Fuoco
All’arrivo a Fara San Martino, la sera del 31 luglio, il paese è intrappolato in una bolla di calore. È la porta d’ingresso alla Majella, vicinissimo ai costoni, a quattrocentoquaranta metri di altitudine, eppure la pavimentazione a rombi dell’unico viale che può ricordare un centro storico emana calore, i tavoli della yogurteria della piazzetta centrale (una yogurteria “straordinaria”, secondo numerose recensioni) sono roventi, le pareti dei palazzi rilasciano correnti calde, la mansarda dove (non) dormiremo è una sauna. Il giorno dopo, alla yogurteria, ci diranno che in paese “non ha dormito praticamente nessuno”. Tra le cause ci sono gli incendi che stanno distruggendo il litorale da Ortona a Vasto, e la conseguente, enorme palla caliginosa che si è spostata verso i monti. Secondo una statistica, il 2% degli incendi provoca l’80% della devastazione. Le previsioni dicono che gli incendi aumenteranno, sia per via degli estremi climatici di cui vediamo sempre più spesso gli effetti, sia perché molti territori, con la diminuzione di agricoltura e pastorizia, stanno diventando “più infiammabili”. Un orto difficilmente brucia; un orto abbandonato che diventa macchia mediterranea brucia invece benissimo. Ogni anno accogliamo gli incendi con due reazioni contrastanti: prima la sorpresa, come se fosse un evento impossibile; poi una velocissima accettazione del fatto, come se fosse un evento normale, un rito estivo non meno consueto della sagra del calamaro.
De Cecco
Incassata nella gola che separa il colle di Fara San Martino dall’impressionante parete est del massiccio, si svela la gigantesca fabbrica di pasta De Cecco. Verrebbe subito da immaginarsi, tutto intorno, floridi campi dorati percorsi in lungo e in largo da donne formose con in braccio enormi fascine di grano, come da marchio storico: invece l’immensa azienda sprofonda nel silenzio, come i suoi silos alti quaranta metri, e i suoi vari distretti, e le centinaia di automobili in sosta anche di notte.
Palombaro
Per raggiungere qualsiasi punto del versante orientale della Majella accadrà di passare per Palombaro, o di vedere, prima o poi, indicazioni stradali per Palombaro. Possibile che un paese di accesso a vette che sfiorano i tremila metri abbia questo nome? Sì, dal momento che verosimilmente deriva dal latino palumbus (colombo), unito al suffisso arius (quindi “luogo dove covano i colombi”), oppure direttamente da palumbarius (un falcone particolarmente ghiotto di colombi) o, ancora, da palummane che, in gergo, era un palo che si teneva in mano, ipotesi che sarebbe avvalorata dallo stemma del paese: il braccio nudo di un uomo che regge una clava, come una sorta di Ercole dei Marsi. Risolto un problema, se ne apre un altro: e allora, il palombaro-sub? Probabilmente è ciò che scopriremo nel prossimo viaggio.
Vrache di mulo
Ci dicono che il piatto tipico della zona sono le vrache di mulo. Stiamo già pensando al peggio, ma ci rassicurano: “ma no, che avete capito, ahahah, è solo un tipo di pasta simile, per la forma, alle briglie posteriori utilizzate per fissare il basto all’animale”.
Sì, ma a parte la forma, qual è la particolarità?
“è un sugo misto…”
Misto, cioè? Con cosa è fatto?
“carni varie… Funghi…”
Ma quali carni? A questo punto, come a volte gli succede, l’abruzzese di queste parti si blocca: non lo sa. Nessuno lo sa.
Feudo Ugni
La mattina prestissimo partiamo (da Palombaro, naturalmente) per la scalata a Feudo Ugni e ai duemila metri del rifugio Martellese. I primi mille metri di dislivello in salita – secchi, senza tregua – si conquistano all’ombra di una gola strettissima e boscosa, dove il tetto di aceri, sorbi e frassini lascia vedere solo piccoli spicchi di cielo. Man mano che il sudore gronda e il bosco si dirada, il canyon si apre rivelando un panorama maestoso, primordiale: le pareti calcaree che poco prima concedevano appena una fessura opprimente, adesso si spalancano in una vallata erbosa, punteggiata qua e là da qualche enorme macigno solitario – del quale è lecito domandarsi la storia e il destino – e aperta su crinali sopra i quali non c’è più nulla se non i volteggi e i richiami dei gracchi corallini, e dai quali è possibile vedere il mare Adriatico, il Gargano, le Tremiti. I quattrocento metri di dislivello che precedono la vetta sono una coltre compatta color verde cupo, verso cui siamo stati da più parti messi in guardia: è il profumato e ostico regno del pino mugo.
Mugheta
La mugheta non è il passo di una danza navarra, è una macchia arbustiva, per l’esattezza di pino mugo, una pianta bassa e contorta, possiamo dire nana, e forse è per questo che la foresta di pino mugo non si chiama pineta: perché richiamerebbe un respiro, un’altezza e un’ombra che non è capace di dare. Benché privo di slancio, il pino mugo eccelle in tenacia. Cresce a quote superiori ai milleottocento metri, dove quasi nessun altro albero è in grado di sopravvivere. Colonizza le zone più ripide e aride. D’inverno si prostra a terra sotto il peso della neve. Si estende in un reticolo di radici attorcigliate finché la sua macchia verde scuro copre interi ettari di crinale. Il pino mugo, alla lunga – alla lunga: dopo aver percorso centinaia di metri di dislivello in salita cercando di non finire con la faccia sfregiata dai suoi ciuffi di aghi durissimi e taglienti, dopo aver salvato per miracolo tibia e perone da un groviglio di radici che sporgevano come tentacoli dal sentiero, dopo aver constatato la sua aperta ostilità verso la più ampia moltitudine di creature – è una pianta francamente antipatica, ma la sua scarsa presenza in Appennino e il manto morbido (almeno a vederlo da lontano) con cui sembra rivestire zone altrimenti brulle ci inducono alla clemenza.
Lati
L’abruzzese di montagna sorpassa male su una curva sì e sull’altra sissignore, vede il futuro nello spiedo e nel trattore, crea cantieri stradali seguendo logiche casuali, mangia pane porchettato, ci mette un giorno a tirar su una faida e otto generazioni a interromperla, con una mimetica intonata al cappello è già di diritto l’intellettuale del paese; ma ha anche dei lati negativi. L’abruzzese di montagna lascia scorrere le stagioni in silenzio, più o meno immune anche al mese di agosto e alla calendarizzazione forzata della distrazione, una stasi che ha già triturato campionati europei, vaccini, varianti, emendamenti sulla giustizia, decessi eccellenti, ori olimpici e incendi. L’abruzzese di montagna sa bene che un agosto così cancella anche la cronaca nera.
Il matto
Nonostante sia ciò che desiderate di più, sarà difficilissimo vedere un orso marsicano. I pochi esemplari di questa specie estremamente elusiva (le ricerche stimano gli esemplari presenti sulla Majella in un numero compreso tra 3 e 5) risiedono sul versante meridionale dei monti Pizzi, non lontano dalle gole in cui viaggia tra faggete e valli aperte un trenino turistico con vagoni anni venti ribattezzato “la Transiberiana d’Italia”. In compenso sarà piuttosto facile vedere dei matti. Ne abbiamo osservato uno per circa un’ora. Si trovava nella piazzetta di Fara San Martino. Reggeva in mano una scopa e una paletta. Il matto – furbo come una martora, altra interessante specie presente nel parco – era uscito di casa ben consapevole che inventarsi un intento civico, ad esempio la pulizia di un marciapiede o della griglia di un tombino, avrebbe distolto gli astanti – inclusi noi – dal vero obiettivo della sua sortita: l’assedio al sindaco. Il matto, stringendo a sé i due oggetti-fantoccio, con un occhio fingeva di perlustrare il selciato alla ricerca di piccoli rifiuti, e con l’altro osservava il sindaco che si avvicinava a piedi dal viale. Sapientemente, gli ha sbarrato la strada un attimo prima che entrasse nel bar. Dopo pochi ma mirati convenevoli – altro sofisticato aspetto della tecnica di predazione – il matto è andato al punto: secondo la nostra sommaria traduzione a braccio dall’ursino all’italiano, il problema riguardava una Yaris blu che qualcuno si ostinava a parcheggiare quasi un metro fuori dal suo perimetro, o forse pochi centimetri fuori dal suo perimetro, o magari dentro il suo perimetro ma con un’angolazione fastidiosa, ad ogni modo era bene che il Primo Cittadino intercedesse quanto prima per bloccare questa mancanza di rispetto, anche perché, volendo o non volendo, è esattamente così che si finisce a spararsi addosso per ventidue generazioni di seguito. Il sindaco ha sorriso, assicurando una rapida risoluzione della diatriba, ed è entrato nel bar. Ma il matto aveva appena cominciato. Rivelando ormai senza vergogna il ruolo di mera copertura affidato a scopa e paletta, si è aggirato fuori dal bar in attesa della preda – evidenziando una strategia basata non tanto sull’agguato, come il gatto selvatico, ma sull’insistenza e lo sfinimento, come il lupo – e quando il sindaco è uscito di nuovo, lo ha definitivamente braccato. Il sindaco ha cercato di tirare dritto per il viale, e il matto gli si è incamminato appresso. Li abbiamo visti allontanarsi, il sindaco e il matto, come due vecchi amici diretti a cena.
Bologna
Saliamo verso la vetta del Focalone la mattina del due agosto, e io ogni due agosto penso anche alla strage di Bologna. Lo scorso anno la principale esponente dell’opposizione – come la definirebbe Walter Veltroni – disse che “dobbiamo ancora scoprire la verità”. Ecco, questa frase è falsa – perché esistono delle sentenze, dunque abbiamo già scoperto molto, magari quasi tutto – ma anche interessante, rivelatrice. Forse un giorno si aprirà una grande, illuminata discussione sulla continua autocritica (fino alla flagellazione) che la “sinistra” ha compiuto negli ultimi trent’anni e, di contro, sull’incessante orgoglio (fino alla rivendicazione) che invece ha avuto verso la propria storia la destra, verso tutta la propria storia, anche gli anfratti peggiori, anche quelli verificati, giudicati, conclamati. Da una parte i Veltroni, col capo perennemente cosparso di cenere, ormai fissi nell’atteggiamento della preda, in difesa, desiderosi di pacificazione ecumenica, ma sempre alle condizioni degli altri, continuamente persuasi a rinnegare tutto, incluse le molte esperienze e idee nobili che dovrebbero invece essere difese con le unghie e coi denti; dall’altra una destra sorda e infrangibile, che non si pente di nulla, non si scusa mai, non ammette autocritica.
Immagino se la strage di Bologna fosse stata opera delle BR: i Veltroni di ogni sorta sarebbero ancora oggi (con ragione) inginocchiati a invocare perdono e riconciliazione. Invece – guarda la Storia com’è bizzarra – è stata una strage fascista, organizzata da porzioni conniventi di Stato e attuata da gente che con la futura prima donna premier condivideva radici e area di riferimento.
Eppure la destra, ignorando (ancora!) le sentenze, chiede di “scoprire la verità”.
Anziché dire, che so, “sono stati commessi degli errori”, oppure dire “anche le nostre frange estreme hanno purtroppo compiuto errori” (non si pretende che dicano “hanno compiuto stragi”, come in realtà è: “errori” già ci sembrerebbe bellissimo), anziché pronunciare, dicevo, una bella frase come “i terroristi di destra hanno commesso alcuni piccoli errori”, cioè una frase che dovrebbe suonare normale, per una destra radicale normale, in un paese normale, nel 2021, la destra italiana, invece, sceglie di dire, in merito alla strage fascista del due agosto 1980, che “dobbiamo ancora scoprire la verità”.
Anfiteatro delle Murelle
Per salire ai 2676 metri del monte Focalone partiamo dai 1888 del rifugio Pomilio. Ai 2000 metri si taglia a mezza costa il monte Blockhaus.
Ai 2100 metri un falco pellegrino adulto sorveglia le esercitazioni di volo del suo pullo.
Seguono una sella panoramica, un sentiero immerso nella mugheta, una fonte di acqua gelida.
Ai 2200 metri appaiono cardi dentellati, vedovine alpestri e i profumatissimi garofani di bosco, ma sopra la testa si staglia il pauroso torrione carbonatico del Focalone.
Ai 2400 spariscono tutte le piante, si rimpiange il vecchio amico pino mugo, si scivola sulla breccia frantumata, cominciano folate improvvise di vento.
Ai 2500 si scorge la sagoma gialla del bivacco Fusco. In alto le nuvole viaggiano a una velocità spaventosa. Il vento costringe ad appiattirsi verso terra.
Ai 2600 le narici si congelano, non si distinguono voci distanti più di un metro, l’unica consolazione è la larghezza del pianoro lunare, limato dai ghiacciai nel corso dei millenni.
Ai 2676 si vede in lontananza la sfera rossa del bivacco Pelino, sul monte Amaro, si fa fatica a tenere in mano il telefono, ci si accuccia a terra, crollano i propositi di raggiungere l’Anticima Acquaviva o lo stesso Amaro.
Il bivacco Fusco è riparato dal vento, e si può finalmente sedere a contemplare lo spettacolo preistorico dell’anfiteatro delle Murelle, simile al cratere di un vulcano, orlato in alto da immense stalattiti.
Ci sono anche dei ragazzi autoctoni. “Guarda! Guarda!”, dice uno di loro. “Risalgono da là, sopra il crepaccio!”
Sta parlando di un branco di camosci. Che non vedo.
“Là! Là! Sotto il margine della rupe!”
Non li vedo.
“Ora sopra, nella parete verticale!”
Io non li vedo. Gli abruzzesi di Majella invece sì.