Don’t Look Up, dopo aver monopolizzato i social durante tutte le feste, è diventato il secondo film più visto di sempre su Netflix. Di Adam McKay, e con un cast eccezionale che va da Leonardo di Caprio, a Jennifer Lawrence, passando per Meryl Streep, Rob Morgan, Cate Blanchett, Jonah Hill e Timothée Chalamet, l’opera ha diviso il pubblico, tra chi lo osannava come capolavoro e chi proferiva giudizi negativi altrettanto tranchant, tanto che veniva spontaneo chiedersi se quelle persone avessero effettivamente visto lo stesso film. Ed è proprio questa la capacità che dobbiamo riconoscergli: se la verità – o ciò che potremmo approssimativamente definire come tale – sta nel mezzo, il fatto che un prodotto culturale susciti opinioni tanto discordanti è già segno che qualche obiettivo lo raggiunge.
La satira di Don’t Look Up descrive con una fedeltà spaventosa ciò che probabilmente accadrebbe se davvero oggi si presentasse una situazione analoga: un’enorme cometa diretta inesorabilmente contro il nostro pianeta; e al tempo stesso è capace di mettere a tema le reazioni sociali di fronte a un pericolo globale (come può essere una pandemia o l’emergenza climatica), le disparità di classe, razzismo e sessismo, la mediasfera, il progresso digitale e tecnologico, la polarizzazione del pensiero, la scarsità delle materie prime, censura e complottismo, divisione ideologica della società, scienza in quanto strumento politico prima che di conoscenza (ignorata quando non fa comodo a indirizzare le masse e sfruttata quando serve invece a ottenere consensi), il peso della responsabilità del singolo e al tempo stesso influenza delle istituzioni, e per finire il tabù del dolore e della morte – che ci ostiniamo a ignorare. E la cosa straordinaria è che riesce a farlo in maniera semplice, immediatamente comprensibile da chiunque e senza particolari sforzi cognitivi, proprio perché mette in scena il nostro mondo, andando a renderne le caratteristiche ancor più assurde e caricaturali.
Don’t Look Up è un film che fa pensare, un’ucronia che porta la realtà in cui siamo già immersi alle sue estreme conseguenze. Viene dipinta un’umanità miope e orgogliosa, presuntuosa, cinica, edonista, egoista e ottusa, la stessa che da millenni gli scrittori e le scrittrici continuano a raccontare, ma di cui stentiamo in maniera piuttosto ipocrita a sentirci parte. Eppure, il cambiamento necessario a salvare il nostro habitat dovrebbe partire proprio dalla presa di coscienza dei nostri limiti e delle conseguenze delle nostre azioni, che non sempre abbiamo sotto gli occhi. Non a caso il film si sviluppa proprio intorno al tema del vedere e del riconoscere.
La cometa significa morte certa, ma finché non appare nel cielo nessuno ci vuole credere, né men che meno confrontarsi con la sua esistenza e con ciò che significa. Gli stessi scienziati che individuano la cometa (la dottoranda Kate Dibiasky e il dottor Randall Mindy) infatti fanno fatica ad accettarla emotivamente. Si genera così una violenta spaccatura ideologica tra “sopraguardisti” – trattati come menagrami catastrofisti – e quelli che urlano a gran voce di non guardare sù, di affidarsi alle istituzioni e nelle soluzioni che propongono, riconducendo alla normalità un evento assolutamente naturale e assurdo al tempo stesso per la ragione umana. C’è chi guarda al problema, riconoscendolo, anche se troppo tardi, e chi invece stolidamente si rifiuta di farci i conti, distraendosi in tutti i modi possibili e anzi, prendendo di mira chi si rifiuta di fare lo stesso. Allo stesso modo le istituzioni guardano al disastro monetizzandolo, cogliendone gli aspetti più strettamente legati alla crescita economica: la finanza appare più importante di qualsiasi economia reale e del lavoro concreto, per non parlare dei lavoratori che lo svolgono. La crisi fa lievitare profitti e risveglia settori economici impantanati, oltre a rivelarsi un possibile pretesto per far riconquistare all’America l’egemonia sul pianeta. La capacità della scienza di tracciare una strada per il futuro viene così messa in discussione e minata alle fondamenta dalla politica, dai media e della tecnologia, poteri strettamente interconnessi che operano secondo regole condivise. L’autorità dell’imprenditore “visionario” Peter Isherwell – che non vuole essere definito come tale per nulla al mondo e “che ha comprato la Bibbia di Gutenberg e poi l’ha persa” – supera ampiamente quella degli scienziati, a loro volta considerati dalla presidente Jenie Orlean e dalla sua cerchia come figure fastidiose perché troppo sincere e “perfezioniste”, che risultano più difficili da controllare.
La presidente nomina come esponenti della Corte Suprema figuri senza qualifiche e protagonisti di scandali sessuali, dà un ruolo istituzionale al figlio, cela la catastrofica scoperta per non rischiare di perdere le elezioni di metà mandato, e al tempo stesso usa poi la notizia dell’imminente catastrofe per aumentare i suoi consensi grazie al suo presunto impegno per scongiurarla. La scienza viene ascoltata dalla politica solo quando le fa comodo, ma è comunque meglio di niente, è il massimo a cui gli scienziati nel film possono ambire, una comparsata in tv. L’abietto personaggio di Orlean mostra senza alcun pudore il lato oscuro di qualsiasi potere, che rischia di inficiare ogni individuo che lo rappresenta e pur di rendere di nuovo l’America (e se stessa) great again, finisce col distruggere il mondo. Insomma, chi ha il potere finge di voler salvare il pianeta solo per ottenere consensi e potrebbe anche riuscirci, ma sceglie di non farlo per riuscire a guadagnarci e ribaltare la minaccia a proprio favore, in modo da non dover rinunciare al ruolo di leader globale indiscussa in un mondo fatto di competitor sempre più potenti.
Il film, grazie a un’ampia platea di personaggi, mostra tutti i tipi umani con cui abbiamo quotidianamente, direttamente o indirettamente a che fare, nessuno è escluso, e tutti appaiono ridicoli e tragici al tempo stesso, umani appunto. A mezzi più sofisticati non corrisponde un’altrettanto raffinata evoluzione della mente e della condotta umana. Anzi. Come ha sottolineato anche il filosofo Byung-Chul Han in L’espulsione dell’Altro l’enorme massa di dati e di informazioni che oggi abbiamo a disposizione non creano in realtà nuovo sapere, e men che meno consapevolezza – unica qualità necessaria per innescare il cambiamento sempre più urgente per evitare di andare incontro a un futuro tremendo e di estinguerci. La conoscenza infatti porta a una trasformazione e a un nuovo stato di coscienza, ma come continua Byung-Chul Han ormai “si prende atto di tutto senza mai giunger[vi]”, bramiamo “esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui però si resta sempre uguali”. Resta una correlazione incapace di individuare qualsiasi rapporto di causalità. La domanda circa il perché delle cose – che non a caso si sono chiesti per primi i medici dell’antichità – diventa superflua e viene sostituita dal “è così” degli algoritmi. Questa cecità – o desiderio di cecità – per l’evento, è assolutamente comprensibile e condivisibile ma è al tempo stesso proprio ciò che Martin Heidegger chiamava “l’oblio dell’essere”. E questo è il motivo per cui non stiamo imparando niente nemmeno da questa pandemia.
L’algoritmo del BASH LiiF – lo smartphone creato da Isherwell in grado di anticipare l’umore dell’utente – compra autonomamente i brani musicali ai figli del dottor Randall Mindy perché sa già che loro lo farebbero comunque, credendo così di ridurre la distanza che dà vita al desiderio e soddisfare la loro richiesta esistenziale. L’intelligenza artificiale sviluppata dalla BASH risponde ai bisogni degli esseri umani prima ancora che loro stessi ne abbiano la consapevolezza ed è in grado di prevedere il futuro, mentre gli esseri umani diventano sempre più incapaci. Le persone appaiono come sequenze di bisogni meccanici, tutti uguali. Ma questa promessa in realtà è una trappola. L’io, uniformato in questo modo, si dimentica di esistere, perché l’identità per definirsi ha bisogno di prendere le distanze dal mondo. L’io uniformato è solo apparentemente vicino agli altri, ma in realtà è perso, solo, senza tensione e significato, perché la sua unicità viene annichilita.
Ogni personaggio reagisce alla catastrofe restando incastrato all’interno della propria realtà, perché non è in grado di scorgere i confini e le dinamiche di un sistema collettivo, di una diversità composita. L’unico, estremo gesto di totale presenza è quando Kate e Randall sbroccano davanti alle telecamere. Non essendo in alcun modo in grado di comunicare con l’altro come unico tentativo sbraitano e urlano, ma questi episodi di disperazione vengono presi dal resto del mondo come un exploit di ridicola follia, una perdita imbarazzante di padronanza di sé. Il dolore, reale, appare così grottesco. Ogni reazione al pericolo appare dissociata, la preoccupazione dei personaggi non è mai tragica ma farsesca, perché autoriferita e questo viene amplificato dalla società che li circonda. L’evento cosmico viene minimizzato oppure ognuno lo riconduce alla propria minima soggettività. Nessuno è autentico e nessuno crede più a nulla. L’apice della comunicazione è la farsa e la ricerca tecnica – senza telos (il fine, l’obiettivo)– è ormai fuori controllo: invece che aiutare l’uomo ad adattarsi al meglio lo invita e lo spinge a disadattarsi, pur di apparire necessaria e portare ricavi. Le potenzialità del reale, in questo scenario, sembrano così terminate e quindi anche il pianeta appare sacrificabile. Nel momento in cui l’uomo è così scollegato dalla sua vita e dalla sua esperienza anche il suo habitat per lui perde significato.
Essendo Don’t Look Up un quadro composito, ciascuno ci vede ciò che vuole e di volta in volta si soffermerà sui temi con cui è portato a entrare più in risonanza. È questo il vero meccanismo ironico del film, che agisce sottotraccia: mostrare quanto la nostra visione sia intimamente connessa ai nostri pregiudizi cognitivi, che altro non sono che malattie dello sguardo, in grado di distorcere qualsiasi possibile analisi oggettiva, rendendoci in primis vittime di noi stessi e di ciò che siamo (o crediamo di essere): persone che per nessuna ragione sono disposte a mettersi in dubbio, nemmeno quando l’unica possibilità di sopravvivenza è proprio connessa alla capacità di discernere e al cambiamento che ne deriva. La cosa che fa sorridere amaramente è che la tragedia non viene da chissà quale astuto e celato complotto o complottismo, quanto dalla nostra solita stupidità ed egoismo (prevedibili ai limiti del noioso), nonché dal completo fallimento degli algoritmi, fatti non a caso a immagine e somiglianza delle più basilari strutture della nostra mente.