Il taglio volontario del 30% sui propri stipendi, deciso dai calciatori e dall’allenatore della più ricca società italiana di calcio, è un buon esempio di quanto la drammaticità di questo periodo storico sia sfociata quasi con naturalezza in eventi che fino a trenta giorni fa sarebbero stati impensabili.
Con un gioco paradossale, potrebbe essere interessante analizzare alcuni fatti, di attualità o del passato, e farci alcune domande convertendo il nostro pensiero allo sguardo nuovo di cui nostro malgrado sembriamo dotati. Per farlo, potremmo svariare tra accadimenti molto diversi fra loro, scaglionati sia nel tempo che nello spazio, ma accomunati dalla possibilità di simboleggiare alcuni dei nuovi modi di pensare il futuro (in termini prima di tutto economici, ma anche etici e ambientali) che saranno probabilmente inderogabili, una volta passata la pandemia; potremmo anche ricorrere, per correttezza, a una specie di avvocato del diavolo, una visione diversa, insomma un contraddittorio immaginario; e soprattutto potremmo servirci di uno degli studi di economia più importanti del decennio: il mega-saggio Il Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty.

Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani
Non sarebbe stato giusto, poniamo, già da prima del Covid-19, creare un tetto ai salari di individui che per i proverbiali due calci a un pallone guadagnano ogni anno come il PIL del Botswana?
Il nostro contraddittorio immaginario, magari un liberista convinto, potrebbe rispondere: è il mercato che decide, i salari sono commisurati ai proventi della Lega Calcio, agli introiti televisivi, all’indotto che come sai è gigantesco (i liberisti immaginari usano volentieri l’arma del “come sai” come captatio benevolentiae dell’interlocutore).
Potremmo ribattere: e non sarebbe stato giusto, già da prima, creare un tetto ai proventi della Lega Calcio e agli introiti televisivi che gonfiano ad arte — come sai — una rete di prezzi chiaramente fuori scala rispetto alla società in cui prosperano?
Non sarebbe stato giusto, già da prima che non ci fosse più nulla su cui scommettere, limitare il potere delle società di scommesse (società di betting si digerisce meglio, lo so) per una questione di dignità, prima ancora che di decreto?
Il liberista risponde: il commercio non si misura con il metro della dignità, ma della legalità: e le società di scommesse sono legali.
Proseguiamo, a ritroso nel tempo: non sarebbe stato giusto, per limitarci a casi italiani, porre un limite ai faraonici compensi che gli alti dirigenti delle banche Etruria, o Carige, o Popolare di Bari — colossi sulla via del fallimento — si elargivano il più delle volte da soli?
Il liberista, ormai un amico, risponde: quei dirigenti erano evidentemente stati i più meritevoli e i più intraprendenti.
Si può ribattere che sfugge qualcosa del merito dei dirigenti, se è vero che quelle banche erano sull’orlo del fallimento; e che la forbice impressionante e sempre crescente tra i redditi medi degli alti dirigenti — spesso, appunto, provvisti della facoltà di auto-premiarsi, indipendentemente dai risultati — e quelli della classe media è una delle cause che hanno portato gli Stati Uniti a essere il paese con maggiori disuguaglianze in Occidente. È accettabile una società (come Thomas Piketty, sulla scorta di una corposa documentazione, ipotizza diventeranno gli Stati Uniti nel 2030), dove il 10% dei più ricchi si prende il 45% del totale dei redditi (e l’1% più ricco in quel 10% — per capirci: quelli che finiscono su Forbes — si prende il 17%); la fascia intermedia (corrispondente al 40% della popolazione) il 35%; la fascia dei più poveri (50% della popolazione) il 20% del totale dei redditi?
Era giusto, dunque, il darwinismo fantozziano dell’economista liberale Charles Dunoyer, che nel 1845 scriveva “l’effetto del sistema industriale è distruggere le disuguaglianze fittizie, ma per far emergere meglio le disuguaglianze naturali”, come in un sistema magicamente autoregolato dove l’essere miserabili o megadirettori naturali è puramente frutto del merito?
L’amico liberista è scomparso, forse stordito dal tono velatamente populista dell’arringa e dalla mole di cifre; o probabilmente è corso a controllare il rendimento dei propri hedge funds.
Era giusto che nella Belle Époque i rentiers (gli aristocratici, spesso grandi proprietari terrieri, che vivevano grazie alla propria rendita e agli interessi sui titoli di stato: gruppo sociale dominante in Francia fino alla Prima guerra mondiale) possedessero da soli il 90% della ricchezza totale pur essendo il 10% della popolazione, dominando senza sforzo un paese privo di classe media solo in virtù delle proprie rendite, come descrive con esattezza chirurgica Honoré de Balzac?
(“Il cittadino Goriot ammassò i capitali che più tardi gli servirono per dedicarsi ai suoi commerci con tutta la superiorità che deriva dal possedere molto denaro.”)

Era giusto, ad esempio, che un modello perfetto di rentier come Madame Adelaide in Gli Aristogatti, ambientato a Parigi nel 1910, potesse trasmettere ai potenziali eredi un patrimonio con cui essi avrebbero avuto un tenore di vita 80-100 volte superiore a quello consentito dal salario medio della generazione successiva?
(Non saprei rispondere, ma colgo qui l’occasione per dire che non ho mai sopportato la gatta Duchessa e non ho mai veramente accettato che Romeo se ne fosse innamorato, un fatto increscioso per cui mi sono imposto — non senza fatica — due spiegazioni: la prima, attribuire a Romeo le stesse motivazioni per cui, in Papà Goriot di Balzac, il giovane Rastignac, secondo i consigli del malvagio Vautrin, avrebbe dovuto sposare Victorine: i soldi dell’eredità. La seconda, attribuire a Romeo le stesse motivazioni che portarono Massimo D’Alema a pubblicare con Mondadori: combattere il nemico dal di dentro.)

Non sarebbe stato giusto, in generale, lungo il corso del ‘900, apportare dei correttivi alle disuguaglianze senza che ci pensassero due guerre mondiali, i grandi traumi come la Rivoluzione Russa o la Crisi del 1929, le catastrofi di bilancio conseguenti, il crollo dei portafogli esteri di stati coloniali come Gran Bretagna e Francia in seguito alla decolonizzazione?
Non sarebbe stato giusto, per viaggiare adesso in un recente passato esotico, dividere in modo più equo i benefici della rendita petrolifera tra Kuwait (che ha meno di due milioni di abitanti ed è grande poco più del Molise), Iraq (che ne ha 35 milioni), Arabia Saudita (che ne ha 20 milioni), visto anche che i loro confini erano stati stabiliti da protettorati stranieri e forze di occupazione?
Se trovo nel mio giardino una ricchezza superiore a tutti i patrimoni del paese messi insieme, è plausibile che intervengano leggi per una ragionevole condivisione di queste risorse, no?
L’amico liberista è tornato, è allegro (gli hedge funds devono aver avuto un leggero rialzo) e risponde: se trovi nel tuo giardino un pozzo di petrolio, hai avuto un gran culo: stai zitto e porta a casa.
È giusto che nel 2012, in una miniera di platino a Johannesburg di proprietà della compagnia londinese Lonmin, gli operai abbiano protestato contro le enormi differenze salariali tra loro e i quadri dirigenti, chiedendo un aumento da 500 a 1000 euro mensili, prima di restare uccisi in 34 dai militari intervenuti?
L’amico liberista è fuggito di nuovo. Hedge funds della Lonmin!

Era giusto che nel 1850, dopo mezzo secolo di crescita ininterrotta dell’industria, di innovazioni tecniche, fatica, esodi biblici, la situazione delle masse restasse miserabile al punto che l’Inghilterra dovette vietare per legge il lavoro in miniera ai minori di 8 anni?
Questo se lo chiese Karl Marx. Noi oggi, con la massima umiltà, potremmo chiederci invece se sia giusto che in un presente così libero, leggero, tecnologico, smart, chi presta servizio a un’azienda come Amazon — fatturato di circa 235 miliardi di dollari l’anno — debba lavorare in queste condizioni.
È stato giusto — off topic — lasciare che alcune città basassero la creazione di ricchezza sul rendimento da capitale (anche soltanto a un livello base: l’affitto turistico di una proprietà immobiliare), vincolando a essa la propria crescita al punto da farne il cardine indispensabile?

Non sarebbe giusto che le banche centrali, per tornare alla gravità del presente, emettessero le liquidità necessarie per evitare i fallimenti bancari a catena e la conseguente sciagura sociale, come fecero nella Crisi del 2008 e come non fecero nella crisi del 1929 (secondo i dettami del presidente Hoover: “abbattere le anatre zoppe”)?
Non sono, le banche centrali, i prestatori di ultima istanza nelle fasi di panico, e le uniche istituzioni pubbliche capaci di evitare, in stato d’urgenza, il crollo completo dell’economia e della società?
L’amico liberista un mese fa avrebbe risposto: le banche centrali, come sai, devono limitarsi a mantenere bassa l’inflazione, non sono state create perché i paesi produttivi soccorressero i paesi pigri; ma oggi non ne è più sicuro e preferisce tacere.
A tutte queste domande, come ai dilemmi che hanno anche una natura morale (e all’accezione stessa del concetto di “giusto”) si può rispondere in molti modi. La validità delle risposte che Thomas Piketty elabora nel corso delle 928 pagine di Il capitale nel XXI secolo non è dimostrata soltanto secondo principi etici — benché una lunga serie di esempi storici sia illuminante anche in questo senso — ma sulla base di innumerevoli analisi, dati e statistiche incrociate: prima ancora che ripristinare una maggiore equità, ridurre le disuguaglianze porterebbe benefici ad alcuni miliardi di individui e allo stesso futuro del pianeta.
Le soluzioni, proposte ormai sette anni fa, sono più che mai attuali. Il fatto che non sia stato accolto bene da marxisti ortodossi e liberali duri e puri ne potrebbe certificare il valore.
Il concetti fondanti del libro sono due:
- la disuguaglianza fondamentale si crea se la rendita del capitale supera di molto il tasso di crescita;
- la soluzione per ridurre le disuguaglianze è un’imposta mondiale, annua e progressiva, sul capitale.
Ovviamente anche in passato sono stati fatti dei tentativi di riduzione delle disuguaglianze sulla base di tassazioni sul patrimonio, e il volume ne dà ampiamente conto. La proibizione dell’usura andava in questa direzione, ed è stata senz’altro un passo avanti per contrastare la riproducibilità esponenziale e praticamente automatica del capitale; l’instaurazione del totalitarismo sovietico e l’abolizione della proprietà privata, invece, hanno mostrato, per così dire, alcune criticità. Sono state create imposte sui redditi elevati (negli stessi Stati Uniti, con Hoover, prima della Grande Depressione, era al 25%, con Roosevelt arrivò all’80%; con Clinton, in tempi recenti, si attestò sul 40%).
Ma la sola idea veramente efficace, secondo la proposta di Piketty, è l’imposta mondiale annua e progressiva sul capitale: avrebbe l’obiettivo non di finanziare lo stato sociale (al massimo integrerebbe le imposte già esistenti) ma di regolare il capitalismo; risparmierebbe i patrimoni più modesti e chiederebbe di più ai patrimoni più elevati; si applicherebbe all’insieme degli attivi, e non solo ai depositi bancari (in quanto è proprio il resto degli attivi, ovvero quelli finanziari ad altissimo rendimento — azioni non quotate, fondi speculativi come gli hedge funds, prodotti derivati — a costituire oggi la maggiore fonte di disuguaglianza e di riproduzione esponenziale dei capitali); sarebbe soprattutto legata a doppio filo alla creazione di una sorta di catasto bancario e finanziario mondiale, in grado di creare trasparenza democratica e finanziaria sui patrimoni, condizione necessaria per regolare il sistema bancario e i flussi finanziari internazionali, e far prevalere l’interesse generale sugli interessi privati, oltre a salvaguardare l’apertura economica e le forze di concorrenza. Traccerebbe, last but not least, i “paradisi fiscali”, capaci, secondo le ricerche dell’economista Gabriel Zucman su dati trapelati dal ramo svizzero del gruppo bancario HSBC, di ospitare centinaia di miliardi di dollari invisibili alle autorità fiscali; o i conti della stessa Lonmin citata sopra, i cui bilanci pubblicati non consentono nemmeno di calcolare con esattezza la distribuzione delle ricchezze prodotte tra profitti e salari.
È ormai un’ipotesi molto fondata che la zoonosi (trasmissione dagli animali all’uomo) del virus SARS-CoV-2, e prima ancora di quelli responsabili di ebola, SARS, influenza aviaria e suina, sia avvenuta a causa di fattori come il commercio incontrollato di specie animali selvatiche e la distruzione dei loro habitat naturali; i virus, per il salto di specie da animali a uomo (il cosiddetto spillover) necessitano innanzitutto di vicinanza all’uomo: con la modifica degli ecosistemi, l’uomo ha favorito da solo le condizioni perché questo contatto avvenisse (qui un approfondimento).
Se c’è un tema che Piketty avrebbe potuto approfondire, e a cui invece dedica solo poche pagine e alcuni buoni propositi (quelli del Rapporto Stern sul riscaldamento globale, che propone di usare 5 punti di PIL mondiale annuo per limitare i danni ambientali, ma non chiarisce chi dovrebbe decidere come investirli) è quello del rapporto tra produzione/crescita/capitali e ambiente.
Ma se è vero che sarà necessario ripensare il rapporto tra l’uomo e le sue modalità di sfruttamento degli ecosistemi, per fini sanitari prima ancora che etici (è vero: lo sarà), allora sarà necessario, come Piketty spiega nel modo più esaustivo possibile, ripensare dalle fondamenta l’intero sistema economico.