Nel febbraio del 2022, grazie alla curatela di German Duarte, è stato ripubblicato per i tipi di Krisis Publishing Il corpo virtuale, un testo di Antonio Caronia uscito in origine nel 1996. Caronia è una figura non facilmente collocabile nel panorama intellettuale italiano, al tempo stesso centrale ed eccentrica. Centrale perché il lavoro dell’intellettuale genovese sull’informazione e i media, in particolare quelli digitali, è di grande interesse e valore per l’agio con cui i suoi scritti si muovono tra la cultura alta e quella popolare, per il modo in cui riesce a ritrovare nella storia della cultura e del pensiero elementi con cui tracciare le genealogia dei suoi riferimenti e per la sua capacità di preconizzare gli sviluppi futuri dei suoi oggetti di studio. Caratteristiche che ho avuto modo di apprezzare prima leggendo i testi raccolti nel volume Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, anch’esso di recente pubblicazione per Mimesis Edizioni, e successivamente lavorando a un profilo di Caronia pubblicato su Il Tascabile.
Eccentrico perché è anomalo il modo in cui Caronia ha strutturato il suo percorso di intellettuale, muovendosi dal mondo della militanza politica a quello delle riviste controculturali per approdare infine all’accademia, dove si è sempre distinto meno per le velleità di carriera e molto di più per la passione per l’insegnamento, come testimoniano le profonde relazioni che ha saputo stringere negli anni con le sue studentesse e i suoi studenti, molti dei quali oggi portano avanti i filoni di riflessione caratteristici del suo pensiero, occupando posizioni di rilievo nel dibattito critico nazionale e internazionale sulle tecnologie digitali. Tra questi filoni ce n’è uno che mette il corpo al centro dell’attenzione del pensiero di Antonio Caronia. Il volume oggetto di questa recensione, come si evince anche dal titolo (Il corpo virtuale), è dedicato proprio a questo argomento.
Il corpo, per Caronia, è infatti lo spazio liminale in cui avviene l’incontro tra oggetto e soggetto. Nel corpo le cose esistono, ed esistendo generano il soggetto. È questa caratteristica che rende così importante la relazione tra il corpo e le tecnologie in tutta la sua riflessione, perché il modo in cui le seconde modificano il primo apre a tutta una nuova teoria del soggetto e delle cose che attraverso il suo corpo possono esistere. È lungo questa linea di riflessione che appaiono, anche in questo testo, i temi della replicazione, dell’invasione e della disseminazione del corpo a opera delle tecnologie. Una traiettoria che ha inizio con la lunga serie degli uomini artificiali (omuncoli, golem, automi, robot), i quali testimoniano l’atavico desiderio dell’uomo di sfuggire alla morte attraverso la riproduzione artificiale del suo stesso corpo in forma di macchina; prosegue con la figura perturbante del cyborg, l’uomo che fa di se stesso una macchina, lasciandosi invadere dalla tecnologia per migliorare e aumentare le proprie facoltà, espressione di un Io immerso nel flusso di informazioni e incapace di dominare un paesaggio in cui le cose e le loro rappresentazioni si sono fatte sempre più indistinguibili; e termina infine con la dissoluzione del corpo, che viene smaterializzato e disseminato nelle reti di comunicazione informatiche, finendo per indebolire il suo rapporto con l’identità.
Nel porlo al termine di questa parabola, che qui ho provato a descrivere nel volgere di un breve paragrafo, l’avvento delle tecnologie digitali segna, per Caronia, l’aprirsi di un regime in cui la possibilità travalica e prevale sull’attualità. Possibilità che deriva proprio dalla disseminazione del corpo, che rende quest’ultimo fluttuante, instabile e incapace di incarnare un’identità fissa, di continuare a segnare il confine tra esterno e interno, questo perché il primo è caratterizzato da una capillare diffusione di tecnologie dell’informazione che permettono di ricevere le proiezione dello spazio interiore del soggetto disseminato.
Quella che si spalanca in questo scenario è dunque una dimensione post umana dell’esistenza, che oscilla infinitamente tra il naturale e l’artificiale e, così facendo, avrebbe, per Caronia, la capacità di “ricongiungerci al nomadismo e al tribalismo della nostra storia paleolitica senza avere, in questo modo, il significato di un nostalgico ritorno alle origini. Avrebbe, al contrario, il senso di un utilizzo davvero pieno e integrale delle tecnologie di comunicazioni attuali, la messa in campo di una unificazione dell’umanità basata non sull’astrazione di una verità che abita un regno distante e ostile, ma sulla concretezza, sul movimento, sull’immediatezza, sul calore dei corpi, anche se si tratta dei cyborg elettronici e dei corpi disseminati dell’era digitale. Per avviare un nuovo scambio simbolico, un nuovo general intellect, una mente davvero collettiva, che non prescinda più, questa volta, dal corpo.”
A leggere frasi di questo tenore oggi si potrebbe essere tentati di tacciare di ingenuità il pensiero e le riflessioni di Caronia. L’odierno entusiasmo verso le nuove frontiere dello sviluppo delle tecnologie digitali (crypto e web3) sembra essere diffuso soprattutto in cerchie ristrette di sviluppatori e capitalisti di ventura interessati a proseguire un discorso economico, piuttosto che suscitare l’interesse di intellettuali, critici e artisti per le sue potenzialità liberanti. Al contrario, la riflessione critica sulla tecnologia sembra essere improntata a un diffuso pessimismo per quelli che appaiono i suoi lati più oscuri e controversi.
Si prenda per esempio la riflessione sulla natura dell’attenzione proposta nel quarto numero del terzo volume di The convivial society, la newsletter dedicata alla cultura e alla tecnologia curata dallo scrittore esperto di tecnologia L. M. Sacasas. Siamo abituati, dice Sacasas, a considerare l’attenzione come una facoltà che agiamo o rivolgiamo verso qualcuno o qualcosa. Meno consueta e diffusa è la consapevolezza della natura bidirezionale dell’attenzione. Essa è dunque una facoltà che può anche essere agita e rivolta da qualcuno o qualcosa (persone, istituzioni e anche macchine) verso di noi.
Partendo da questo presupposto, Sacasas fa notare come l’esperienza di essere oggetto dell’attenzione di un soggetto altro da noi costituisca un tratto distintivo della condizione contemporanea dell’essere umani. Il soggetto altro a cui lo scrittore americano fa riferimento nel suo testo sono le macchine; più nello specifico, una classe di macchine in particolare, ovvero i computer.
La fase di sviluppo della rivoluzione digitale in cui ci troviamo a vivere oggi è caratterizzata infatti dalla sempre più pervasiva e costante disseminazione delle tecnologie e delle logiche computazionali in un vasto numero di oggetti della vita quotidiana. A spingere questa fase sono concetti come quelli di Internet of Things o di ubiquitous computing, la cui funzione appare accordarsi all’esigenza di incrementare la magnitudine delle operazioni estrattive che costituiscono la base del capitalismo delle piattaforme.
L’economia delle piattaforme – social network, siti di e-commerce, app di delivery, software venduti con logiche di servizio – si basa infatti sulla cattura del ciclo di produzione, raccolta, gestione ed elaborazione dei dati. Un ciclo che può essere incrementato solo a condizione di trasformare in terminali capaci di produrre e trasmettere dati il maggior numero possibile di oggetti di uso quotidiano.
È in questa dinamica di inarrestabile ampliamento del set di operazioni che trasforma i nostri comportamenti, azioni e gusti in flussi di dati collezionabili e analizzabili che risiede il progressivo affermarsi di quello sguardo inquietante e misterioso che le macchine rivolgono verso e contro di noi. Il mistero e l’inquietudine, dice Sacasas, nascono dalla consapevolezza della natura non umana di questo sguardo. Natura che si mostra nella capacità che questo sguardo possiede di avvolgerci senza soluzione di continuità, nel suo operare in modo del tutto automatizzato restando indifferente alle nostre individualità e nel modo in cui è capace di inferire su di noi tutta quella serie di conoscenze che decidiamo più o meno consapevolmente di omettere o lasciare in ombra quando costruiamo le maschere sociali con cui ci presentiamo agli altri sui social media.
Una consapevolezza, quella dell’esistenza di questo sguardo, che, in un mondo di oggetti sempre più invasi e trasformati nelle loro funzioni dai dispositivi computazionali, non può che moltiplicarsi e, nel moltiplicarsi, agire su di noi. Essere oggetto dell’attenzione di uno sguardo alieno, indifferente e invisibile ha come effetto quello di operare tutta una serie di forme di disciplinamento dei soggetti verso cui è rivolto. Il disciplinamento operato dallo sguardo delle macchine computazionali descritte da Sacasas assume, data la loro natura di operatori di calcolo, i caratteri della formattazione. Sottoposti all’azione del loro sguardo, gli esseri umani tendono progressivamente a uniformare i loro comportamenti ai parametri imposti loro dalle macchine, per soddisfarli in un ciclo di stimolo e risposta che si rinforza a ogni ripetizione.
Potremmo dunque provare a definire quello descritto da Sacasas come il processo di un divenire cyborg. Ma è un divenire cyborg alquanto diverso da quelli che sono oggetto degli scritti e delle riflessioni raccolto ne Il corpo virtuale di Antonio Caronia, perché a caratterizzarlo sono soprattutto le operazioni di uniformazione che l’azione dello sguardo delle macchine determina negli esseri umani, facilitando così il modo in cui le piattaforme conducono le loro operazioni estrattive.
Una visione dello sviluppo tecnologico oggi incredibilmente diffusa – lo dimostra la grande fortuna critica toccata in sorte a un testo come Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, a cui Sacasas fa esplicito riferimento nel suo scritto – in cui l’effetto dell’interazione tra piattaforme e persone appare sempre e solo alla luce di un rapporto di sfruttamento da parte delle prime sulle seconde. Un rapporto che, è la tesi di Zuboff, ha origine come effetto di una mancanza di regolazione che ha permesso alle piattaforme di crescere e strutturarsi nella forma di oligopoli. Pertanto la soluzione che l’accademica americana propone allo sfruttamento delle dinamiche di sorveglianza da parte delle piattaforme non è la messa in discussione della natura estrattiva del capitalismo, ma il ritorno a una forma di capitalismo regolata e controllata, che ne impedisca e prevenga eventuali abusi. Di fronte a simili riflessioni, sembra che la fiducia nel potenziale liberante delle tecnologie che aveva caratterizzato l’analisi a cavallo della svolta del millennio sia oggi una prospettiva critica e teorica ormai completamente tramontata. È per questo che è importante che un testo come Il corpo virtuale di Antonio Caronia ritorni disponibile sul nostro mercato librario proprio in un momento in cui la riflessione sulla tecnologia è dominata da visioni al tempo stesso pessimiste e discutibili come quella di Zuboff che, a un’analisi serrata, si dimostrano politicamente insostenibili per chi si ponga come obiettivo una prospettiva di superamento del sistema economico capitalista. Ritornare a confrontarci con quella dimensione utopica che a lungo ha caratterizzato la riflessione sulla tecnologia e i media digitali è importante; non tanto per giudicarne, con il senno di poi, eventuali ingenuità (che ovviamente esistono) quanto, piuttosto, nella capacità che tali riflessioni dimostrano nello stimolare l’idea che nessun esito dello sviluppo umano sia dato in partenza e che c’è( sempre) la possibilità di indirizzarne gli esiti verso vie di fuga che portano lontano dal mondo così come siamo stati abituati a concepirlo, in direzione degli universi del possibile, dove tutto è ancora da decidere e il futuro non è scritto.