro medium”.
Quello che all’epoca non appariva ancora in modo abbastanza evidente era quanto in profondità potesse spingersi il processo di rimediazione che, oggi, attraverso scarti e accelerazioni, è arrivato fino alla soglia dell’umano, sempre più integrato alla lunga catena di automatismi che legano tra loro le piattaforme e le tecnologie digitali e perciò formattato a uso e consumo delle stesse piattaforme e tecnologie.
È questa la tesi forte che attraversa le pagine di E: la congiunzione, il proteiforme saggio che il teorico Franco “Bifo” Berardi ha pubblicato per la prima volta in inglese nel 2015, aggiornandolo poi nel 2017 per la pubblicazione in spagnolo e, infine, aggiornato nuovamente e pubblicato in italiano nel luglio del 2021 dai tipi di Nero Editions nella ormai celebre collana Not.
Nelle pagine del libro, Berardi si propone di analizzare quella che lui stesso definisce come una grande mutazione, determinata dalla diffusione delle tecnologie digitali da una parte e dalla globalizzazione dall’altra. “A livello diacronico” dice Berardi a questo proposito “si trattava di descrivere, o piuttosto di concettualizzare, la trasformazione che si manifesta nel passaggio da una generazione all’altra e si presenta come tecnomutazione connettiva. A livello sincronico, però, questa trasformazione intreccia stratificazioni culturali, estetiche ed erotiche depositate dalla storia moderna, i conflitti culturali ed economici, il divenire politico del mondo. Il trasformatore tecnico (digitale) non si inserisce infatti in uno spazio omogeneo, ma entro contesti culturali diversi.” A mutare in modo radicale, sostiene il filosofo bolognese, sono le modalità attraverso cui noi esseri umani entriamo in relazione gli uni con gli altri. A segnare questa mutazione – che è sia tecnologica che cognitiva – è il passaggio da una modalità (o concatenazione) congiuntiva a una modalità (o concatenazione) connettiva come forme principali dell’interazione tra persone. Berardi chiama “congiunzione una concatenazione di corpi e di macchine che può generare significato senza riconoscere e ripetere un disegno preordinato, senza rispettare una sintassi. La connessione invece, è concatenazione di corpi e di macchine che può generare significato soltanto seguendo un disegno intrinseco, e conformandosi a regole precise di comportamento e di funzionamento”. Possiamo pensare alla prima di queste due modalità come a una forma di scambio che si basa sulla comprensione empatica dell’altro, sulla dimensione aptica e corporea della relazione, sull’intensità erotica delle interazioni. La seconda modalità invece sostituisce alla prima una forma di scambio che si basa sul “formato sintattivo dei segni e delle interazioni”. Analizzando la produzione di contenuti digitali – diventata ormai una delle attività produttive quantitativamente più rilevanti della nostra contemporaneità – si può iniziare a individuarne la logica e alcune delle modalità di funzionamento.
Scelgo di prendere come esempio concreto di produzione di contenuti il SEO copywriting, ovvero la scrittura di testi ottimizzati per favorire l’indicizzazione e il posizionamento di una pagina web sui motori di ricerca. Tale attività consiste nell’individuare quali sono le variazioni più convenienti all’interno del campo semantico a cui fa riferimento il contenuto che si desidera far indicizzare e posizionare; e con tali variazioni costruire un testo che rispetti una serie di parametri. Tra questi parametri ci sono, ad esempio, la presenza di determinati tag HTML (come le diverse varianti del tag <H>, che identifica i titoli e i sottotitoli in ordine decrescente di importanza), il numero di volte in cui la parola chiave di riferimento viene ripetuta (keyword density), la presenza della parola chiave nell’URL della pagina e molti altri.
Tali parametri vengono definiti e resi pubblici dai motori di ricerca. Tuttavia non rappresentano l’intero set di segnali che vengono da essi utilizzati per determinare l’indicizzazione e il posizionamento di una specifica pagina. Se così fosse chiunque potrebbe ottimizzare una pagina certo di raggiungere la prima posizione per una determinata chiave di ricerca. Tale situazione azzererebbe però ogni competizione, rendendo inutile la funzione di classificazione che è propria della logica di funzionamento dei motori di ricerca più diffusi. Allo stesso modo del poker, l’attività di ottimizzazione di un sito web si configura perciò come un gioco a informazione mancante. In questa categoria di giochi, il giocatore possiede alcune informazioni utili a ottenere il risultato sperato, ma deve dedurne altre, di fondamentale importanza, confrontandosi con segnali impliciti in una dimensione empirica. L’attività di ottimizzazione diventa così una rincorsa al risultato continua e senza fine, che prevede aggiustamenti continui per restare al passo con gli standard espliciti e impliciti, definiti da quelle entità volubili che sono i motori di ricerca.
Quella appena descritta è solo una della forme di quell’automa cognitivo globale che “si costituisce ricavando pattern comportamentali dalla registrazione continua dell’esistente, individuando i punti di possibile cablatura nel flusso dei comportamenti e inserendo congegni dotati di intelligenza artificiale negli snodi” e al cui interno, sostiene Berardi, noi esseri umani veniamo sempre più integrati mano a mano che il passaggio dalla modalità congiuntiva a quella connettiva della relazione si struttura e s’approfondisce.
Dal momento che la mutazione tecnocognitiva interessa sincronicamente ogni aspetto della società, è rilevante notare come tale integrazione all’interno dell’automa cognitivo globale faccia sistema con la parabola del capitalismo neoliberista, la cui traiettoria prosegue da quasi quarant’anni senza che se ne riesca a intravedere una fine che non implichi una catastrofe di proporzioni spaventose. E se ai tempi di Thatcher e Reagan l’individuo era solo di fronte al mercato che ne regolava la vita – there is no such thing as society – oggi esso pare consegnato interamente nelle mani dell’automa che ha sussunto in sé anche il mercato (o forse è il mercato a essere sempre stato una sorta di automa). Quali conseguenze produce questa dinamica nella vita delle persone che più le sono esposte?
Pur non essendo implicite ho l’impressione di vederle, o di percepirle in filigrana, in una coppia di video pubblicati a distanza di sei mesi l’uno dall’altro da GaBBoDSQ, un content creator italiano piuttosto famoso nell’ambito del gaming. I video si intitolano È il momento di cambiare le cose e Fine di un’era. Sono entrambi tanto una riflessione sul mestiere di content creator, quanto una confessione della fatica e dello stress che esso comporta. Nei quindici minuti circa di girato, ascoltando le parole che condivide con i suoi follower, Gabriele in arte GaBBoDSQ – con cui ho in comune età e condizione, dal momento che anche io sono diventato padre più o meno nello stesso momento – ho l’impressione che dietro il suo malessere ci sia un rapporto non risolto e non risolvibile proprio con quello che Berardi ha chiamato “automa cognitivo globale”. Esso esige una fedeltà assoluta da chi, come un content creator digitale, gli affida il proprio sostentamento senza mai riuscire a rompere la barriera che separa la notorietà dalla fama. Tale fedeltà consiste nel formattare ogni aspetto della propria vita ai parametri e agli standard che l’automa impone. Nella nostalgia tra il periodo di YouTube e l’epoca di Twitch che Gabriele articola a un certo punto della sua confessione, io leggo la difficoltà nel passare da una modalità di lavoro che prevedeva una certa forma di controllo del tempo, a un’altra che invece impone una presenza costante e continuativa, pena la perdita assoluta di rilevanza e, con essa, dei mezzi di sostentamento.
Tale condizione è rappresentata in modo magistrale da Bo Burnham in Inside, un film che mi spingo a considerare come il Tempi moderni della fabbrica digitale globale. Scritto, diretto, girato, interpretato e montato dallo stesso Burnham durante il primo lockdown dichiarato in risposta alla pandemia di Sars-Cov2, Inside è una lunga teoria di format e modalità di produzione di contenuti digitali, che l’autore parodizza accarezzandole con la dolcezza e la profondità proprie dei grandi artisti. Il “dentro” a cui fa riferimento il titolo infatti non è solo l’interno dell’abitazione in cui Burham è costretto, ma è anche e soprattutto l’interno dell’automa cognitivo globale in cui, come Berardi sostiene nel libro, l’umanità sta venendo integrata in modo sempre più inevitabile. Le insistite inquadrature che raffigurano Burnham riquadrato da cornici, specchi o stipiti di porte rappresentano esattamente tale chiusura; così come il fatto che ogni sketch si sussegua senza soluzione di continuità e rappresenti il ritmo incessante a cui si muove la fabbrica di produzione del contenuto; mentre la dimensione sintattica è messa in evidenza in modo magistrale nello sketch delle reaction, quando lo schermo si moltiplica nella reazione alla reazione della reazione e così dà vita a uno sprofondamento senza fine nelle spire dell’automa cognitivo globale.
Con le sue immagini, Burnham rappresenta la condizione di cui Berardi fa una straordinaria anamnesi nel suo libro. Per quanto le sue tesi possano essere discusse e discutibili, soprattutto nell’insistenza con cui Berardi oppone la dimensione corporea a quella virtuale delle relazione digitale, raramente mi sono imbattuto in una descrizione della nostra condizione così chiara, coerente ed efficace nello spiegare la complessità dei tempi che stiamo vivendo. Facendo ricorso a una cassetta degli attrezzi ampia e variegata in cui psicologia, filosofia, critica tecnologica, artistica e neuroscienze s’intrecciano tra loro, Berardi riesce a cogliere un’immagine del cambiamento in cui nessuno degli elementi chiave appare sfuocato o non sufficientemente inquadrato.
Ed è proprio per questa qualità della ricognizione che ho trovato nelle sue conclusioni una mancanza che me le fa apparire non all’altezza delle premesse. Di fronte alla presa d’atto di quanto l’umano sia strettamente avviluppato ai tentacoli dell’automa cognitivo globale e della sua capacità di agire modificando la plasticità del nostro cervello riscrivendone le modalità di funzionamento, Berardi arriva a concludere che “il cuore del problema, apparentemente politico ma non più affrontabile dalla ragione e dalla pratica politica, non più soggetto al dominio della volontà razionale, debba essere consegnato alla neuroingegneria. Più precisamente, penso a una neuroingegneria psichedelica”. Alla base di questa affermazione c’è l’idea che “un dilemma si stende come un’ombra sul futuro prossimo: il dilemma tra adattamento del sistema nervoso all’ambiente sociale e fisico che diviene sempre più intollerabile per la sensibilità, e la riorganizzazione autonoma dell’intelletto generale”. In questo scenario, l’ipotesi entro cui lo stesso Berardi dichiara di muoversi è quella che “il trauma possa creare le condizioni per elaborare una coscienza della mutazione, o piuttosto costringere la mente collettiva a modificare le sue modalità di funzionamento cognitivo” e che “una ristrutturazione dell’attività cognitiva, che la psichiatria tenta di rendere possibile sul piano delle terapie individuali, possa costituire l’asse portante di un passaggio evolutivo gigantesco, destinato a rimodellare le attese fondamentali della società e le forme di vita, di consumo, di affettività”. Più volte, mentre mi muovevo attraverso le pagine finali del libro, mi sono chiesto se questa ipotesi psichedelica possa bastare. Ma non è tanto questo il punto, perché non ho gli strumenti adeguati per rispondere su quanto possa essere efficace una forma di neuroingegneria psichedelica nel ristrutturare la nostra attività cognitiva ormai plasmata in base alla logica sintattica delle tecnologie digitali di produzione e distribuzione dell’informazione. L’enorme attenzione che la psichedelia sta riscuotendo negli ultimi dieci anni (quello che viene chiamato “rinascimento psichedelico”) è senza dubbio un segno di quanto questa ipotesi sia tutto tranne che una fantasmagoria estemporanea. Piuttosto, e da profano, mi domando come può essere possibile un’operazione di tale magnitudo, in assenza di una forma di organizzazione dei corpi che non può che essere politica e passare dalla pratica politica, per quanto questa dimensione oggi appaia inefficace e scavalcata da un ambiente tecnosociale in cui la volontà è bypassata dagli automatismi linguistici del codice e degli algoritmi. Ma forse, così mi dico, non è a Berardi che devo rivolgere una domanda di tal fatta, perché distillare una pratica politica all’altezza dei tempi che viviamo non è più uno dei compiti a cui il filosofo bolognese deve, vuole o può assolvere. Forse la responsabilità di tale compito spetta a me, alle persone come me. O forse, ed è questa l’ipotesi per la quale tendo a propendere, per la generazione a cui appartengo il tempo per assolvere a questo compito sta per finire senza che se ne sia stati capaci. Se è così, mi domando ancora, allora cosa altro mi resta da fare se non farmi da parte e lasciare spazio alle persone che stanno arrivando dopo di me, chiedendo loro semplicemente “di cosa avete bisogno?”, “cosa posso fare per voi?”, “di quali pesi posso farmi carico al posto vostro?”